Art. 131 c.p.i.
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Fast fashion brand e rischio di confusione tra segni
In tema di tutela del marchio, l’apprezzamento sulla confondibilità va compiuto dal giudice di merito accertando non soltanto l’identità o almeno la confondibilità dei due segni, ma anche l’identità e la confondibilità tra i prodotti, sulla base quanto meno della loro affinità; tali giudizi non possono essere considerati tra loro indipendenti, ma sono entrambi strumenti che consentono di accertare la cd. “confondibilità tra imprese”. [Nel caso concreto il giudice ritiene che l’apposizione di un mero punto tra le due parole che compongono il marchio del convenuto non appare idonea a distinguerla dal marchio dell’attore, tanto più ove si consideri che entrambi vengono utilizzati per la pubblicizzazione e commercializzazione di abbigliamento]
Gli effetti nei confronti dei terzi del riconoscimento del diritto di uso esclusivo del marchio registrato
Ai sensi dell’art. 20, co. 1 e 2 c.p.i., la registrazione del marchio attribuisce al suo titolare il diritto di valersene in modo esclusivo per i prodotti o servizi per i quali è stato registrato, vietando che un soggetto terzo nell’esercizio della propria attività economica utilizzi un segno distintivo identico o simile, alle condizioni descritte dalla suddetta norma, salvo che sussista un diverso accordo tra il soggetto titolare del marchio e i terzi che ne facciano utilizzo. La ratio della disposizione risiede nella volontà di tutelare il titolare del diritto esclusivo sul marchio avverso qualsivoglia abuso del segno distintivo, prescindendo dall’individuazione del soggetto che sia titolare del segno in asserita contraffazione (nel caso di specie il convenuto aveva svolto attività di mera rivendita di prodotti riportanti un marchio altrui, senza essere a conoscenza dell’illiceità del segno distintivo).
Nel caso di violazione di un diritto di proprietà industriale, la tutela inibitoria di cui agli artt. 124 e 131 c.p.i. può essere concessa, su richiesta dell’interessato, anche quando la contraffazione sia cessata, a prescindere dall’esistenza di un danno attuale o potenziale per il titolare del diritto, trattandosi non di una misura sanzionatoria, ma di mero accertamento, volta a tutelare lo stesso interesse della norma sostanziale violata, di cui costituisce una ripetizione nel caso concreto e a prevenire violazioni della stessa natura di quelle già commesse, con esclusione del solo caso in cui il comportamento illecito sia da tempo esaurito e non più ripetuto.
La potenziale concorrenzialità tra imprenditori operanti nel settore automobilistico è idonea ad integrare l’illecito della concorrenza sleale
In tema di concorrenza sleale, presupposto indefettibile dell’illecito è la sussistenza di una situazione di concorrenzialità tra due o più imprenditori, derivante dal contemporaneo esercizio di una medesima attività industriale o commerciale in un ambito territoriale anche solo potenzialmente comune, e quindi la comunanza di clientela, la quale non è data dalla identità soggettiva degli acquirenti dei prodotti, bensì dall’insieme dei consumatori che sentono il medesimo bisogno di mercato e, pertanto, si rivolgono a tutti i prodotti che sono in grado di soddisfare quel bisogno. La sussistenza di tale requisito va verificata anche in una prospettiva potenziale, dovendosi esaminare se l’attività di cui si tratta, considerata nella sua naturale dinamicità, consenta di configurare, quale esito di mercato fisiologico e prevedibile, sul piano temporale e geografico, e quindi su quello merceologico, l’offerta dei medesimi prodotti, ovvero di prodotti affini e succedanei rispetto a quelli offerti dal soggetto che lamenta la concorrenza sleale.
Contraffazione di un marchio noto nel settore della sartoria italiana e concorrenza sleale per appropriazione di pregi
Concorrenza sleale: storno di dipendenti tra società operanti nel settore dei trasporti di prodotti ittici
La figura dello storno di dipendenti e collaboratori impone una delicata individuazione del discrimen tra le fattispecie lecite, frutto di una dinamica fisiologica del mercato, e quelle illecite, che esprimono una patologia quale espressione della concorrenza sleale per contrarietà alla correttezza professionale. La tutela di una concorrenza leale si misura con la necessità di considerare opposte esigenze, presidiate anche da norme di rilevanza costituzionale, quali la libera circolazione del lavoro e la libertà d’impresa di cui agli artt. 36 e 41 della Costituzione, da limitare solo in presenza di condotte che alterino la dinamica della lecita concorrenza, anch’essa tutelata da disposizioni di natura primaria, anche sopranazionali. Il perimetro rilevante è quindi da individuarsi partendo dall’intensità lesiva del comportamento censurando.
Lo storno è considerato illecito ove il concorrente sleale si appropri di risorse umane altrui: i) in violazione della disciplina giuslavoristica (ad esempio, quanto ai termini di preavviso) e degli altri diritti assoluti del concorrente (quali la reputazione ed i diritti di proprietà immateriale, quali le informazioni riservate); ii) con modalità non fisiologiche, in quanto potenzialmente rischiose per la continuità aziendale dell’imprenditore che subisce lo storno nella sua capacità competitiva. E ciò tenuto conto, da un lato, delle normali dinamiche del mercato del lavoro in un preciso contesto economico e, dall’altro, delle condizioni interne dell’impresa leale; iii) con caratteristiche non prevedibili, in grado cioè di provocare alterazioni non immediatamente riassorbibili, ed aventi un effetto shock sull’ordinaria attività di offerta di beni o di servizi dell’impresa che subisce lo storno. D’altro canto, l’imprenditore leale deve tenere conto, a sua volta, di un mercato del lavoro che si muove dinamicamente, considerato il concreto quadro economico e giuridico nel quale egli stesso opera.
L’animus nocendi, che costituisce ulteriore requisito di fattispecie deve essere inteso quale volontà di recare danno, annientare o distruggere la concorrente, afferente alla sfera soggettiva dell’autore dell’illecito. La condivisibile necessità di restringere le ipotesi di tutela (alzando la soglia della rilevanza dell’illecito) giustificata dall’esigenza di garantire condotte e libertà a copertura costituzionale nella normale dinamica della libera concorrenza del mercato (anche del lavoro) passa dunque attraverso la valorizzazione dell’elemento oggettivo, da sindacare in base all’intensità dell’offesa all’integrità aziendale, che in via presuntiva fa inferire l’elemento soggettivo, depotenziando sotto il profilo probatorio la necessità della prova diretta dell’animus nocendi. Dovrà quindi essere verificato in giudizio se il concorrente ritenuto sleale si sia appropriato di risorse altrui, con modalità che abbiano messo a rischio la continuità aziendale dell’imprenditore nella sua capacità competitiva, ovvero provocato alterazioni non ragionevolmente prevedibili, e determinato uno shock sull’ordinaria attività di offerta di beni o servizi non riassorbibile attraverso un’adeguata organizzazione dell’impresa e di cui lo stornante non possa non essere consapevole giacché ciò corrisponde ad un suo vantaggio anticoncorrenziale.
La protezione dei segreti commerciali accordata dall’art. 98 cpi può essere ottenuta ove venga comprovato: 1) che le informazioni non siano generalmente note o non siano facilmente accessibili agli esperti o altri operatori del settore; 2) che abbiano valore economico; 3) che siano adeguatamente protette.
Violazione della privativa per varietà vegetale di uva da tavola denominata Red Globe
Natura di titolo esecutivo dell’ordinanza cautelare e astreinte
Deve essere confermata la natura di titolo esecutivo dell’ordinanza cautelare ex art. 131 c.p.i., anche per la parte relativa alla fissazione ai sensi del secondo comma di una somma di denaro per ogni violazione o inosservanza successivamente constata e per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento.
Si applica anche all’ipotesi del provvedimento cautelare il principio, adottato con riferimento alle decisioni di merito, secondo cui è dubbia la necessità della parte risultata vittoriosa di ricorrere al rimedio di cui all’art. 124, comma 7, c.p.i., anziché intimare direttamente il pagamento delle somme ritenute dovute in virtù dell’astreinte stabilita dal giudice ponendo in esecuzione direttamente il titolo ed attendendo eventuali opposizioni all’esecuzione della controparte.
L’eccessività della somma portata nel precetto non travolge questo per l’intero ma ne determina la nullità o inefficacia parziale per la somma eccedente, con la conseguenza che l’intimazione rimane valida per la somma effettivamente dovuta, alla cui determinazione provvede il giudice, che è investito di poteri di cognizione ordinaria a seguito dell’opposizione in ordine alla quantità del credito.
Nullità di marchio registrato per carenza del requisito di novità in presenza di un marchio di fatto anteriore
Anche i nomi geografici possono formare oggetto di marchio registrato dal momento che il toponimo può assumere un significato originale e di fantasia mediante trasposizione dal piano del riferimento dei luoghi a quello della funzione individualizzante il prodotto e ciò soprattutto quando si tratta di piccole località ignote come tali alla generalità dei consumatori.
In relazione al marchio non registrato, cd. marchio di fatto, l’utilizzazione rappresenta un elemento costitutivo della fattispecie e la sua assenza determina di per sé l’impossibilità di realizzare una delle condizioni indispensabili per la sua tutela, qualora a seguito dell’interruzione del suo uso e della conseguente perdita di notorietà, sia trascorso un lasso di tempo idoneo a far ritenere che il mercato abbia perso il ricordo del segno e della sua specifica provenienza imprenditoriale, incombendo a chi se ne afferma titolare l’onere di fornire la prova dell’uso, della sua estensione territoriale e della sua persistente notorietà, siccome elementi che attengono tutti alla fattispecie costitutiva del diritto.
La notorietà qualificata del marchio di fatto va riferita all’attualità ed alla sua capacità di svolgere concretamente la funzione distintiva che gli è propria; sicché essa non si può considerare esistente solo in virtù della notorietà e del pregio conseguite dal segno in passato se manca la prova della prosecuzione e dell’attualità della produzione.
Nullità del marchio successivo simile al segno anteriore riproducente l’immagine di un avo e assenza di concorrenza sleale. Carenza di legittimazione attiva
La legittimazione attiva per la tutela del marchio registrato ex art. 20 c.p.i. spetta esclusivamente al titolare del marchio, apparendo irrilevante sul piano del diritto – se non in alcun modo provata – l’autodefinizione in termini di “ex titolare di fatto del marchio” o anche di “autore morale dell’immagine riportata nel marchio”.
La circostanza che l’insegna, e più in generale l’immagine in essa riprodotta, raffiguri un avo di un soggetto non esclude la possibilità che quella immagine possa essere inserita nei segni distintivi aziendali e quindi possa essere legittimamente utilizzata da altri soggetti, acquirenti dei predetti segni.
E’ principio noto e consolidato, in coerenza con la funzione intrinseca del segno, che l’apprezzamento sulla confondibilità fra i segni distintivi similari dev’essere compiuto dal giudice non in via analitica, attraverso il solo esame particolareggiato e la separata valutazione di ogni singolo elemento, ma in via generale e sintetica, vale a dire con riguardo all’insieme degli elementi salienti, grafici, visivi e fonetici dei marchi interessati, e tenuto conto di tutti i fattori pertinenti, e quindi della notorietà del marchio e del grado di somiglianza tra i prodotti, nonché della normale avvedutezza dei consumatori cui i prodotti o servizi sono destinati.
L’uso del patronimico consentito nella ditta, in quanto giustificato per il principio di verità, deve avvenire nell’osservanza dei principi di correttezza professionale, e quindi non in funzione di marchio, e non in contrasto con la disciplina delle privative.
Provvedimenti cautelari di natura anticipatoria e omessa instaurazione del procedimento di merito
In conformità alla formulazione dell’art. 132, comma 4, c.p.i. la mancata instaurazione del giudizio di merito non determina la caducazione dei provvedimenti cautelari di natura anticipatoria che assumono dunque carattere di stabilità.
In forza del combinato disposto dell’art. 187, comma 1, c.p.c. e dell’art. 80-bis disp. att. c.p.c., in sede di udienza fissata per la prima comparizione delle parti e la trattazione della causa ex art. 183 c.p.c., la richiesta della parte di concessione di termine ai sensi del comma 6 di detto articolo non preclude al giudice di esercitare il potere di invitare le parti a precisare le conclusioni ed assegnare la causa in decisione, atteso che, ogni diversa interpretazione delle norme suddette, comportando il rischio di richieste puramente strumentali, si porrebbe in contrasto con il principio costituzionale della durata ragionevole del processo, oltre che con il “favor” legislativo per una decisione immediata della causa desumibile dall’art. 189 c.p.c.