La domanda risarcitoria che si fondi su un'asserita distrazione o svendita dei beni del magazzino deve essere rigettata, se emerge che l'effettivo scostamento della valorizzazione del magazzino in bilancio non si fonda sul riscontro di uno scarto tra consistenza materiale del magazzino e quantità di beni valutati, ma sull'applicazione di un diverso criterio di valutazione da parte del CTU rispetto a quello utilizzato in bilancio.
L’azione di responsabilità contemplata dall’art. 2476 comma 7 (di natura extracontrattuale in quanto applicazione dell’art. 2043 c.c.) presuppone l’esistenza di un danno subito dal singolo socio direttamente, e non come mero riflesso del danno sociale di cui solo la Società direttamente o per via surrogatoria del socio ex art 2476 co 3 c.c. può chiedere il risarcimento all'amministratore. In particolare la mancata percezione di utili costituisce danno diretto del socio solo in ipotesi (i) di utili effettivamente conseguiti dalla società e (ii) di cui si sia deliberata la distribuzione al socio; qualora, invece, si è dedotto che gli utili non sono stati conseguiti dalla società a causa della condotta dannosa dell’amministratore, il danno lamentato dal socio non è un danno diretto.
Quella contenuta all’art. 2476, co. 6, c.c. è disposizione normativa recentemente introdotta dal legislatore al fine di chiarire definitivamente l’esperibilità, in materia di società a responsabilità limitata, dell’azione di responsabilità a tutela dei creditori sociali. La norma, in particolare, configurando un’ipotesi speciale di responsabilità aquiliana, pone, quale criterio di valutazione e di ascrivibilità della responsabilità medesima, la diligenza del comportamento dell'amministratore. Di conseguenza, il curatore che, a norma dell'art. 146, co. 2, l.fall., agisce in giudizio per far valere tale responsabilità è onerato di provare l'inosservanza da parte dell'amministratore degli obblighi inerenti la conservazione del patrimonio sociale, che tali inadempimenti sono dovuti a dolo o colpa e, infine, che hanno provocato l'insufficienza del patrimonio sociale al soddisfacimento dei crediti sociali.
La violazione del divieto per l’amministratore di S.r.l. di compiere, in conflitto di interessi, atti dannosi per la società, anche se non espressamente prevista dall’art. 2475-ter c.c. come fonte di responsabilità, è riconducibile alla violazione dell’obbligo generale di tutela dell’integrità del patrimonio sociale gravante sull’amministratore ai sensi dell’art. 2476 c.c.
Il diritto di accesso del socio si estende non soltanto ai libri sociali ma a tutti i documenti e le scritture contabili, i documenti fiscali e quelli riguardanti singoli affari poiché il riferimento normativo ai documenti relativi all’amministrazione appare in sè idoneo a ricomprendere ogni documento concernente la gestione della società e non consente letture riduttive volte a distinguere, ad esempio, la documentazione amministrativo-contabile da quella più prettamente commerciale.
Il diritto di controllo così enucleato soddisfa l’esigenza di acquisire tutte le informazioni utili sulle modalità di effettivo svolgimento della funzione gestoria da parte degli amministratori ed è funzionale all’esperimento dell’azione sociale di responsabilità promuovibile in via surrogatoria da ciascun socio, nonché all’esercizio dei diritti e degli obblighi, anche di natura fiscale, derivanti dalla partecipazione societaria.
Nel caso in cui l’esercizio di tale diritto, finalizzato alla tutela di una posizione soggettiva del singolo socio, venga impedito od ostacolato, il socio può fare ricorso alla tutela cautelare atipica di cui all’art. 700 c.p.c. In tal caso, il tribunale può precisare le modalità di consultazione delle scritture contabili
L’art. 2476 c.c. non condiziona l’esercizio del diritto a un interesse specifico e concreto, né fissa limiti all’esercizio del diritto, benchè esso debba comunque essere esercitato secondo i canoni della buona fede e correttezza a tutela dei diritti della società e degli altri soci.
Il diritto di accesso del socio non amministratore di s.r.l. non può essere utilizzato per perseguire interessi e finalità differenti da quelle cui è preordinato; in caso contrario, si verifica un’ipotesi di abuso del diritto, tanto più grave quando le concrete modalità esercitate arrecano un pregiudizio alla società controllata, ovvero quando l’accesso alle informazioni e ai documenti è finalizzata a perseguire un interesse contrario a quello della società
Sugli amministratori "non operativi" grava il dovere di agire informati e, quindi, il dovere di assumere, in ogni caso, iniziative volte a prevenire, evitare o limitare il pregiudizio al patrimonio sociale derivante dagli atti di mala gestio eventualmente posti in essere, per iniziativa esclusiva e personale, dall'amministratore operativo e da loro quantomeno conoscibili. Infatti, la circostanza che l'amministratore sia rimasto di fatto estraneo alla gestione della società, avendo consentito ad altri di ingerirsi nella conduzione della stessa o essendosi limitato ad eseguire decisioni prese in altra sede, non è sufficiente ad escludere la sua responsabilità, riconducibile all'inosservanza dei doveri posti a suo carico dalla legge e dall'atto costitutivo, la cui assunzione, collegata all'accettazione dell'incarico, gli imponeva di vigilare sull'andamento della società e di attivarsi diligentemente per impedire il compimento di atti pregiudizievoli. Tale responsabilità non è neppure esclusa dall'appartenenza della società ad un gruppo di imprese, la quale, in mancanza di un accordo fra le varie società, diretto a creare una impresa unica, con direzione unitaria e patrimoni tutti destinati al conseguimento di una finalità comune e ulteriore, non esclude la necessità di valutare il comportamento degli amministratori alla stregua dei doveri specificatamente posti a loro carico, della cui inosservanza essi sono tenuti pur sempre a rispondere nei confronti della società di appartenenza. In particolare, la responsabilità dell'amministratore non esecutivo può discendere da un difetto di conoscenza per non avere rilevato colposamente l'altrui illecita gestione, omettendo di ricercare adeguate informazioni, e non rilevando il semplice fatto che nulla traspaia da formali relazioni del comitato esecutivo o degli amministratori delegati, né dalla loro presenza in consiglio. Gli amministratori senza deleghe devono pertanto attivarsi perché il consiglio compia al meglio il proprio dovere di vigilanza al fine impedire il verificarsi o il protrarsi di una situazione di illecita gestione, fermo restando che, gli stessi non sono sottoposti ad un generale obbligo di vigilanza, tale da trasmodare di fatto in una responsabilità oggettiva, per le condotte dannose degli altri amministratori, ma rispondono solo quando non si siano attivati per impedirle in virtù della conoscenza - o della possibilità di conoscenza per il loro dovere di agire informati ex art. 2381 c.c. - di elementi tali da sollecitare il loro intervento alla stregua della diligenza richiesta.
La revoca in via cautelare dell'amministratore di s.r.l. è richiedibile anche ante causam, atteso che il testo dell’art. 2476, co. 3 c.c. ha ambiguità ma non vieta espressamente ciò.
La revoca in via cautelare può esser chiesta sia prospettando quale futura causa di merito una vera e propria azione di responsabilità di natura risarcitoria, sia prospettando una domanda meritale tal per cui anche nel giudizio a cognizione piena ciò che viene richiesto sia la sola revoca dalla carica di amministratore.
Nel primo caso si è in presenza di richiesta di misura cautelare avente strumentalità sui generis, prevista espressamente dal legislatore che ha voluto nella particolare fattispecie in esame correlare la misura cautelare de qua a domanda meritale di danno, configurandola quindi come latu sensu conservativa, ancorchè detta cautela non tuteli il vero e proprio diritto al risarcimento del danno prospettato mirando piuttosto alla prevenzione di danni futuri.
Nel secondo caso e cioè di richiesta cautelare di revoca in presenza di prospettazione di domanda meritale di mera revoca di amministratore, si è di fronte a richiesta di una misura cautelare che ha invece una chiara natura anticipatoria della domanda meritale di medesimo contenuto.
In tema di società di capitali non vi è diritto individuale del singolo socio a conseguire gli utili posto che tale diritto sorge soltanto se e nella misura in cui la maggioranza assembleare ne disponga l’erogazione ai soci. Prima di tale momento, gli utili “appartengono” alla società; è ben vero che la deliberazione di distribuzione dell’utile di esercizio oltre che essere presa dall’assemblea dei soci al momento dell’approvazione del bilancio può esser adottata anche in un momento successivo ma necessita pur sempre che questo momento successivo sia anteriore al prelievo poiché è l’adozione della delibera di distribuzione che genera il diritto stesso alla percezione degli utili in capo ai soci. In assenza di una delibera anteriore alla distribuzione, infatti, detti prelievi di pretesi “utili” sono illeciti tout court avvenendo quando i soci non possono vantare nessun diritto alla suddetta distribuzione, né tale illiceità risulta venir meno in forza di una delibera, intervenuta ex post, non potendo essa “sanare” un illecito già consumato ed integrato da prelievi di somme su cui i soci non potevano vantare alcun titolo.
Secondo l’art. 2489, co. 1, c.c. i liquidatori hanno il potere di compiere tutti gli atti utili per la liquidazione della società. Tale norma è stata profondamente modificata dalla riforma del diritto societario (d. lgs. 6/2003), che ha ampliato l’ambito del potere che il previgente art. 2452 c.c. conferiva ai liquidatori. Nel dettaglio, gli “atti necessari” sono stati sostituiti con gli “atti utili” ed è stato eliminato il riferimento al “divieto per i liquidatori di intraprendere nuove operazioni”. In tal guisa è stata conferita ai liquidatori una sfera di discrezionalità legata al compimento di tutti quegli atti che, anche se non strettamente collegati alla liquidazione del patrimonio sociale, sono a ciò (anche solo indirettamente) finalizzati in quanto mezzi idonei ad assicurarne un maggiore o migliore risultato, per ottenere così il maggior attivo possibile e procedere al pagamento dei debiti sociali e alla ripartizione del residuo tra i soci. L’ampio potere discrezionale attribuito ai liquidatori va tuttavia esercitato nel rispetto dell’obbligo prescritto dall’art. 2489, co. 2, c.c. di agire con la professionalità e la diligenza richieste dalla natura dell’incarico.
L’art. 2489, co. 2, c.c. contiene una previsione generale sulla responsabilità dei liquidatori nelle società di capitali in relazione a quei comportamenti che contrastano con le finalità estintive proprie della liquidazione o che impediscono, per la mancanza della diligenza professionale richiesta dalla natura dell’incarico, il raggiungimento dei risultati finali dell’attività economica della società.
Il rinvio generale operato dall’art. 2489, co. 2, c.c. alle norme sulla responsabilità degli amministratori consente l’esercizio nei confronti del liquidatore delle azioni di responsabilità per danni previste dagli artt. 2392 ss. c.c.
Il colpevole ritardo del liquidatore nella presentazione all’assemblea dei soci dei progetti di bilancio per più esercizi rileva in quanto sia cagionato un danno in capo alla società. I bilanci registrano gli accadimenti economici che interessano l’attività di impresa e non li determinano, sì che dalla loro irregolare redazione o da ritardi nella relativa presentazione non può discendere ex se un danno in capo alla società idoneo a dar luogo a responsabilità risarcitoria, potendo ascriversi rilievo solo a quegli atti di mala gestio che abbiano cagionato (ex art. 1223 c.c.) un pregiudizio.
Affinché possa ravvisarsi la responsabilità del socio di s.r.l. in relazione agli atti compiuti dagli amministratori, è necessario che, sotto il profilo oggettivo, questi abbia concorso nell’atto di gestione posto in essere dall’amministratore (decidendolo o, comunque, autorizzandolo, anche al di fuori delle sedi “istituzionali”) e che, sotto il profilo soggettivo, la condotta sia sorretta da “intenzionalità”; questa va interpretata quale consapevolezza dell’antigiuridicità dell’atto e con accettazione, quindi, del rischio che da tale condotta possano derivare danni alla società ai soci ed ai terzi. Ai fini della sussistenza della responsabilità in capo al socio è sufficiente che egli abbia deciso ed autorizzato e quindi abbia concorso al compimento dell’atto nonostante avesse la consapevolezza della sua contrarietà a norme o a principi generali dell’ordinamento giuridico, con l’accettazione che da tale condotta possano derivare danni.
In tema di responsabilità dell’amministratore di una società di capitali per i danni cagionati alla società amministrata, l’insindacabilità del merito delle sue scelte di gestione (c.d. business judgment rule) trova un limite nella valutazione di ragionevolezza delle stesse, da compiersi sia ex ante, secondo i parametri della diligenza, sia tenendo conto della mancata adozione delle cautele, delle verifiche e delle informazioni preventive, normalmente richieste per una scelta di quel tipo e della diligenza mostrata nell’apprezzare preventivamente i margini di rischio connessi all’operazione da intraprendere.
Anche quando il fatto illecito integra gli estremi del reato, il danno non patrimoniale, costituendo anch’esso un danno conseguenza, deve essere specificamente allegato e provato ai fini risarcitori, anche mediante presunzioni, non potendo mai considerarsi in re ipsa. L’art. 2059 c.c. opera esclusivamente sul piano della limitazione della risarcibilità del danno non patrimoniale, ai soli casi previsti dalla legge, lasciando integri gli elementi della fattispecie costitutiva dell’illecito ex art. 2043 c.c. Occorre distinguere l’ambito della risarcibilità del danno non patrimoniale, che si ricava dalla individuazione delle norme che prevedono siffatta tutela, dalla verifica giudiziale di tale pregiudizio, che deve compiersi attraverso gli ordinari criteri di accertamento dei fatti previsti dall’ordinamento giuridico.
La sentenza penale di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. costituisce un importante elemento di prova per il giudice civile, il quale, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l’imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità e il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione. Infatti, la sentenza di applicazione di pena patteggiata, pur non potendosi configurare come sentenza di condanna, presuppone pur sempre una ammissione di colpevolezza ed esonera il giudice dall’onere della prova.
Gli amministratori e gli organi sociali possono essere ritenuti responsabili con riguardo al pagamento di professionisti incaricati di verificare le condizioni di una richiesta concordataria nonché di redigere le relative relazioni tecniche soltanto laddove l’istanza di concordato risulti essere stata proposta abusivamente, cioè ex ante irrazionale e arbitraria, e dunque del tutto infondata, posto che la richiesta di una procedura concorsuale o di una procedura alternativa da parte di una società in crisi o insolvente è prevista dall’ordinamento, in astratto del tutto legittima ed anzi doverosa. L’arbitrarietà della domanda di concordato dev’essere misurata non sulla semplice declaratoria di inammissibilità ovvero sull’intervenuto rigetto da parte del Tribunale, occorrendo invero un quid pluris, in specie rappresentato dalla conoscenza ex ante dell’insussistenza dei presupposti per adire la procedura. In sintesi, la mala gestio e la negligenza poste in essere dall’organo gestorio sussistono in quanto la domanda sia appunto qualificabile in termini di abuso del diritto.
La domanda di concordato preventivo presentata dal debitore non per regolare la crisi dell’impresa attraverso un accordo con i suoi creditori, ma con il palese scopo di differire la dichiarazione di fallimento, è inammissibile in quanto integra gli estremi di un abuso del processo, che ricorre quando, con violazione dei canoni generali di correttezza e buona fede, nonché dei principi di lealtà processuale e del giusto processo, si utilizzano strumenti processuali per perseguire finalità eccedenti o deviate rispetto a quelle per le quali l’ordinamento li ha predisposti.