Art. 21 c.p.i.
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Utilizzo di marchio altrui su pezzi di ricambio e art. 241 cpi
L’attività del ricambista produttore indipendente che sul prodotto apponga il marchio della casa produttrice non può ritenersi lecita e scriminata ai sensi dell’art. 241 CPI, atteso che tale norma, pur avendo una finalità di liberalizzazione del mercato dei componenti del prodotto complesso, lascia impregiudicata la tutela dei marchi della casa di produzione del prodotto complesso.
L’uso del marchio da parte di un terzo che non ne è il titolare è necessario per indicare la destinazione di un prodotto messo in commercio da tale terzo quando tale uso costituisce in pratica il solo mezzo per fornire al pubblico un’informazione comprensibile e completa su tale destinazione al fine di preservare il sistema di concorrenza non falsato sul mercato di tale prodotto. L’uso del marchio non è legittimo quando: a) avviene in modo tale da poter dare l’impressione che esista un legame commerciale fra il terzo e il titolare del marchio, b) compromette il valore del marchio traendo indebitamente vantaggio dal suo carattere distintivo o dalla sua notorietà, c) causa denigrazione o discredito al marchio, d) il terzo presenta il suo prodotto come imitazione o contraffazione del prodotto recante il marchio di cui non è il titolare.
[nel caso di specie la Corte ritiene che l’apposizione del marchio sul copricerchio di un’autovettura non si giustifica ex art. 21 CPI perché allo scopo indicativo della destinazione un uso siffatto del marchio è perfettamente sostituibile con l’apposizione di idonea indicazione sulla confezione laddove invece il permanere del marchio sul prodotto dopo il montaggio sull’automobile, cioè dopo il raggiungimento della destinazione del prodotto, è di per sé dimostrativo della finalità altra del siffatto uso, in agganciamento alla notorietà del marchio con indebito vantaggio del terzo utilizzatore].
Contratto di collaborazione professionale e sfruttamento illecito del noto marchio Sorbillo
Un marchio patronimico anteriore, di norma forte, non può essere inserito in un marchio o in una denominazione sociale altrui successiva, anche se corrispondente al nome del titolare, con riferimento a settori merceologici identici o affini, ovvero per attività economiche o intellettuali parallele a quelle contraddistinte dal marchio anteriore, a meno che tale inserimento sia conforme al principio di correttezza professionale. In particolare l’uso del marchio non è conforme agli usi consueti di lealtà in capo industriale e commerciale quando: avvenga in modo tale da far pensare che esista un legame commerciale fra i terzi e il titolare del marchio; pregiudichi il valore del marchio traendo indebitamente vantaggio dal suo carattere distintivo o dalla sua notorietà; arrechi discredito o denigrazione a tale marchio; il terzo presenti il suo prodotto come un’imitazione o una contraffazione del prodotto recante il marchio di cui egli non è il titolare.
[nel caso di specie l’utilizzo del patronimico “Sorbillo” da parte della società convenuta non ha alcuna valenza descrittiva né dell’attività né dei prodotti bensì si fonda esclusivamente sul contratto di collaborazione intercorso tra la stessa e il Sig. Sorbillo; pertanto, l’uso è prettamente a fini pubblicitari e conseguente illegittimo ai sensi dell’art. 20 e 22 cpi non essendo conforme al principio di correttezza professionale scriminante ex art. 21 cpi]
Limiti all’inserimento nel marchio di un patronimico identico al marchio celebre di un terzo
L’inserimento, nel marchio, di un patronimico coincidente con il nome della persona che in precedenza l’abbia incluso in un marchio registrato, divenuto celebre, e poi l’abbia ceduto a terzi, non è conforme alla correttezza professionale se non sia giustificato, in una ambito strettamente delimitato, dalla sussistenza di una reale esigenza descrittiva inerente all’attività, ai prodotti o ai servizi offerti dalla persona che ha certo il diritto di svolgere una propria attività economica ed intellettuale o creativa ma senza trasformare la stessa in un’attività parallela a quella per la quale il marchio anteriore sia non solo stato registrato ma abbia anche svolto una rilevante sua funzione distintiva.
Rischio di confusione tra segni distintivi: il nome anagrafico utilizzato come marchio
Un nome anagrafico, validamente registrato come marchio e divenuto noto, non può essere successivamente adottato come segno distintivo in settori merceologici identici o affini, neppure dalla persona che legittimamente porti quel nome, non potendosi ritenere tale condotta conforme alla correttezza professionale. Infatti, la norma dell’art. 21 co. 1 lett. a) c.p.i., secondo cui alla suddetta condizione è consentito l’uso del proprio nome nell’esercizio dell’attività economica (peraltro limitatamente alle persone fisiche), ha carattere eccezionale ed è sempre stata interpretata in senso restrittivo, sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza. In nessun caso veniva legittimata l’adozione del proprio nome come marchio, in violazione di precedenti marchi altrui. Si ritiene infatti che contrasti con i principi della correttezza professionale l’uso del proprio nome anagrafico che pregiudichi il valore di un marchio già registrato, contenente lo stesso nome, in quanto in tal modo si trae indebitamente vantaggio dal suo carattere distintivo o dalla sua notorietà. Peraltro il giudizio sulla correttezza professionale dell’uso del nome civile, identico ad un marchio anteriore, deve essere svolto in modo molto rigoroso, ed è ravvisabile solo in presenza di un’effettiva esigenza di informazione incentrata sul nome civile e sulle concrete modalità con cui l’informazione viene fornita, senza che il pubblico venga indotto in errore sull’identificazione del produttore e sulla provenienza dei suoi beni o servizi, anche sotto il profilo dell’associazione tra i segni.
Accertamento della contraffazione e conseguenze della cessazione delle condotte contraffattorie in corso di causa
La spontanea cessazione, in corso di giudizio, della condotta contestata non fa venire meno, di per sé, l’interesse all’accoglimento delle domanda di colui che agisce, ben potendo la parte all’esito del giudizio riprendere la condotta censurata, senza alcuna sanzione. Dovrà quindi procedersi, di volta in volta, ad una valutazione prognostica in merito alla probabilità di ripresa delle condotte contestate, che tenga conto delle peculiarità e delle specificità del caso sottoposto al vaglio del giudice (nel caso di specie il Tribunale ha ritenuto insussistente il rischio di reiterazione, da parte delle convenute, delle condotte contestate, tenuto conto, in particolare, dello stato di apparente inattività di queste ultime, nonché della sopravvenuta installazione di un’insegna del tutto diversa, in cui è spesa una denominazione differente dai segni distintivi azionati in giudizio dalle attrici).
Non sussistono elementi che consentano di ravvisare un danno da contraffazione allorché non sia provato che il presunto contraffattore ha concretamente fatto uso, in violazione dell’art. 20 c.p.i. e nell’ambito della propria attività economica, dei marchi e dei segni distintivi di altrui titolarità, con conseguente non configurabilità, neppure sul piano del pericolo, di un danno da sviamento di clientela ai sensi di cui all’art. 2598 c.c. (nel caso di specie, pur nella contumacia delle convenute, da elementi prodotti agli atti – quali le visure camerali delle convenute o la prova dell’omessa consegna di diffide – il Tribunale ha desunto lo stato di “inattività” delle convenute, per l’effetto rigettando le domande delle attrici volte ad accertare la contraffazione e/o la concorrenza sleale, con ogni conseguenza anche di tipo risarcitorio).
Deve procedersi d’ufficio alla riduzione ad equità della penale, ai sensi dell’art. 1384 c.c., la cui “eccessività” risulta, ex actis, dai documenti legittimamente acquisiti al processo (in applicazione del suddetto principio il Tribunale ha ritenuto che, ove un contratto di licenza permetta al licenziatario di fare legittimo uso di segni distintivi ed allestimenti del licenziante a fronte di un corrispettivo annuo di euro 2.800,00 oltre oneri, risulta manifestamente eccessiva una penale che, alla cessazione del contratto di licenza, preveda l’obbligo per il licenziatario di pagare una somma di euro 100,00 giornalieri per ogni giorno di ritardo nella rimozione di detti segni distintivi ed allestimenti; in sostituzione è stata ritenuta congrua una penale pari al doppio del corrispettivo annuo previsto nel contratto di licenza).
Uso parodistico del marchio altrui
L’uso del marchio altrui è escluso dalla contraffazione solo se si colloca nell’ambito della parodia da intendersi come genere artistico, che dà origine a opere del tutto autonome da quelle parodiate.
L’uso commerciale di segni distintivi, suscettibili di essere percepiti come caricature di marchi altrui, non integra la scriminante dell’uso parodistico (per finalità artistiche) del marchio, poiché nessuna opera autonoma viene creata, ma si costituisce, piuttosto, una contraffazione del marchio. Viene infatti instaurato un agganciamento al messaggio di cui il marchio parodiato è portatore, che si traduce, per l’autore della parodia, in nient’altro che un mero sfruttamento della notorietà di quel marchio, con conseguente detrimento del suo carattere distintivo o della sua notorietà. La disciplina in materia offre tutela non soltanto alla funzione distintiva del marchio ma anche alla funzione attrattiva e pubblicitaria dello stesso, che opera a prescindere dalla sussistenza del rischio che il consumatore sia in concreto tratto in inganno.
Marchi deboli e rischio di confondibilità
La nozione di «luogo in cui l’evento dannoso è avvenuto» sancita dall’art. 5.3 del Reg. 44/2001/CE, oggi art. 7 n.2 del Reg. 1215/2012, deve essere interpretata come comprensiva sia del luogo in cui si è verificata l’azione (o l’omissione) da cui il danno è derivato, sia di quello in cui il danno in questione si è manifestato, da intendersi come luogo in cui l’evento ha prodotto direttamente i suoi effetti dannosi. Ai fini dell’individuazione di entrambi tali luoghi con riferimento agli illeciti costituiti dalla violazione di diritti di proprietà industriale e, in particolare del luogo del danno, deve essere affermato come la natura territoriale che connota tali diritti comporta la sua necessaria identificazione con il territorio dello Stato membro in cui il diritto di privativa è tutelato ed in cui, dunque, si verifica la sua lesione.
Il marchio complesso, che consiste nella combinazione di più elementi, ciascuno dotato di capacità caratterizzante e suscettibile di essere autonomamente tutelabile, non necessariamente è un marchio forte, ma lo è solo se lo sono i singoli segni che lo compongono, o quanto meno uno di essi, ovvero se la loro combinazione rivesta un particolare carattere distintivo in ragione dell’originalità e della fantasia nel relativo accostamento. Quando, invece, i singoli segni siano dotati di capacità distintiva, ma quest’ultima (ovvero la loro combinazione) sia priva di una particolare forza individualizzante, il marchio deve essere qualificato “debole”.
Marchi “deboli” sono tali in quanto risultano concettualmente legati al prodotto per non essere andata, la fantasia che li ha concepiti, oltre il rilievo di un carattere, o di un elemento dello stesso, ovvero per l’uso di parole di comune diffusione che non sopportano di essere oggetto di un diritto esclusivo; peraltro, la loro “debolezza” non incide sull’attitudine alla registrazione, ma soltanto sull’intensità della tutela che ne deriva, atteso che sono sufficienti ad escluderne la confondibilità anche lievi modificazioni od aggiunte.
Ai fini della concorrenza sleale, il carattere confusorio deve essere accertato con riguardo al mercato di riferimento (ovvero “rilevante”), ossia quello nel quale operano o (secondo la naturale espansività delle attività economiche) possono operare gli imprenditori in concorrenza (nel caso di specie è stata esclusa la sussistenza dei presupposti di un’ipotesi di concorrenza sleale in quanto i vini a cui è stata apposta l’etichetta riportante il segno asseritamente in contraffazione erano destinati alla commercializzazione esclusivamente sui mercati americani e inglesi; mentre i vini del titolare del marchio erano commercializzati esclusivamente in Italia).
Premesso che l’art. 121, comma 1, c.p.i., in linea con i principi generali dell’art. 2697 c.c., dispone che l’onere di provare la decadenza di un marchio per non uso grava su chi impugna la privativa; la stessa norma precisa poi che, quando si voglia far valere la decadenza di un marchio per non uso, questo possa essere provato con qualsiasi mezzo, ivi comprese le presunzioni semplici e ciò implica che il giudice può considerare provato il mancato uso quinquennale (consecutivo) del marchio in base ad un procedimento deduttivo da lui stesso condotto sulla base di ulteriori fatti dimostrati in causa.
L’inibitoria contemplata dall’art. 7 c.c. non consegue al semplice uso indebito da parte del terzo di un nome che compete ad altri, ma è necessario che da tale uso consegua un pregiudizio sia pure soltanto nel patrimonio morale di colui che chiede tutela.
Accertamento della contraffazione e sussistenza dei requisiti per la tutela di un segno come marchio di fatto
La genesi di un marchio di fatto non si ricollega automaticamente all’uso, pur protratto ed esclusivo, del segno, ma richiede la prova che tale uso gli abbia attribuito “notorietà”, ossia abbia determinato il diffuso radicamento della forza distintiva del segno nella percezione dei consumatori. Pertanto, l’intensità dell’uso del segno e, conseguentemente, la sua notorietà rappresentano le condizioni primarie e necessarie ai fini del suo riconoscimento e della sua tutela industrialistica come marchio di fatto. L’uso del marchio, per conferirgli la necessaria notorietà, deve essere, quindi, intenzionale e continuo, non precario né sperimentale, occasionale o casuale, e deve assicurare la conoscenza effettiva e diffusa del prodotto contraddistinto.
Contraffazione di un marchio registrato per prodotti cosmetici e keyword advertising
Tramite il servizio a pagamento di sponsorizzazione online “AdWords” di Google qualsiasi operatore economico può, mediante la scelta di più parole chiavi, far apparire un link promozionale che rinvii direttamente al proprio sito. La giurisprudenza comunitaria considera illecito l’utilizzo di marchi altrui quali parole chiavi nel servizio AdWords (o anche come keyword-metatag) solo ove ricorrano specifiche condizioni. In particolare, si configura l’illecito quando l’annuncio non consente o consente soltanto difficilmente all’utente internet normalmente informato e ragionevolmente attento di sapere se i prodotti o servizi a cui l’annuncio si riferisce provengano dal titolare del marchio o da un’impresa economicamente collegata a quest’ultimo oppure, al contrario, da un terzo. Infatti, in tal modo, l’utilizzo del segno da parte di un terzo potrebbe pregiudicare le funzioni del marchio, ossia quella di garantire ai consumatori la provenienza del prodotto o garantire la qualità di detto prodotto o servizio, oppure di comunicazione, investimento o pubblicità. Spetterà poi al giudice nazionale l’esame dell’annuncio che compare tra i link sponsorizzati, facendo proprio il punto di vista dell’utente informato di Internet.
Confondibilità tra marchio patronimico e denominazione sociale
Il nome di un collaboratore di un’azienda (per quanto noto e con funzioni rilevanti) non può essere considerato come preuso di un segno distintivo da poter far valere nei confronti di un marchio o di una ditta successivamente registrati.
L’ipotesi contenuta nell’art. 21 c.p.i. lett. A) può essere esemplificata ideologicamente nell’esigenza di consentire l’uso di segni con funzioni descrittive di dati reali del prodotto, del produttore e dell’uso del prodotto, con il limite che subordina tali facoltà, eccezionali rispetto al diritto di esclusiva, alla circostanza che esso sia conforme ai principi della correttezza professionale ed avvenga in funzione descrittiva. Un’impresa può bensì inserire nella propria ditta una parola che già faccia parte del marchio di cui sia titolare altra impresa, anche quando entrambe operino nello stesso mercato, ma non è lecito che essa utilizzi quella parola anche come marchio. Nel giudizio di confondibilità non si deve tener conto degli elementi descrittivi o generici ma solo del nucleo caratteristico e predominante, definito “cuore del segno”. Si ritiene che esso vada desunto dalla obiettiva composizione dei segni distintivi usati, con riguardo al risultato percettivo, che l’insieme degli elementi nella loro globale composizione può determinare nella clientela di media diligenza ed attenzione e che, una volta accertati gli elementi d’identità, somiglianza e diversità, si debba effettuare un giudizio finale per sintesi.
In aggiunta, l’identità del patronimico, sebbene vi sia uguaglianza tra i prodotti commercializzati, non riguarda il nucleo ideologico caratterizzante il messaggio, non essendo il patronimico, come già affermato, il cuore della ditta dell’azienda convenuta. Vi è confondibilità solo nel caso in cui vi sia appropriazione del nucleo centrale dell’ideativo messaggio individualizzante del marchio anteriore, con riproduzione od imitazione di esso nella parte atta ad orientare le scelte dei potenziali acquirenti; detto nucleo centrale, peraltro, non è identificabile nel mero riferimento a situazioni e contesti ricollegabili ad un determinato settore merceologico, ma riguarda quel quid pluris che connoti, all’interno di quel settore, una specifica offerta.