Il contenuto precettivo dell’ordine di ritiro dal commercio viene conformato quale obbligo di mezzo oppure di risultato a seconda delle modalità con cui si articola la rete di vendita dell’obbligato. Se la rete è direttamente controllata dal destinatario della misura, grava in capo a costui un obbligo di risultato; viceversa, se il rapporto commerciale tra il contraffattore con gli aventi causa ha determinato il trasferimento della proprietà della res in capo a soggetti autonomi sotto il profilo negoziale e societario, sussiste soltanto un’obbligazione di mezzi.
Ancorché l’art. 131 c.p.i. non preveda espressamente la fissazione di una penale per la violazione dell’ordine di ritiro dal commercio soccorre la norma di cui all’art. 614 bis c.p.c., con l’introduzione in via generale della figura dell’astreinte.
La concorrenza sleale per denigrazione, se pure non postula la falsità dei fatti affermati, richiede che la divulgazione di circostanze o di notizie vere sia idonea a procurare discredito negli stretti limiti in cui siano contestualmente formulate vere e proprie invettive ed offese gratuite nei confronti del concorrente, che traggano cioè, nella diffusione delle notizie veritiere, mero spunto o pretesto. Al contrario, la reazione dell'imprenditore che si assume danneggiato dalla condotta sleale di un concorrente è legittima, e non causa un danno risarcibile, quando risponde ai parametri della continenza generale e della proporzionalità rispetto all'offesa ricevuta.
Il danno non patrimoniale deve essere provato ex art. 2600 c.c., non essendo in re ipsa ma, quale conseguenza diversa ed ulteriore rispetto alla distorsione delle regole della concorrenza, necessita di prova secondo i principi generali che regolano il risarcimento da fatto illecito, sicché solo la dimostrazione della sua esistenza consente l'utilizzo del criterio equitativo per la relativa liquidazione.
Anche ove il convenuto non stia ancora operando sul mercato, sussiste comunque una sua responsabilità a titolo di concorrenza sleale, allorché si configuri una situazione di concorrenza potenziale, ravvisabile sia in relazione ad una possibile estensione o espansione nel futuro dell'attività imprenditoriale concorrente purché nei termini di rilevante probabilità, sia nell'ipotesi di attività preparatorie all'esercizio dell'impresa, quando si pongano in essere fatti diretti a dare inizio all'attività produttiva.
L'illecito di concorrenza sleale per storno di dipendenti si ritiene sussitente al ricorrere di alcune circostanze oggettive e sintomatiche di un comportamento contrario ai principî di correttezza professionale, vale a dire: 1) il passaggio diretto dei dipendenti dal precedente datore di lavoro al concorrente che ha posto in essere lo storno; 2) il fatto che lo storno coinvolga un numero significativo di dipendenti; 3) il fatto che i dipendenti stornati rivestissero ruoli apicali all’interno dell’organigramma aziendale; 4) il fatto che lo storno di tutti i dipendenti sia avvenuto in un lasso di tempo limitato; 5) la difficoltà di sostituire questi dipendenti rapidamente; 6) il fatto di essersi avvalsi nella manovra di storno di metodi contrari alla correttezza professionale. A ciò va aggiunto che la concorrenza sleale è un illecito di pericolo per il quale non rilevano solo i trasferimenti effettivamente verificatisi, ma anche i tentativi di storno.
La nullità dei modelli o disegni tutelati da brevetti comunitari e dal brevetto internazionale con efficacia comunitaria non è rilevabile d’ufficio; la legittimazione a sollevare la suddetta eccezione di nullità non è riconosciuta a chiunque vi abbia interesse (com’è per la domanda), ma soltanto a coloro che facciano valere l'esistenza di un proprio diritto nazionale anteriore.
L’art. 121.5 CPI consente al CTU, in deroga alle norme ordinarie, di ricevere ed esaminare i documenti inerenti ai quesiti posti anche se non ancora prodotti in causa, consentendo così di superare, in materia, le preclusioni del codice di rito. Dunque, nessuna inammissibilità può derivare da una tardiva produzione documentale.
Non è sufficiente sollevare una eccezione di nullità di plurimi brevetti, per difetto di novità, senza specificare – o specificando solo per alcuni di essi – da cosa sarebbe determinata l’invalidità. Se questa, in particolare, deriva da una predivulgazione, elencare le anticipazioni di alcuni brevetti non può significare sollevare l’eccezione di nullità anche con riferimento agli altri; e lo stesso deve dirsi con riguardo al difetto di carattere individuale.
La relazione di interessi tra autore dell'atto ed imprenditore avvantaggiato deve essere ricondotta alla situazione concorrenziale e, quindi, unita ad uno stato soggettivo caratterizzato dalla conoscenza – effettiva o dovuta – dell’illecito nel quale essa va ad inserirsi: diversamente, la responsabilità del terzo finirebbe per essere affermata sulla base non di una presunzione di colpa, ma di una partecipazione oggettiva all’illecito, quand’anche inconsapevole ed incolpevole.
In tema di concorrenza sleale, presupposto indefettibile dell’illecito è la sussistenza di una situazione di concorrenzialità tra due o più imprenditori, derivante dal contemporaneo esercizio di una medesima attività industriale o commerciale in un ambito territoriale anche solo potenzialmente comune, e quindi la comunanza di clientela, la quale non è data dalla identità soggettiva degli acquirenti dei prodotti, bensì dall’insieme dei consumatori che sentono il medesimo bisogno di mercato e, pertanto, si rivolgono a tutti i prodotti che sono in grado di soddisfare quel bisogno. La sussistenza di tale requisito va verificata anche in una prospettiva potenziale, dovendosi esaminare se l'attività di cui si tratta, considerata nella sua naturale dinamicità, consenta di configurare, quale esito di mercato fisiologico e prevedibile, sul piano temporale e geografico, e quindi su quello merceologico, l'offerta dei medesimi prodotti, ovvero di prodotti affini e succedanei rispetto a quelli offerti dal soggetto che lamenta la concorrenza sleale.
La condanna alla retroversione degli utili ai sensi dell’art. 125, terzo comma c.p.i. deve ritenersi prevista non a fini sanzionatori, bensì di riequilibrio tra il patrimonio del contraffattore e quello del soggetto titolare del diritto di proprietà industriale, a differenza del risarcimento del danno previsto dai primi due commi dello stesso art. 125 c.p.i., e sarebbe quindi applicabile anche in caso di contraffazione incolpevole. L’ordine di ritiro dal commercio di cui all’art. 124 c.p.i. è previsto nei casi di accertamento di violazione di qualunque diritto di proprietà industriale, senza che rilevino le differenti caratteristiche dei medesimi o il fatto, nel caso di titoli brevettuali, che si tratti di invenzioni dotate di carattere industriale e gli operatori/acquirenti siano soggetti non assimilabili al consumatore medio.
Per quanto attiene al rimedio della pubblicazione, esso, a norma degli artt. 2600 c.c. e 126 c.p.i., richiede in primo luogo l’accertamento della violazione, quanto meno colposo, dei diritti di proprietà industriale. La pubblicazione è inoltre finalizzata non soltanto a riparare danni già prodotti, ma anche a rimuovere gli effetti dell'illecito e a prevenire ulteriori conseguenze dannose, con funzione quindi anche informativa. Nella sussistenza di tali presupposti, l'emanazione del provvedimento è affidata alla discrezionalità guidata del giudice purché tale strumento sia adeguato alla lesione operata in danno del titolare del diritto.
Ai fini dell’accertamento dell’illecito di concorrenza sleale non rileva che le rispettive società si trovino su piani diversi della catena produttiva, in quanto condizione necessaria per cui le imprese si trovino in una situazione di concorrenza è che prodotti e servizi concernano la stessa categoria di clientela finale e che operino quindi in una qualsiasi delle fasi della produzione o del commercio destinate a sfociare nella collocazione sul mercato di tali beni.
Ai fini di una determinazione equitativa del danno, la sanzione del risarcimento del danno per concorrenza sleale può seguire le stesse regole in tema di tutela dei diritti della proprietà industriale con la peculiarità della materia e l’indicazione, derivante dalla direttiva CE 04/48, di tenere conto nella quantificazione del danno – purché il risarcimento sia adeguato, ma non punitivo – di tutti gli aspetti pertinenti, tra i quali i benefici realizzati dall’autore della violazione.
Lo storno di dipendenti costituisce atto di concorrenza sleale ex art. 2598 n. 3, c.c., soltanto quando è attuato al fine di ottenere un diretto vantaggio a danno del concorrente. Al contrario, il mero passaggio di dipendenti da un’impresa all'altra non costituisce di per sé atto di concorrenza sleale, poiché così interpretata, la norma contrasterebbe con il diritto del prestatore di lavoro di migliorare la propria posizione economica (art. 35 Cost.), nonché con il principio di libera iniziativa economica (art. 41 Cost.).
Tale contegno diviene illecito concorrenziale quando sia accompagnato da una serie di elementi - quali, ad esempio, il numero dei dipendenti stornati, la loro competenza professionale, il ruolo che rivestivano - che evidenziano l'illiceità della condotta dell'impresa stornante, la quale si avvale degli investimenti formativi effettuati dall'impresa stornata sui propri dipendenti.
Con particolare riguardo al c.d. animus nocendi, affinché lo storno di dipendenti possa essere qualificato come atto di concorrenza sleale da parte dell'impresa concorrente, non è sufficiente la mera consapevolezza, nell'agente, dell'idoneità dell'atto a danneggiare l'altra impresa, ma è necessaria l'intenzione di conseguire tale risultato, la quale deve essere ritenuta sussistente tutte le volte che lo storno di dipendenti sia posto in essere con modalità tali da non potersi giustificare alla luce dei principi di correttezza professionale, se non supponendo nell'autore l'intenzione di recare pregiudizio all'organizzazione ed alla struttura produttiva dell'impresa concorrente in misura che ecceda il normale pregiudizio che ad ogni imprenditore può derivare dalla perdita di dipendenti in conseguenza della loro scelta di lavorare presso altra impresa.
La figura dello storno di dipendenti e collaboratori impone una delicata individuazione del discrimen tra le fattispecie lecite, frutto di una dinamica fisiologica del mercato, e quelle illecite, che esprimono una patologia quale espressione della concorrenza sleale per contrarietà alla correttezza professionale. La tutela di una concorrenza leale si misura con la necessità di considerare opposte esigenze, presidiate anche da norme di rilevanza costituzionale, quali la libera circolazione del lavoro e la libertà d’impresa di cui agli artt. 36 e 41 della Costituzione, da limitare solo in presenza di condotte che alterino la dinamica della lecita concorrenza, anch’essa tutelata da disposizioni di natura primaria, anche sopranazionali. Il perimetro rilevante è quindi da individuarsi partendo dall’intensità lesiva del comportamento censurando.
Lo storno è considerato illecito ove il concorrente sleale si appropri di risorse umane altrui: i) in violazione della disciplina giuslavoristica (ad esempio, quanto ai termini di preavviso) e degli altri diritti assoluti del concorrente (quali la reputazione ed i diritti di proprietà immateriale, quali le informazioni riservate); ii) con modalità non fisiologiche, in quanto potenzialmente rischiose per la continuità aziendale dell'imprenditore che subisce lo storno nella sua capacità competitiva. E ciò tenuto conto, da un lato, delle normali dinamiche del mercato del lavoro in un preciso contesto economico e, dall’altro, delle condizioni interne dell’impresa leale; iii) con caratteristiche non prevedibili, in grado cioè di provocare alterazioni non immediatamente riassorbibili, ed aventi un effetto shock sull'ordinaria attività di offerta di beni o di servizi dell’impresa che subisce lo storno. D’altro canto, l'imprenditore leale deve tenere conto, a sua volta, di un mercato del lavoro che si muove dinamicamente, considerato il concreto quadro economico e giuridico nel quale egli stesso opera.
L’animus nocendi, che costituisce ulteriore requisito di fattispecie deve essere inteso quale volontà di recare danno, annientare o distruggere la concorrente, afferente alla sfera soggettiva dell’autore dell’illecito. La condivisibile necessità di restringere le ipotesi di tutela (alzando la soglia della rilevanza dell’illecito) giustificata dall’esigenza di garantire condotte e libertà a copertura costituzionale nella normale dinamica della libera concorrenza del mercato (anche del lavoro) passa dunque attraverso la valorizzazione dell’elemento oggettivo, da sindacare in base all’intensità dell’offesa all’integrità aziendale, che in via presuntiva fa inferire l’elemento soggettivo, depotenziando sotto il profilo probatorio la necessità della prova diretta dell’animus nocendi. Dovrà quindi essere verificato in giudizio se il concorrente ritenuto sleale si sia appropriato di risorse altrui, con modalità che abbiano messo a rischio la continuità aziendale dell’imprenditore nella sua capacità competitiva, ovvero provocato alterazioni non ragionevolmente prevedibili, e determinato uno shock sull’ordinaria attività di offerta di beni o servizi non riassorbibile attraverso un’adeguata organizzazione dell’impresa e di cui lo stornante non possa non essere consapevole giacché ciò corrisponde ad un suo vantaggio anticoncorrenziale.
La protezione dei segreti commerciali accordata dall’art. 98 cpi può essere ottenuta ove venga comprovato: 1) che le informazioni non siano generalmente note o non siano facilmente accessibili agli esperti o altri operatori del settore; 2) che abbiano valore economico; 3) che siano adeguatamente protette.
Ove per comportamento parassitario si intenda l’utilizzo di notizie attinenti all’organizzazione dell’impresa o quelle relative ai rapporti con i clienti di un altro imprenditore acquisite nel corso della attività svolta in collaborazione con lo stesso, la configurabilità della concorrenza sleale, ai sensi dell’articolo 2598, n. 3, c.c., va riconosciuta solo ove si tratti di notizie per loro natura riservate non essendo destinate ad essere divulgate al di fuori dell’azienda, ancorché normalmente accessibili ai dipendenti e collaboratori.
Lo sfruttamento del bagaglio di conoscenze professionali acquisito nel corso di una precedente collaborazione non costituisce di per sé illecito concorrenziale, a condizione che non venga accompagnato da attività confusorie o denigratorie e in assenza di un patto di non sfruttamento delle conoscenze acquisite; il semplice utilizzo delle conoscenze professionali non integra neppure una situazione di parassitismo, consistente nella continua e sistematica imitazione delle iniziative imprenditoriali della concorrente, quale mezzo per lo sfruttamento sistematico del lavoro e della creatività altrui.
In tema di concorrenza sleale per sviamento di clientela, l’illiceità della condotta non dev’essere ricercata episodicamente, ma va desunta dalla qualificazione tendenziale dell’insieme della manovra posta in essere per danneggiare il concorrente, o per approfittare sistematicamente del suo avviamento sul mercato. Pertanto, mentre è contraria alle norme di correttezza imprenditoriale l’acquisizione sistematica, da parte di un ex dipendente che abbia intrapreso un’autonoma attività imprenditoriale, di clienti del precedente datore di lavoro il cui avviamento costituisca, soprattutto nella fase iniziale, il terreno dell’attività elettiva della nuova impresa, più facilmente praticabile proprio in virtù delle conoscenze riservate precedentemente acquisite, deve ritenersi fisiologico il fatto che il nuovo imprenditore, nella sua opera di proposizione e promozione sul mercato della sua nuova attività, acquisisca o tenti di acquisire anche alcuni clienti già in rapporti con l’impresa alle cui dipendenze aveva prestato lavoro.
Il marchio “forte” è tutelato nel suo nucleo ideologico e pertanto sono illegittime tutte quelle variazioni, anche rilevanti e originali, che lasciano comunque sussistere l’identità sostanziale del segno. Conseguentemente, in tal caso, per evitare la confondibilità tra i segni non è sufficiente una minima modifica della parte denominativa o figurativa del marchio in contraffazione. Il marchio “forte” è assistito dalla più rigorosa tutela, connotata da una maggiore incisività che rende illegittime le variazioni anche originali che, comunque, lasciano intatto il nucleo ideologico che riassume l'attitudine individualizzante del segno, giacché anche lievi modificazioni, che il marchio debole deve invece tollerare, condurrebbero al risultato di pregiudicare il risultato conseguibile con l'uso del marchio. Ciò posto, per il marchio forte, devono ritenersi illegittime tutte le variazioni e le modificazioni, anche se rilevanti ed originali, che lascino sussistere l’identità sostanziale del “cuore” del marchio, ovvero il nucleo ideologico espressivo costituente l’idea fondamentale in cui si riassume cauterizzando la sua spiccata attitudine individualizzante.
L’attività illecita, consistente nell’appropriazione o nella contraffazione di un marchio, mediante l'uso di segni distintivi identici o simili a quelli legittimamente usati dall'imprenditore concorrente, può essere da quest'ultimo dedotta a fondamento non soltanto di un'azione reale, a tutela dei propri diritti di esclusiva sul marchio, ma anche, e congiuntamente, di un'azione personale per concorrenza sleale, ove quel comportamento abbia creato confondibilità fra i rispettivi prodotti.
In tema di concorrenza sleale, il rapporto di concorrenza tra due o più imprenditori, derivante dal contemporaneo esercizio di una medesima attività industriale o commerciale in un ambito territoriale anche solo potenzialmente comune, comporta che la comunanza di clientela non è data dall'identità soggettiva degli acquirenti dei prodotti, bensì dall'insieme dei consumatori che sentono il medesimo bisogno di mercato e, pertanto, si rivolgono a tutti i prodotti, uguali ovvero affini o succedanei a quelli posti in commercio dall'imprenditore che lamenta la concorrenza sleale, che sono in grado di soddisfare quel bisogno.
La concorrenza sleale per appropriazione dei pregi dei prodotti o dell'impresa altrui (art. 2598, n. 2, c.c.) non consiste nell'adozione di tecniche materiali o procedimenti già usati da altra impresa - che può dar luogo, invece, alla concorrenza sleale per imitazione servile - ma ricorre quando un imprenditore, in forme pubblicitarie od equivalenti, attribuisce ai propri prodotti od alla propria impresa pregi, quali ad esempio medaglie, riconoscimenti, indicazioni di qualità, requisiti, virtù, da essi non posseduti, ma appartenenti a prodotti od all'impresa di un concorrente, in modo da perturbare la libera scelta dei consumatori.
La concorrenza sleale parassitaria, ricompresa fra le ipotesi previste dall'art. 2598, n. 3, c.c., consiste in un continuo e sistematico operare sulle orme dell'imprenditore concorrente, mediante l'imitazione non tanto dei prodotti, quanto piuttosto di rilevanti iniziative imprenditoriali di quest'ultimo, in un contesto temporale prossimo alla ideazione dell'opera, in quanto effettuata a breve distanza di tempo da ogni singola iniziativa del concorrente (nella concorrenza parassitaria diacronica) o dall'ultima e più significativa di esse (in quella sincronica), vale a dire prima che questa diventi patrimonio comune di tutti gli operatori del settore.
L'ipotesi prevista dall'art. 2598, n. 3, cod. civ. - consistente nell'avvalersi direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo «non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l'altrui azienda» - si riferisce a mezzi diversi e distinti da quelli relativi ai casi tipici previsti dai precedenti nn. 1 e 2 della medesima disposizione e costituisce un'ipotesi autonoma di possibili casi alternativi, per i quali è necessaria la prova in concreto dell'idoneità degli atti ad arrecare pregiudizio al concorrente (v. ad es. Cass. civ. Sez. I Sent., 04/12/2014, n. 25652).
La messa in commercio dell’opera giornalistica, se, da un lato, può comportare l’esaurimento del diritto alla sua successiva circolazione, dall’altro, non determina un effetto estintivo con riferimento alla facoltà di sfruttamento anche pubblicitario dell’opera stessa che rimane in capo al suo autore o, comunque, al suo titolare.