23 Gennaio 2017

Violazione del divieto di concorrenza ex art. 2390 c.c., gratuità della carica gestoria e determinazione del compenso da parte del giudice

Ai fini della violazione del divieto di concorrenza, ex art. 2390 c.c., è necessario fare riferimento all’attività effettivamente e concretamente svolta dalla società, non rilevando esclusivamente le attività enunciate all’interno dell’atto costitutivo nel contesto dell’oggetto sociale. Inoltre, il rapporto concorrenziale deve essere concreto, includendo tutti gli aspetti qualificanti delle attività imprenditoriali coinvolte, nonché attuale, ovvero se potenziale deve fondarsi sulla ragionevole e prevedibile circostanza che in futuro l’attività potenzialmente concorrenziale abbia una proiezione evolutiva tale da porla, per l’appunto, in concorrenza con la società.

L’attività d’impresa, svolta dall’amministratore, concreta violazione del divieto posto dall’art. 2390 c.c.  laddove si rilevi il sistematico esercizio concorrenziale di atti coordinati e unificati sul piano funzionale, non essendo sufficiente ad integrare la fattispecie il compimento di un solo atto in concorrenza che, al limite, può rendere evidenti ipotesi di conflitti di interessi o di violazione del generale dovere di fedeltà. Per attività concorrente deve, pertanto, intendersi un complesso di atti compiuti in modo continuativo e sistematico e finalizzati ad uno scopo concorrenziale. In altri termini, non sarebbe contrastante col disposto della norma di cui sopra, lo svolgimento episodico di attività concorrenziale.

La carica gestoria si presume onerosa, in quanto è lo stesso ordinamento a riconoscere agli amministratori il diritto ad un compenso per l’attività svolta (ex art. 2389 c.c.), il quale è da qualificarsi come diritto soggettivo perfetto.

È legittima la previsione statutaria di gratuità della carica gestoria, in quanto il rapporto che lega l’amministratore alla società non può essere qualificato né come rapporto di lavoro subordinato, né come collaborazione continuata e coordinata; di conseguenza, il disposto dell’art. 36 Cost., relativo al diritto ad una retribuzione proporzionata e sufficiente, non è applicabile al suddetto rapporto. Al fine di superare la presunzione di onerosità, è necessario che una clausola statutaria preveda – espressamente – la gratuità dell’incarico e non presenti margini di ambiguità in merito.

Dalla natura di diritto soggettivo del compenso, dovuto a chi rivesta una carica gestoria, deriva che, ove l’assemblea non provveda alla sua determinazione o lo determini in misura manifestamente inadeguata, l’amministratore può rivolgersi al tribunale per la relativa quantificazione. La sua individuazione sarà senz’altro dominata dal criterio di equità, il quale però dovrà essere declinato secondo un’ottica di proporzione con riguardo all’entità della prestazione in concreto eseguita e al risultato fatto conseguire alla società. In particolare, diversi sono i criteri che il giudice dovrà prendere in considerazione ai fini della determinazione del giusto compenso, tra i quali ricorrono: la situazione economica della società e gli utili conseguiti, l’impegno dell’amministratore, l’attività da costui prestata, i criteri di determinazione del compenso adottati nei precedenti esercizi sociali, il compenso corrente nel mercato per analoghe prestazioni in società di dimensioni simili.

 

 

 

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Carolina Gentile

Carolina Gentile

Dottoranda presso la Scuola di Dottorato "Impresa, lavoro e Istituzioni" dell'Università Cattolica di Milano (curriculum di Diritto Commerciale).(continua)

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