19 Aprile 2021

Il caso Mediaset-Vivendi: condotta volta ad impedire l’avveramento di una condizione sospensiva, cui è subordinata l’esecuzione di un contratto, e conseguenze risarcitorie

In presenza di un contratto di trasferimento di partecipazioni societarie, la cui esecuzione sia subordinata alla condizione sospensiva del rilascio da parte delle Autorità preposte delle autorizzazioni necessarie all’attuazione dell’operazione secondo le disposizioni normative nazionali e sovranazionali, specialmente di carattere antitrust, costituisce inadempimento contrattuale la condotta della parte che consapevolmente non attui le obbligazioni assunte per favorire il rilascio, da parte della Commissione Europea, della dichiarazione di compatibilità dell’accordo col mercato comune. Il mancato avveramento di tale condizione sospensiva per effetto di siffatte condotte obbliga la parte inadempiente al risarcimento del danno.

La parte che, nell’ambito di un contratto sospensivamente condizionato, non adempia agli obblighi preliminari assunti, volti ad agevolare l’avveramento della condizione sospensiva posta nell’interesse di entrambe le parti, in  modo tale da rendere impossibile l’avveramento di tale condizione, è responsabile per inadempimento ai sensi dell’art. 1218 c.c.; in tal caso, la parte inadempiente è obbligata al risarcimento del danno che la controparte abbia subito in conseguenza della definitiva inefficacia del vincolo.

La fictio iuris prevista dall’art. 1359 c.c. – secondo cui la condizione si considera avverata qualora sia mancata per causa imputabile alla parte che aveva interesse contrario al suo avveramento – non può trovare applicazione laddove: (i) la condizione abbia carattere bilaterale, e sia dunque apposta dai contraenti nell’interesse di entrambe le parti; ovvero (ii) laddove l’evento dedotto in condizione sia costituito dal rilascio di autorizzazioni amministrative, indispensabili a realizzare la finalità economica del contratto, che non possono essere sostituite dalla semplice finzione legale della loro effettiva emanazione.

Il contratto condizionato sospensivamente è, sino all’avveramento della condizione, inefficace con riferimento agli effetti tipici programmati nel regolamento negoziale adottato, ma è pur sempre immediatamente produttivo dell’effetto vincolante delle parti all’osservanza delle pattuizioni e degli effetti prodromici e preparatori dell’adempimento nel periodo di pendenza della condizione, che potrebbero aver già determinato mutamenti della situazione giuridica che richiedano l’eliminazione del vincolo ai fini del ripristino di quella originaria. Pertanto, ancorché non siano sorte le obbligazioni derivanti dal regolamento negoziale “sospeso”, la risoluzione per inadempimento del contratto condizionato è configurabile per recidere il vincolo negoziale, se il mancato avveramento della condizione sia imputabile alla violazione ad opera dell’altra parte degli obblighi prodromici specificamente derivanti dal dovere di comportarsi secondo buona fede in pendenza della condizione previsto dall’art. 1358 c.c..

Il contratto sottoposto a condizione sospensiva può ritenersi perfettamente concluso e, anche se non ancora efficace, già produce obbligazioni preliminari o prodromiche – da osservarsi dai contraenti durante la pendenza della condizione – il cui inadempimento può dar luogo ad una responsabilità contrattuale e ad una pronuncia di risoluzione per mancato rispetto degli obblighi di cui all’art. 1358 c.c.. La domanda di risoluzione può essere formulata laddove la parte nutra uno specifico interesse a recidere il vincolo negoziale inefficace per rimuovere ogni possibile conseguenza derivante dalla sua persistenza.

Il pregiudizio eventualmente derivante dalla ‘rottura’ di un vincolo rimasto inefficace, dovuta alla condotta di uno dei due contraenti, costituisce un danno da responsabilità contrattuale, connesso alla violazione dell’obbligo generale di comportamento secondo buona fede in pendenza della condizione, ovvero degli obblighi preliminari che ne costituiscono espressa specificazione; tale danno è risarcibile nei soli limiti in cui esso sia conseguenza immediata e diretta, ai sensi dell’art. 1223 c.c., dell’inattuazione della parte del programma negoziale preordinata a favorire l’avveramento della condizione, o a disciplinare il rapporto fra le parti in pendenza della condizione, non potendo, invece, il pregiudizio essere riferito all’inadempimento delle obbligazioni principali dedotte in contratto, mai sorte in ragione dell’inefficacia del vincolo.

Le spese sostenute da un contraente per consulenze legali e di advisory in relazione alla formazione di un contratto che, a causa della condotta della controparte, sia rimasto improduttivo di effetti, costituiscono danno risarcibile, allorché riguardino la negoziazione, redazione e sottoscrizione dell’accordo; non sono, invece, configurabili come pregiudizio direttamente derivante dall’inadempimento, né sono equiparabili a costi inutilmente sostenuti, le spese sopportate per le difese legali nei giudizi scaturiti dalla vicenda sostanziale, attesoché tali esborsi sono soggetti alla regolamentazione delle spese processuali secondo il principio della soccombenza nell’ambito del singolo giudizio.

La causa, come elemento costitutivo del contratto inteso nella sua accezione più evoluta di funzione individuale della singola e specifica convenzione risultante dalla sintesi degli interessi che il negozio è concretamente diretto a realizzare, a prescindere dal modello astratto del tipo di negozio impiegato dai contraenti ( c.d. causa concreta), va scrutinata in relazione all’assetto impresso dalle parti agli interessi coinvolti nel regolamento negoziale al momento della stipulazione dell’accordo. La mancanza di causa è, quindi, vizio attinente alla fase genetica del contratto che deve emergere dal contenuto dell’accordo attraverso l’esame del regolamento degli interessi che vi è cristallizzato, insensibile alla sopravvenuta inattuazione del programma negoziale, che attiene invece alla fase successiva dell’esecuzione del contratto, così come all’erronea valutazione della convenienza economica dell’affare in relazione al difetto di qualità supposte dell’oggetto della prestazione che attiene, invece, alla possibile esistenza di vizi del consenso o di vizi redibitori.

La diversa misura dell’alea rispetto a quella originariamente percepita da uno dei contraenti, o la divergenza del valore dell’oggetto della prestazione in mancanza di qualità promesse o supposte dell’oggetto del contratto, possono incidere sulla genuinità del consenso o sull’esatta esecuzione dell’impegno negoziale, ma non sull’esistenza della causa del contratto.

Per la valutazione della redditività dell’azienda operante nel comparto delle televisioni a pagamento, caratterizzato dal livello elevato dei costi fissi da sostenere periodicamente per l’acquisto dei diritti di trasmissione dei contenuti e dalla “ volatilità” del parco abbonati che costituiscono l’unica fonte di reddito, i dati relativi all’oscillazione del numero degli abbonati ed al reddito medio per abbonato (c.d. ARPU) in un determinato periodo, così come l’entità dei costi sostenuti per le promozioni mirate all’acquisizione o al mantenimento della clientela, sono fondamentali per valutare le prospettive dell’impresa di produrre utile; tuttavia, la semplice reticenza del venditore su tali dati, risultanti da una disaggregazione o aggregazione diversa da quella attesa dalla controparte non è sufficiente a configurare il dolo omissivo, che, presupponendo, comunque, il raggiro, richiede la prova rigorosa che siano stati forniti dati aggregati o disaggregati in modo errato a fronte di specifiche ed inequivoche richieste.

La condotta di un operatore di primario rilievo che, nell’ambito di un contratto di acquisto di partecipazioni azionarie, si accontenti  di ricevere risposte orali sul valore della società target, invece di rifiutarsi di concludere l’affare in mancanza della possibilità di eseguire una due diligence preventiva, assume i contorni o di una azzardata scelta di rischio imprenditoriale, o di un’inescusabile negligenza, evenienze, entrambe, estranee alla tutela dell’affidamento del contraente in tesi vittima del dolo dell’altro.

L’acquisto di strumenti finanziari derivati di protezione, costituiti da opzioni put europee sulle azioni ordinarie della controparte contrattuale, effettuato in occasione della conclusione di un contratto, rimasto poi inadempiuto, di permuta di partecipazioni azionarie, non rappresenta di per sé un danno risarcibile in capo all’acquirente anche in caso di sopravvenuta inefficacia del vincolo negoziale e mancata esecuzione della permuta, giacché le opzioni put alla scadenza possono, comunque, consentire di ricavare profitto a prescindere dal possesso delle azioni sottostanti; invero, l’acquisto dello strumento finanziario derivato compiuto per ragioni di protezione dal rischio di oscillazione di un dato titolo assume natura meramente speculativa in mancanza nel portafoglio del titolo sottostante, ma non necessariamente si traduce in una perdita.

Gli strumenti finanziari derivati sono caratterizzati dal fatto che prescindono dal possesso e dal trasferimento dei titoli sottostanti, essendo strutturati essenzialmente in modo tale da regolare il rapporto alla scadenza in funzione del prezzo del titolo sottostante, o dell’indice di borsa di riferimento dalla cui oscillazione dipende la perdita o il guadagno; pertanto, l’acquisto di strumenti finanziari derivati in vista della protezione dall’oscillazione del valore di borsa di determinate azioni non diviene completamente inutile con il fallimento dell’operazione di scambio azionario programmata, ma semplicemente si traduce in un acquisto speculativo foriero di pregiudizio patrimoniale solo se l’oscillazione del valore del titolo sottostante, al ribasso o al rialzo, si sia verificata in direzione tale da determinare la chiusura del contratto in perdita.

Il pregiudizio al patrimonio sociale – benché sia suscettibile di riflettersi indirettamente nella riduzione del valore della partecipazione sociale che ne costituisce frazione ideale – è un danno riferibile solo alla società, che, quale soggetto giuridico distinto ed autonomo rispetto al socio, è l’unica legittimata a farlo valere per ottenere un ristoro, da cui deriva, al contempo, l’eventuale, totale o parziale, reintegrazione del valore della partecipazione del socio.

Se la parte contraente vittima dell’inadempimento dell’altra sostiene un costo in occasione della stipulazione del contratto successivamente risolto, essa ha l’obbligo di provare l’esistenza e la consistenza del danno, dimostrando se ed in che misura il costo si sia rivelato completamente inutile per effetto dell’inadempimento dell’altro contraente. Ove il costo sia stato sostenuto per la conclusione di un contratto a prestazioni corrispettive deve provare di non averne avuto alcun beneficio né ricavo, per effetto dell’altrui inadempimento. Conseguentemente, laddove la parte affermi di aver subito un danno derivante dalla rinnovazione, imposta dalla controparte, di contratti di distribuzione asseritamente pregiudizievoli, essa, oltre a quantificare i costi sopportati, deve dimostrare di non aver ottenuto ricavi da detti contratti, ovvero di aver ottenuto ricavi inferiori ai costi, onde provare l’effettiva sussistenza di un danno risarcibile.

La diffusione di notizie ed informazioni di interesse pubblico potenzialmente lesive della reputazione altrui si connota di illiceità solo ove i fatti divulgati siano inveritieri, ed è, quindi, indispensabile che il danneggiato provi in giudizio, innanzitutto, la falsità delle circostanze dalla cui divulgazione la lesione della sua reputazione sociale sarebbe derivata.

La regolamentazione del mercato su cui operano le società quotate in borsa onera specificamente, ai sensi dell’art. 114 T.U.F., le emittenti di azioni quotate alla diffusione di qualsiasi informazione che possa incidere sull’andamento delle quotazioni, anche inerenti i risultati economici dell’attività di impresa o ad operazioni in corso di definizione con altre società, onde prevenirne l’utilizzazione privilegiata da parte della cerchia ristretta di soggetti che ne è a conoscenza ed arginare il fenomeno dell’insider trading; pertanto, la diffusione di notizie anche negative sull’evoluzione di un’operazione negoziale in corso può costituire, in talune situazioni, adempimento di un obbligo specifico per le società quotate, fonte di responsabilità aquiliana solo se le informazioni diramate al mercato non corrispondano a verità.

Laddove una società agisca in giudizio per ottenere il risarcimento del danno cagionato da dichiarazioni pubbliche, in thesi inveritiere, di una controparte contrattuale, in merito all’inattendibilità del business plan della propria partecipata, che avrebbero inciso negativamente sul valore di mercato della partecipata medesima, essa deve dimostrare quale fosse tale valore di mercato al momento della propalazione della notizia, nonché il nesso causale tra la divulgazione della notizia dell’inattendibilità del business plan e l’eventuale flessione del valore di mercato della partecipazione, sotto il duplice profilo della perdita di valore dell’attività e della perdita del valore connesso alle potenzialità di espansione derivanti dall’ instaurazione di proficue sinergie con altre imprese del settore.

Il soggetto che lamenti di aver subito, a causa delle dichiarazioni pubbliche della controparte contrattuale circa l’asserita inattendibilità del business plan di una propria partecipata, un danno relativo alla riduzione del potere negoziale di vendita sul mercato di tale partecipata, deve dimostrare l’esistenza in concreto di potenziali acquirenti, ben individuati in soggetti disposti a competere fra loro per l’acquisto, svaniti dopo la divulgazione delle notizie sulle effettive prospettive di operatività della società target.

Non è illecita la divulgazione di notizie vere sullo stato di difficoltà patrimoniale, economica o finanziaria di altra società; il valore del patrimonio di tale società non può subire alcun pregiudizio ove, per effetto della reale situazione dell’impresa, esso fosse già seriamente compromesso al momento della diffusione delle informazioni.

Con riguardo al danno all’immagine della società e, in generale, degli enti, il pregiudizio non può essere rinvenuto in re ipsa nella diffusione di notizie denigratorie non vere lesive del diritto all’immagine dell’ente, ma richieda l’allegazione puntuale, e la prova, che tale diffusione abbia effettivamente pregiudicato la reputazione commerciale dell’impresa presso i consociati con cui interagisce nel settore di mercato ove opera, non potendo nel sistema della responsabilità civile ascriversi al risarcimento del danno una mera funzione punitiva della violazione dell’interesse tutelato.

L’andamento al ribasso del prezzo di borsa del titolo per il c.d. “effetto annuncio“, cagionato dalla diffusione della notizia della rottura di un accordo, ad opera della controparte contrattuale, costituisce meramente un riflesso sul mercato finanziario della rottura dell’accordo medesimo, che non necessariamente sottintende la lesione della reputazione dell’impresa sul mercato economico in cui opera, e che quindi non crea, di per sé danno al patrimonio della società quotata emittente, strutturalmente esposta alla fluttuazione del valore di borsa delle sue azioni, limitandosi a costituire indice del momentaneo volgere del rischio dell’investimento a sfavore della platea dei suoi azionisti.

In presenza di un contratto di trasferimento di partecipazioni, la cui efficacia sia sottoposta all’avveramento di una condizione sospensiva, che preveda in capo ad uno dei paciscenti l’obbligo di stipulare, al closing, un patto parasociale con un socio della controparte contrattuale, terzo rispetto all’accordo, nessun obbligo nei confronti di tale terzo, neppure di protezione, può sorgere laddove la condizione sospensiva non si verifichi.

In un contratto di permuta di partecipazioni, la previsione del futuro intervento negoziale di un socio di uno dei due paciscenti, attraverso la sottoscrizione di un patto parasociale con l’altro contraente, contestualmente alla conclusione dello scambio azionario, sottintende l’interesse economico di tale socio al successo dell’iniziativa imprenditoriale della società controllata, ma non è idoneo a creare alcun effetto “protettivo” della sua sfera giuridica.

Il patto parasociale che due parti si obblighino a stipulare al verificarsi di una condizione sospensiva non spiega alcun effetto tra i potenziali paciscenti laddove la condizione non si verifichi, anche se il mancato avveramento della condizione sia imputabile ad uno dei contraenti.

La figura del “contratto con effetti protettivi dell’interesse del terzo“, sorta in riferimento alla lesione dei diritti fondamentali della persona e quindi di dubbia applicabilità nell’ambito di un contratto di trasferimento di partecipazioni societarie, per poter sussistere richiede che la protezione che fa assurgere ad aspettativa giuridicamente tutelata il mero interesse di fatto del socio/terzo alla corretta esecuzione della prestazione contrattuale , risulti in modo specifico dal contenuto dell’accordo.

La responsabilità aquiliana concorrente, connessa ad un fatto di inadempimento contrattuale, presuppone che il danno, in capo al terzo, sia derivato dalla lesione non di un mero interesse economico di fatto di detto terzo all’esecuzione del programma negoziale, vincolante solo fra i contraenti, ma di un suo vero e proprio diritto soggettivo, o quantomeno di una sua posizione giuridicamente tutelata, che trovi la sua fonte all’esterno del regolamento contrattuale.

Il danno derivato dall’inadempimento del contratto fra la società ed un terzo, giuridicamente riferibile solo alla società, lambisce il socio di riflesso, colpendolo nel suo interesse meramente economico al successo delle iniziative intraprese nell’esercizio dell’attività comune di impresa, la cui lesione non può configurare il danno ingiusto, elemento costitutivo dell’illecito aquiliano secondo la previsione dell’art. 2043 c.c..

Gli azionisti di una società quotata non hanno diritto a che i terzi che contraggono con la società siano adempienti ai loro impegni negoziali; non può, quindi, configurarsi un illecito aquiliano del terzo contraente, nei confronti dell’azionista, in dipendenza della mera violazione dolosa o colposa dell’accordo stretto con la società emittente, né il c.d. effetto annuncio può essere fonte di danno risarcibile in difetto dei presupposti dell’illecito diffamatorio.

L’oscillazione del valore di borsa del titolo è una componente fisiologica del rischio gravante sul socio di una società quotata che, anche se dovuto ad un evento anomalo, non determina di per sé alcun danno effettivo all’azionista, ma resta a livello di indicatore della misura del rischio che l’investimento sta correndo in un determinato momento, suscettibile di tradursi in perdita economica effettiva solo quando la partecipazione dovesse essere effettivamente dismessa a prezzo inferiore rispetto a quello a cui è stata acquistata.

Il socio di emittente quotata che sia titolare di una partecipazione rilevante, cioè di consistenza quantitativa tale da consentirgli di esercitare un’influenza dominante o il controllo sulla società, in caso di diminuzione del prezzo delle azioni sconta, oltre al rischio di perdita dell’investimento, anche l’aumento del rischio della perdita del controllo della società emittente, rendendo possibili a costo contenuto acquisizioni ostili; tale rischio è, tuttavia, tipico del socio titolare di una partecipazione rilevante in una società quotata, connesso alla struttura stessa della sua compagine sociale, indistintamente aperta a chiunque intenda investire nell’impresa comune, che non gli consente di nutrire alcuna aspettativa alla conservazione dell’assetto proprietario che gli assicura il governo dell’impresa, meno che mai in un mercato che attraverso la disciplina della trasparenza degli assetti proprietari e dell’OPA tende ad incentivare la “contendibilità” del governo delle società quotate per assicurare una gestione quanto più efficiente possibile dell’impresa comune, finanziata attingendo alle risorse di azionisti di minoranza tendenzialmente inerti.

Il rischio di perdita del controllo della società emittente rappresenta un pregiudizio solo a livello potenziale in caso di diminuzione del prezzo azionario, che non può dirsi venuto ad effettiva esistenza ove, nel periodo di ribasso del titolo, il pacchetto azionario di controllo o la partecipazione rilevante siano rimasti saldamente nelle mani del socio di maggioranza.

 

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Giuseppe Colombo

Giuseppe Colombo

Avvocato

Giuseppe Colombo, nato il 25 luglio 1990 a Como, svolge la professione di avvocato, collaborando con Grimaldi Studio Legale. Si è laureato, nell'aprile 2015, in giurisprudenza, specializzazione in diritto d'impresa,...(continua)

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