Lo scioglimento della società per deliberazione assembleare ai sensi dell’art. 2484, n. 6, c.c. non richiede la sussistenza delle condizioni previste dai nn. 2 e 3 della medesima norma, trattandosi di un atto volontario dell’assemblea che esprime la scelta della società di porsi in liquidazione, senza necessità di accertare una paralisi societaria o l’impossibilità di conseguire l’oggetto sociale. L’invalidità della deliberazione è configurabile solo ove essa sia adottata con abuso della regola della maggioranza, inteso come esercizio del potere volto a perseguire esclusivamente finalità personali e divergenti dall’interesse sociale. Non ricorre abuso quando la messa in liquidazione è deliberata con il voto anche di soci non coinvolti nel conflitto interno, non determina vantaggi fraudolenti per i soci di maggioranza e non preclude la proposizione di azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori.
L’art. 2377, co. 8 c.c., applicabile in via estensiva anche alle s.r.l. in virtù del richiamo ai sensi dell’art. 2479-ter, comma 4, c.c., dispone che “L’annullamento della deliberazione non può aver luogo, se la deliberazione impugnata è sostituita con altra presa in conformità della legge e dello statuto. In tal caso il giudice provvede sulle spese di lite, ponendole di norma a carico della società, e sul risarcimento dell’eventuale danno”. Ne deriva che la sostituzione della delibera impugnata con altra adottata dall’assemblea in conformità della legge, facendo venir meno la specifica situazione di contrasto fra le parti, determina la cessazione della materia del contendere, a condizione che la nuova deliberazione abbia un identico contenuto, e che cioè provveda sui medesimi argomenti, della deliberazione impugnata, ferma soltanto l’avvenuta rimozione dell’iniziale causa di invalidità.
In tema di recesso da società cooperativa, la clausola statutaria che preveda la necessaria autorizzazione del consiglio di amministrazione non vale a rendere quest'ultima una accettazione contrattuale, dovendo la stessa qualificarsi, piuttosto, come una condizione di efficacia della dichiarazione unilaterale recettizia del socio; pertanto, in caso di inerzia dell'organo societario, risulta applicabile l'art. 1359 c.c., in virtù del quale la condizione si considera avverata, qualora sia mancata per causa imputabile alla parte che aveva interesse contrario al suo avveramento (Cass. civ sez. 1, 31 maggio 2022, n. 17667).
Il potere discrezionale attribuito dalle clausole statutarie al consiglio di amministrazione o all’assemblea dei soci in ordine all’autorizzazione a recede non può essere esercitato in modo arbitrario, né tradursi in un rifiuto a provvedere o in un diniego assoluto ed immotivato dell’approvazione, altrimenti tali decisioni sarebbero contrarie al principio di correttezza e si verificherebbe una sostanziale vanificazione del diritto di recesso ex art. 2437, co. 3 c.c., che non può essere reso eccessivamente gravoso.
La delibera dell'assemblea dei soci che decide il versamento a titolo di finanziamento da parte dei soci con la finalità di estinguere passività sociali può essere vincolante esclusivamente per i soci che l’hanno votata e non per quelli che non hanno contribuito a deliberarla, atteso che il socio di capitali non può essere obbligato, senza il suo consenso, a partecipare alle perdite con capitale ulteriore rispetto a quello di rischio versato per l’acquisto della quota di capitale sociale.
Le deliberazioni volte a rendere effettive le compensazioni tra debiti sociali e crediti del socio iscritti in bilancio sono nulle per violazione dell’art.2476 c.c., in ragione della non compensabilità del credito verso il socio con il debito verso quest’ultimo per finanziamenti effettuati in forma diversa da quella del deposito a titolo di capitale di rischio.
La mancata previsione normativa dell'organo assembleare nelle società di persone non comporta che ne sia vietata la costituzione e che sia preclusa ai soci, allorquando debbano esprimere il proprio 'consenso' nelle materie di cui agli artt. 2252, 2275, 2301, 2257, comma 2; 2258, comma 2; 2322, co. 2, c.c., la possibilità di riunirsi in assemblea per deliberare appunto, così come richiesto dai detti articoli, all'unanimità ovvero a maggioranza. Tale facoltà rimessa ai soci non è impedita dall’assenza di una normativa ad hoc sulla società di persone sulle modalità di raccolta del consenso (pur contemplandosi il criterio della maggioranza, per teste o quote di interessi o in alternativa il criterio dell’unanimità) e dalla mancata previsione tra gli organi sociali dell’assemblea, chiamata ad esprimere la volontà dei soci. Pertanto, in alternativa alla raccolta separata delle singole manifestazioni di volontà, i soci possono decidere di adottare una delibera formale, sia che il metodo collegiale sia previsto con clausola statutaria, sia che i soci ritengano di adottarlo in via estemporanea. La disciplina applicabile, in via analogica, alla delibera invalida, è da rinvenirsi negli artt. 2377 e ss e non invece nei principi generali sulle patologie dei negozi plurisoggettivi.
In termini generali, deve osservarsi che l’art. 2500 ter cc introduce una deroga rilevante all’art. 2252 cc, posto che consente ai soci di società di persone, salvo che non sia diversamente previsto da disposizione del contratto sociale, di provvedere alla trasformazione con decisione presa a maggioranza, benché la trasformazione rientri nel novero delle decisioni che integrano una indubbia modificazione del contratto sociale. Di detta deroga al principio generale non può che darsi applicazione restrittiva alla sola delibera di trasformazione, non essendo consentito applicarsi il principio maggioritario anche per le modifiche statutarie che certamente non siano necessitate dal tipo societario prescelto. La deroga al principio dell’unanimità dei consensi non può estendersi ad ogni modifica statutaria meramente occasionata dalla trasformazione, in quanto, se è vero che il potere di trasformare la società dà di regola il diritto a riscriverne lo statuto, deve a contrario ritenersi che, quando ad una determinata maggioranza sia stato dato il solo potere di decidere della trasformazione, detto potere non contempli anche quello di modificare le clausole statutarie del vecchio tipo compatibili con il nuovo.
L’iscrizione al Registro delle Imprese della delibera di trasformazione osta alla declaratoria di invalidità di detta delibera, ma non sottrae invece al sindacato giudiziale le eventuali decisioni contestuali, adottate quindi prima dell’efficacia della trasformazione medesima, di modificazione del contratto sociale. E' infatti da escludere che l’iscrizione possa avere efficacia sanante di deliberazioni di modifiche statutarie che non sono rese necessarie dalla trasformazione, ma che sono da questa meramente occasionate, non ricorrendo, infatti, alcuna esigenza di stabilizzazione degli effetti di tali modifiche, ininfluenti sull’organizzazione del nuovo tipo societario, con la conseguenza che esse non possono ritenersi comprese nella nozione di atto di trasformazione in senso stretto che l’art. 2500 bis c.c. contempla.
In ipotesi di sequestro conservativo su quote sociali, l’iscrizione nel Registro delle Imprese costituisce l’unica formalità necessaria e sufficiente ai fini del perfezionamento del vincolo sulle quote; conseguentemente, quando il socio abbia subito il sequestro della quota, l’eventuale azione di annullamento di una delibera assembleare spetta al custode. Invero, l’art. 2471-bis c.c., dettato in materia di s.r.l., ai sensi del quale la partecipazione può formare oggetto di pegno, usufrutto e sequestro, richiama l’art. 2352 c.c., il quale stabilisce che, nel caso di sequestro, il diritto di voto è esercitato dal custode, di talché, attesa l’inscindibile connessione tra l’esercizio del diritto di voto e il conseguente diritto di impugnazione delle delibere, il custode delle partecipazioni è l’unico soggetto legittimato ad agire per ottenere la declaratoria di annullamento delle decisioni, mentre l’azione di nullità, in quanto azione esperibile ai sensi dell’art. 2379 c.c. da chiunque vi abbia interesse, può essere proposta anche dal socio le cui partecipazioni sociali siano state oggetto di sequestro.
La disposizione dell’art. 2377, co. 8, c.c. - applicabile anche nelle ipotesi di nullità delle deliberazioni assembleari di cui all’art. 2379 c.c., giusta lo specifico richiamo a esso contenuto nell’ultimo comma di quest’ultimo articolo - secondo cui l’annullamento della deliberazione assembleare non può aver luogo se la deliberazione impugnata è sostituita con altra presa in conformità della legge e dello statuto, costituisce una fattispecie di sopravvenuta carenza di interesse delle parti alla naturale conclusione del giudizio, la quale, nel precludere al giudice di far luogo all’annullamento della deliberazione in tutti i casi in cui essa è stata sostituita da altra delibera conforme alla legge ed allo statuto, gli attribuisce, pertanto, il potere di verificare se ricorrono le condizioni di legge impeditive della pronuncia di annullamento, al di là delle conclusioni assunte dalle parti. Spetta, dunque, al giudice verificare se con la nuova delibera sia stata eliminata la precedente causa di invalidità e se tale deliberazione sia stata adottata in conformità alla legge e allo statuto, dal momento che una nuova deliberazione nulla o annullabile non sarebbe idonea a impedire l’annullamento della deliberazione impugnata.
È ammissibile la richiesta cautelare di sospensione di una delibera di esclusione del socio da una società di mutuo soccorso, qualunque sia lo strumento processuale utilizzato: ricorso fondato sull'art. 700 c.p.c. in corso di causa, ovvero ricorso ex art. 2378, terzo comma, c.c. In presenza di clausola compromissoria statutaria, permane un residuale spazio per l'intervento d'urgenza del giudice ordinario competente in sede cautelare prima della costituzione del collegio arbitrale, ai sensi dell'art. 818, secondo comma, c.p.c.
Nel silenzio dello statuto, il termine per l'impugnazione in sede giudiziale della delibera di esclusione di un socio da una società di mutuo soccorso deve essere individuato nei 60 giorni o, al più, nei 90 giorni dalla comunicazione della delibera impugnata. Il termine di 60 giorni per l'impugnazione della delibera di esclusione appare coerente con il disposto dell'art. 2533, terzo comma, c.c., che disciplina l'opposizione alla delibera di esclusione nelle società cooperative a mutualità prevalente. In subordine, deve necessariamente considerarsi la disciplina delle impugnazioni delle delibere degli organi societari di cui agli artt. 2377 e seguenti c.c., in particolare il sesto comma dell'art. 2377 che indica in 90 giorni il termine per l'impugnazione.
Premesso che la delibera adottata in conflitto di interessi è annullabile ai sensi degli artt. 2373 e 2377 c.c., la mancata tempestiva impugnazione della delibera nei termini di legge impedisce di attribuire rilevanza, in via d’eccezione, a tale vizio di validità della deliberazione.
Premesso che le scritture contabili sono redatte dall’organo gestorio, spetta all’amministratore, secondo le regole di riparto dell’onere probatorio, dimostrare che le somme annotate nelle scritture contabili sono state utilizzate per il perseguimento di scopi sociali.
La disposizione contenuta nell’art. 2492 CC, secondo cui il reclamo va proposto “in contraddittorio dei liquidatori” non può significare esclusione della legittimazione passiva della società: consistendo detto strumento processuale nella impugnazione di un atto della società, non può che essere indirizzato contro la stessa, che è l’unico soggetto a cui è riferibile e nella cui sfera giuridica la relativa sentenza è destinata a produrre direttamente effetto, determinando il perfezionamento della procedura liquidatoria (se di rigetto) o la sua prosecuzione (se di accoglimento). Tanto questo è vero, che il reclamo dev’essere annotato al R.I, adempimento che non avrebbe molto senso se il procedimento coinvolgesse esclusivamente le persone fisiche dei soci e dei liquidatori.
La norma, pertanto, dev’essere letta – se non come impositiva di una mera denuntiatio litis - nel senso della necessaria partecipazione dei liquidatori alla causa, dalla quale potrebbero scaturire elementi per una loro responsabilità individuale, per consentire loro di spiegare le decisioni assunte. Secondo questa ultima interpretazione, la legge impone un litisconsorzio necessario processuale tra liquidatori e società; ma, allora, laddove una causa sia introdotta contro un litisconsorte necessario con pretermissione di un altro, la violazione dei diritti di quest’ultimo può sempre essere sanata, non potendosi però sostenere che, fino a quando la sanatoria non avviene, la causa non sia neppure pendente. L’azione giudiziaria spiega un effetto immediato al momento della sua proposizione, che, nel caso di specie, è quello di evitare la decadenza del potere di impugnare il Bilancio e la sua conseguente irrevocabilità, e che si verifica anche in quei casi in cui l’introduzione della causa sia viziata dalla omessa citazione di una parte necessaria; in tali ipotesi, il vizio del procedimento, se non sanato, si può tradurre nella inidoneità del suo atto conclusivo a realizzare i suoi effetti tipici (talché, seguendo l’ipotesi, una sentenza che accogliesse il reclamo potrebbe essere considerata inutiliter data); non, invece, nella inammissibilità originaria del reclamo per decadenza.
La proposizione del reclamo contro il bilancio finale di liquidazione ha poi l'effetto di impedire la sua definitività e, di conseguenza, l'acquisto del diritto da parte dei soci del diritto individuale alla ripartizione dell’attivo.
Si configura una delibera assembleare inesistente esclusivamente allorquando lo scostamento della realtà dal modello legale risulti così marcato da impedire di ricondurre l'atto alla categoria stessa di deliberazione assembleare, e cioè in relazione alle situazioni nelle quali l'evento storico al quale si vorrebbe attribuire la qualifica di deliberazione assembleare si è realizzato con modalità non semplicemente difformi da quelle imposte dalla legge o dallo statuto sociale, ma tali da far sì che la carenza di elementi o di fasi essenziali non permetta di scorgere in esso i lineamenti tipici dai quali una deliberazione siffatta dovrebbe esser connotata nella sua materialità. Sotto il diverso profilo dell’annullabilità, non ogni incompletezza o inesattezza del verbale inficia la validità della delibera assembleare, ma a tal è necessario che i vizi siano tali da impedire l’accertamento del contenuto, degli effetti e della validità della deliberazione. La trascrizione del verbale assembleare nel libro delle decisioni dei soci, prescritta dall’art. 2478 n. 2 c.c., non costituisce una condizione di validità o di esistenza della delibera, con la conseguenza che la sua omissione costituisce una mera irregolarità. L’omessa regolare tenuta del libro delle decisioni dei soci non è scevra di conseguenze: da un lato, il socio può impugnare la delibera senza limiti di tempo, atteso che i termini dettati per le impugnazioni dall’art. 2479 ter c.c. non iniziano a decorrere poiché non vi è una data certa in relazione al momento in cui è intervenuta la trascrizione; dall’altro, la società che non tiene regolarmente il libro delle decisioni dei soci, con la vidimazione e la numerazione progressiva delle pagine, si trova nell’impossibilità di provare con certezza la data in cui la delibera è stata trascritta.
Con riferimento alle impugnazioni per nullità di deliberazioni antecedenti già proposte, sussiste la perpetuatio legitimationis, in capo a chi abbia impugnato la deliberazione che determina l’estinzione del rapporto sociale, quantomeno nei suoi confronti, prima che la stessa sia efficace in quanto, essendo l’interesse ad impugnare per nullità dipendente dall’esito della successiva impugnazione, detto interesse resta presente fino all’eventuale rigetto di questa. Viceversa, per le deliberazioni antecedenti all'estinzione del rapporto sociale ma non impugnate o per le successive, l’efficacia delle delibere estintive del rapporto sociale, anche se invalide, comporta che l’interesse ad impugnare deve essere valutato rispetto a colui nei confronti dei quali è stato estinto il rapporto sociale alla stregua dell'interesse del terzo e, dunque, potrà essere ritenuto attuale e concreto solo quando l'impugnante sia titolare di una situazione giuridica qualificata da una correlazione con gli effetti della deliberazione impugnata. L'interesse deve quindi essere legato agli effetti che la delibera viziata ha prodotto o può produrre nella sfera giuridica dell’impugnante, non essendo sufficiente un generico interesse all’eliminazione delle invalidità o, più specificamente, al corretto svolgimento dell’attività sociale, ovvero al conseguimento di vantaggi da parte di altri terzi per effetto dell’eliminazione della delibera (es.: i soci stessi). In questi casi, tuttavia, la sospensione degli effetti della deliberazione estintiva del rapporto sociale avrà effetto di supporto alla legittimazione all’impugnazione per nullità delle deliberazioni in questione, dovendo essere valutata considerando l’impugnante ancora socio.
La legittimazione del terzo a impugnare la deliberazione di approvazione del bilancio d'esercizio non può discendere da un generico interesse ad ottenere una corretta, trasparente e veritiera esposizione delle poste in bilancio, bensì deve essere correlata all'allegazione di elementi che dimostrino il pregiudizio nella propria sfera giuridica discendente dalla declaratoria dell’invalidità del bilancio in questione.
Il fondamento positivo della fattispecie concretante l’abuso della maggioranza sta nelle clausole generali di correttezza e buona fede oggettiva nell’esecuzione del contratto; il canone della buona fede rileva come limite esterno all’esercizio del diritto di voto nel senso che il socio può liberamente esercitare le sue scelte per il soddisfacimento dei suoi interessi individuali con il limite dell’altrui potenziale danno accompagnato da un esercizio di voto fraudolento ovvero ingiustificato.
La stessa disciplina legale del fenomeno societario consente a che la maggioranza dei soci ponga fine all'impresa comune senza subordinare tale decisione ad alcuna condizione e, in applicazione del principio di buona fede in senso oggettivo al quale deve essere improntata anche l'esecuzione del contratto di società, il socio di maggioranza può esercitare liberamente e legittimamente il diritto di voto per il perseguimento di un proprio interesse fino al limite esterno dell'altrui potenziale danno. L'abuso della regola di maggioranza (altrimenti detto abuso o eccesso di potere) è, quindi, causa di annullamento delle deliberazioni assembleari allorquando la delibera non trovi alcuna giustificazione nell'interesse della società - per essere il voto ispirato al perseguimento da parte dei soci di maggioranza di un interesse personale antitetico a quello sociale - oppure sia il risultato di una intenzionale attività fraudolenta dei soci maggioritari diretta a provocare la lesione dei diritti di partecipazione (nel caso di specie si deduce il diritto di partecipare alla gestione della società) e degli altri diritti patrimoniali spettanti ai soci di minoranza "uti singuli".
Va tenuto presente che la società non è portatrice di un interesse alla prosecuzione della sua attività di impresa e che rientra tra gli interessi dedotti nel contratto di società anche quello di scioglimento anticipato ex art 2484 n. 6) c.c., quindi può individuarsi in questa fattispecie l’ipotesi dell’abuso se la decisione è stata assunta con lo scopo e l’intendo esclusivo di danneggiare il socio di minoranza.
Ciò posto, risulta evidente come resti preclusa ogni possibilità di valutazione dei motivi che abbiano indotto la maggioranza alla votazione della delibera di scioglimento anticipato della società, essendo insindacabili le esigenze personali, individuali del socio che possano averlo indotto a votare per tale soluzione, se si esclude quell’esercizio "ingiustificato" ovvero "fraudolento" del potere di voto ad opera dei soci maggioritari posto come limite esterno al voto.