Art. 21 c.p.i.
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Contraffazione di un marchio registrato per prodotti cosmetici e keyword advertising
Tramite il servizio a pagamento di sponsorizzazione online “AdWords” di Google qualsiasi operatore economico può, mediante la scelta di più parole chiavi, far apparire un link promozionale che rinvii direttamente al proprio sito. La giurisprudenza comunitaria considera illecito l’utilizzo di marchi altrui quali parole chiavi nel servizio AdWords (o anche come keyword-metatag) solo ove ricorrano specifiche condizioni. In particolare, si configura l’illecito quando l’annuncio non consente o consente soltanto difficilmente all’utente internet normalmente informato e ragionevolmente attento di sapere se i prodotti o servizi a cui l’annuncio si riferisce provengano dal titolare del marchio o da un’impresa economicamente collegata a quest’ultimo oppure, al contrario, da un terzo. Infatti, in tal modo, l’utilizzo del segno da parte di un terzo potrebbe pregiudicare le funzioni del marchio, ossia quella di garantire ai consumatori la provenienza del prodotto o garantire la qualità di detto prodotto o servizio, oppure di comunicazione, investimento o pubblicità. Spetterà poi al giudice nazionale l’esame dell’annuncio che compare tra i link sponsorizzati, facendo proprio il punto di vista dell’utente informato di Internet.
Confondibilità tra marchio patronimico e denominazione sociale
Il nome di un collaboratore di un’azienda (per quanto noto e con funzioni rilevanti) non può essere considerato come preuso di un segno distintivo da poter far valere nei confronti di un marchio o di una ditta successivamente registrati.
L’ipotesi contenuta nell’art. 21 c.p.i. lett. A) può essere esemplificata ideologicamente nell’esigenza di consentire l’uso di segni con funzioni descrittive di dati reali del prodotto, del produttore e dell’uso del prodotto, con il limite che subordina tali facoltà, eccezionali rispetto al diritto di esclusiva, alla circostanza che esso sia conforme ai principi della correttezza professionale ed avvenga in funzione descrittiva. Un’impresa può bensì inserire nella propria ditta una parola che già faccia parte del marchio di cui sia titolare altra impresa, anche quando entrambe operino nello stesso mercato, ma non è lecito che essa utilizzi quella parola anche come marchio. Nel giudizio di confondibilità non si deve tener conto degli elementi descrittivi o generici ma solo del nucleo caratteristico e predominante, definito “cuore del segno”. Si ritiene che esso vada desunto dalla obiettiva composizione dei segni distintivi usati, con riguardo al risultato percettivo, che l’insieme degli elementi nella loro globale composizione può determinare nella clientela di media diligenza ed attenzione e che, una volta accertati gli elementi d’identità, somiglianza e diversità, si debba effettuare un giudizio finale per sintesi.
In aggiunta, l’identità del patronimico, sebbene vi sia uguaglianza tra i prodotti commercializzati, non riguarda il nucleo ideologico caratterizzante il messaggio, non essendo il patronimico, come già affermato, il cuore della ditta dell’azienda convenuta. Vi è confondibilità solo nel caso in cui vi sia appropriazione del nucleo centrale dell’ideativo messaggio individualizzante del marchio anteriore, con riproduzione od imitazione di esso nella parte atta ad orientare le scelte dei potenziali acquirenti; detto nucleo centrale, peraltro, non è identificabile nel mero riferimento a situazioni e contesti ricollegabili ad un determinato settore merceologico, ma riguarda quel quid pluris che connoti, all’interno di quel settore, una specifica offerta.
Assenza di apposita clausola di sell-off: l’uso del marchio fuori dal periodo di durata della licenza è ammissibile solo per un periodo congruo al fine di bilanciare gli interessi delle parti
Il venire meno del titolo contrattuale che autorizza l’utilizzo dei segni distintivi fa venire meno il consenso all’utilizzazione dei detti segni distintivi. Purtuttavia, successivamente alla scadenza del contratto di licenza, si può pattuire un termine per la lecita commercializzazione delle scorte o, in caso di mancata previsione, può giustificarsi -in base al canone di buona fede, che sempre deve presiedere i rapporti contrattuali- un circoscritto termine finalizzato allo smaltimento delle scorte. Nel contemperamento degli opposti interessi del titolare del segno e dell’ex licenziatario, in mancanza di un’espressa previsione, il periodo temporale di commercializzazione, successivo alla scadenza del contratto di licenza, deve essere limitato secondo criteri di equità, tenendo conto, da un lato, della natura di diritto assoluto della privativa e, dall’altro, della legittima aspettativa dell’ex licenziatario in buona fede allo smaltimento di giacenze prodotte nel periodo di vigenza del contratto. Tale periodo va circoscritto, tenendo presente gli elementi e le peculiarità del caso di specie e, in particolare, valutando la durata dei rapporti contrattuali e le quantità di prodotti oggetto della produzione. In base agli usi, quando non sia prevista dalle parti una espressa clausola di sell off, si ritiene congruo, per il lecito smaltimento di giacenze, un arco temporale individuabile tra i tre e i sei mesi. La liceità dell’uso del segno è circoscritta alla finalità dello smaltimento delle giacenze e, quindi, non può scriminare condotte volte a promuovere nuovi prodotti, come la promozione e la pubblicizzazione di nuovi modelli, attraverso nuovi cataloghi relativi ad anni successivi alla cessazione della licenza. Tale condotta consentirebbe surrettiziamente l’uso dei segni distintivi altrui, in palese violazione dei diritti assoluti di privativa, per un periodo di tempo indefinito e di gran lunga superiore a quelli riconducibili alla legittima aspettativa dell’ex licenziatario.[Nel caso di specie, il giudice ha ritenuto incongruo un periodo di due anni successivi alla cessazione del contratto di licenza, ai fini del lecito smaltimento delle giacenze. Esso è infatti eccessivo rispetto agli usi, nonché valutando in concreto la durata biennale del contratto di licenza, addirittura uguagliato, se non superato, dal periodo successivo di utilizzazione non autorizzato dei segni distintivi].
Decadenza di marchio per sopravvenuta ingannevolezza
Allorché la ragione sociale e il marchio di una impresa siano decisi dall’impresa controllante, quest’ultima non può successivamente muovere una censura di contraffazione solo per il fatto della successiva separazione societaria, non potendo un evento successivo incidere sulla validità del marchio originario. Può invece essere fondata una domanda di decadenza per l’indebito utilizzo tale da ingannare il pubblico, fra l’altro, circa la reale provenienza dei servizi offerti, se ne sussistono i presupposti.
Tutela come marchio del termine dialettale
Il termine dialettale, percepito nell’ambiente del consumatore medio di un certo prodotto come il termine esclusivo per identificare quel prodotto, non può essere tutelato come marchio, anche se sconosciuto a livello nazionale, perché non è considerato, in quell’ambiente, come distintivo di una specifica impresa produttrice, ma come il termine comune per identificare un prodotto [ LEGGI TUTTO ]
Uso indebito della denominazione del partner a seguito della cessazione del contratto di collaborazione
Una volta cessata la partnership fra due soggetti giuridici, in base alla quale il primo veniva autorizzato a spendere la denominazione del secondo per descrivere l’esistenza della collaborazione, è consentito al primo continuare a usare la denominazione del secondo al solo fine di esporre al pubblico la propria storia imprenditoriale. É invece illecita [ LEGGI TUTTO ]
La tutela del marchio rinomato (Pasha de Cartier)
Nel giudizio di comparazione dei segni devono essere ritenuti identici non solo i segni che tali siano in quanto esatta riproduzione l’uno dell’altro, ma anche tutti i segni che pur presentando differenze, appaiano identici agli occhi del pubblico. Ricorre identità di marchi, infatti, quando uno dei due marchi riproduce l’altro apportandovi complessivamente differenze talmente insignificanti da poter passare inosservate ad un consumatore medio; pertanto, [ LEGGI TUTTO ]
Segni descrittivi non proteggibili nel settore della moda: il marchio “Postina”
Il termine “Postina”, usato con finalità di indicare una categoria di borse ispirata alle borse che erano portate dai postini negli anni ‘50, non è distintivo e non è indicatore di origine del prodotto contrassegnato da tale segno, ma descrittivo di una categoria di prodotti (Massima di specie).
Criteri di legittimità per l’uso del patronimico coincidente con l’altrui marchio
L’uso del proprio patronimico coincidente con l’altrui marchio per contraddistinguere la propria attività deve essere considerato legittimo se conforme alla correttezza professionale, circostanza da ritenere sussistente qualora l’utilizzo avvenga a fini meramente identificativi/distintivi dell’autore delle prestazioni svolte, il che [ LEGGI TUTTO ]
Uso del marchio altrui in opere cinematografiche
Perché si abbia volgarizzazione di un marchio, sotto il profilo oggettivo occorre che il segno abbia perduto il suo significato originario, che abbia cioè smarrito nella realtà linguistica qualsiasi collegamento con l’azienda d’origine e si sia quindi [ LEGGI TUTTO ]