Art. 134 c.p.i.
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ll rigetto della domanda di brevetto rende nullo il contratto di licenza per mancanza di oggetto
Il D.Lgs. n. 168 del 2003, nell’attribuire alle Sezioni specializzate in materia d’impresa la cognizione delle controversie previste dall’art. 3, prevede una competenza per materia avente carattere funzionale e quindi inderogabile. Deve essere dichiarata pertanto inefficace la clausola del contratto di licenza in cui le parti concordano un diverso foro competente.
Il contratto di licenza è nullo, mancando l’oggetto del relativo contratto, ove il titolo di proprietà industriale vantato oggetto di licenza (nella specie, un brevetto) venga rifiutato dall’UIBM per carenza dei requisiti di tutela.
Il fatto che una parti dichiari risolto di diritto il contratto non rende inammissibile l’accertamento successivo della nullità originaria del contratto essendo pacifico che l’adempimento e la risoluzione presuppongono l’esistenza di un atto morfologicamente valido, sicché la nullità può essere sempre oggetto di dichiarazione/accertamento da parte del giudice.
Nel caso in cui il differimento della prima udienza di comparizione da parte del giudice istruttore, ai sensi dell’art. 168-bis, comma 5, c.p.c. intervenga dopo che sia già scaduto il termine di cui all’art. 166 c.p.c. per la costituzione del convenuto, il differimento stesso non determina la rimessione in termini del convenuto ai fini della sua tempestiva costituzione e, di conseguenza, restano ferme le decadenze già maturate a suo carico ai sensi dell’art. 167 c.p.c.
Estensione della competenza della sezione impresa a controversie connesse con l’uso indebito del nome
Rientrano nella competenza della Sezione Specializzata Impresa anche le materie che, come l’uso indebito del nome ai sensi dell’art 7 c.c., presentano ragioni di connessione, anche impropria, con quelle di competenza delle sezioni specializzate ai sensi dell’art 134 c.p.i.
Ai sensi dell’art. 7 c.c. “la persona … che possa risentire pregiudizio dall’uso che altri indebitamente ne faccia, può chiedere giudizialmente la cessazione del fatto lesivo, salvo il risarcimento dei danni”, onde il titolare di un nome (prenome e/o cognome) può impedirne qualsiasi uso indebito, intendendosi per “indebito” non solo il vero e proprio uso usurpativo del nome altrui a fini di identificazione personale – idoneo come tale a creare confusione con altri soggetti –, ma anche ogni altro impiego del nome che possa recare pregiudizio all’identità, intesa estensivamente come il riflesso esteriore della complessiva personalità di un soggetto, come nel caso in cui la lesione del diritto alla corretta identificazione di un soggetto agli occhi della collettività avvenga con l’attribuzione al soggetto di atti, dichiarazioni, iniziative e attività – anche in ambito e per finalità commerciali – cui egli sia totalmente estraneo.
In un’operazione di fusione, secondo la stessa logica per cui la società incorporante non acquisisce la denominazione sociale dell’incorporata – che è elemento identificativo di un soggetto che non esiste più e non un “bene” del patrimonio aziendale che viene acquisito per effetto della vicenda riorganizzativa della fusione – allo stesso modo, ai sensi dell’art. 7 c.c., non potrà usare il nome di un socio defunto, senza il consenso degli eredi, qualora questi abbiano acconsentito all’inclusione del medesimo solo in relazione alla società incorporata di cui era amministratore. Ciò in ragione del fatto che sussiste la mera possibilità per gli eredi di subire un pregiudizio nel vedersi attribuire un’attività a cui sono totalmente estranei o, addirittura, concorrenti.
L’avvalersi del cognome di un soggetto noto nella comunità locale, in particolare associato a un’attività storica e ben radicata nel territorio, costituisce violazione delle norme sui segni distintivi dell’impresa qualora tale uso avvenga senza il consenso degli eredi e sia finalizzato a trarre vantaggio dalla notorietà del nome per attrarre clientela. La modifica della denominazione sociale e dell’insegna aziendale, introducendo tale cognome in un contesto commerciale concorrente, configura altresì atto di concorrenza sleale qualora induca il pubblico a confondere le due attività imprenditoriali e a far erroneamente ricondurre a sé il prestigio accumulato dalla precedente gestione familiare.
Nelle operazioni di fusione tra due società, entrambe aventi come denominazione sociale il nome e cognome dei rispettivi soci fondatori, il diritto della società incorporante di cambiare la propria denominazione sociale con quella della società incorporata – possibile solo se sia stato manifestato consenso espresso a che ciò avvenga – si reputa inequivocabilmente rinunciato se la società incorporante non adotti tempestivamente, rispetto all’evento fusione, le procedure interne necessarie a mutare la propria denominazione.
Qualora due società di capitali abbiano come denominazione lo stesso cognome, ai sensi dell’art.2564 c.c. il conflitto tra i segni distintivi deve essere risolto attribuendo prevalenza all’iscrizione nel registro delle imprese che è intervenuta per prima, non essendo rilevante che una delle due società abbia incorporato tramite fusione altra società avente il medesimo cognome nella denominazione, in quanto questa, per mezzo della fusione, ha cessato di esistere insieme al proprio nome.
Buona fede e recesso dal contratto di licenza di brevetto
Rientra nell’ambito di competenza delle Sezioni Specializzate in Materia di Imprese una controversia avente ad oggetto la ritenuta illegittimità del recesso da un contratto di licenza di brevetto.
In assenza di prova della mala fede del licenziatario, è legittimo, in quanto conforme a buona fede, il recesso da parte del licenziatario da un contratto di licenza di brevetto in cui tale facoltà sia stata subordinata al mancato raggiungimento di una determinata soglia di prodotti venduti, ove il licenziatario si sia attivamente adoperato per il perseguimento di tale scopo [Nel caso di specie, il licenziatario aveva condotto studi di fattibilità tecnico-economica, acquisito preventivi per la produzione dei prodotti tutelati dal brevetto licenziato e sostenuto esborsi per attività fieristiche finalizzate alla loro promozione].
Competenza delle sezioni specializzate per illeciti concorrenziali
Rientrano nella competenza delle sezioni specializzate in materia di proprietà industriale ed intellettuale, ai sensi dell’art. 3, co. 1, lett. a), d.lgs. n. 168 del 2003, le domande di repressione di atti di concorrenza sleale o di risarcimento dei danni che si fondano su comportamenti che interferiscono con un diritto di esclusiva (concorrenza sleale c.d. interferente), avendo riguardo alla prospettazione dei fatti da parte dell’attore ed indipendentemente dalla loro fondatezza. Di converso, esulano dalla competenza delle sezioni specializzate le domande fondate su atti di concorrenza sleale c.d. pura, in cui la lesione dei diritti di esclusiva non sia elemento costitutivo dell’illecito concorrenziale [nel caso di specie, la condotta posta in essere dal convenuto ritenuta potenzialmente integrante concorrenza sleale interferente concerne la sottrazione dei dati relativi alla clientela].
Crediti derivanti da licenza di marchio e competenza funzionale delle Sezione Specializzate
La competenza funzionale della Sezione Specializzata in materia di impresa si determina avuto riguardo al ‘petitum’ sostanziale e alla ‘causa petendi’, dovendo la controversia essere inerente propriamente ai diritti di proprietà industriale e dunque tale per cui la decisione sia idonea a incidere sui medesimi.
La domanda di mero pagamento di corrispettivi contrattuali, pur in tema di licenza d’uso di marchio, in assenza di contestazione alcuna sulla validità del contratto, sul diritto d’uso del marchio, sulla determinazione delle royalties e, comunque, su aspetti propriamente inerenti alla materia di diritti di proprietà industriale, esula dalla competenza funzionale della Sezione specializzata in materia di impresa.
Incompetenza delle sezioni specializzate in materia di impresa rispetto a controversie in materia contrattuale
La competenza delle Sezioni Specializzate in materia di Impresa si determina avuto riguardo al “petitum” sostanziale e alla “causa petendi”, dovendo la controversia essere inerente propriamente ai diritti di proprietà industriale e dunque tale per cui la decisione sia idonea ad incidere sui medesimi.
[Nel caso di specie viene invocato un contratto di licenza d’uso di marchio ma la domanda svolta nel presente giudizio, è domanda di mero pagamento di corrispettivi contrattuali senza che vi sia contestazione alcuna sulla validità del contratto, sul diritto d’uso del marchio Byblos, sulla determinazione della royalties e comunque su aspetti propriamente inerenti la materia dei diritti di proprietà industriale.]
Illecito sviamento della clientela, violazione di informazioni riservate e competenza del Tribunale delle Imprese
Brevetto per invenzione o per modello industriale: tutele. Fra contraffazione (per interferenza) per equivalenti e concorrenza sleale
Ai sensi dell’articolo 52 comma 3 bis del D.lvo n. 30/2005, modificato dal D.lvo n. 131/2010, in tema di contraffazione di brevetti per invenzioni industriali posta in essere per equivalenti, il Giudice, nel determinare l’ambito della protezione conferita dal brevetto, non deve limitarsi ad interpretare il tenore delle rivendicazioni alla luce della descrizione e dei disegni, bensì deve contemperare l’equa protezione del titolare con la ragionevole sicurezza giuridica dei terzi e, quindi, deve considerare ogni elemento che sia sostanzialmente equivalente ad uno di quelli indicato nelle rivendicazioni. Per far ciò, il Giudice può avvalersi di varie metodologie finalizzate ad accertare l’equivalenza della soluzione inventiva, come il verificare se la realizzazione contestata permetta di raggiungere il medesimo risultato finale adottando varianti prive del carattere di originalità.
L’originalità manca se le varianti sono ovvie alla luce delle conoscenze in possesso del tecnico medio del settore che si trovi ad affrontare il medesimo problema. Il Giudice non può attribuire rilievo alle intenzioni soggettive del richiedente del brevetto, sia pur ricostruite storicamente attraverso l’analisi delle attività poste in essere in sede di procedimento amministrativo diretto alla concessione del brevetto.
La Corte di legittimità (v. Cass. Civ. n. 2977/2020), in particolare, ha fatto applicazione del principio, di elaborazione giurisprudenziale tedesca, secondo il quale sintomo della contraffazione per equivalenti è proprio l’ovvietà o non originalità della soluzione sostitutiva adottata dal contraffattore rispetto alla soluzione brevettata, tenendo conto alle conoscenze medie del tecnico del settore.
L’equivalenza sussiste ove la variante realizzativa adottata risulti per il tecnico medio del settore ovvia, e, dunque, non originale, per ottenere la stessa soluzione al problema tecnico risolto dall’invenzione, non assumendo, invece, rilievo alcuno le limitazioni volontarie delle rivendicazioni introdotte dal titolare del brevetto nel corso della procedura di brevettazione (la cosiddetta “file history”). Del resto [anche la giurisprudenza di merito (v. ad es. Trib. Milano 20 settembre 2018), facendo applicazione del criterio del c.d. triple test, ha ritenuto la contraffazione per equivalenti in un caso in cui due determinati prodotti a confronto (nella specie, farmaci), svolgevano la medesima funzione, agivano con lo stesso modus operandi e, infine, ottenevano il medesimo risultato, e ciò in quanto il trovato sospettato di interferenza suggeriva soluzioni sostitutive prive di originalità, attuative degli elementi essenziali originali e caratteristici dell’idea brevettata, e, quindi, ovvie per il tecnico del ramo. L’illecito in commento, invece, deve essere escluso quando la soluzione del problema tecnico sia raggiunta con un meccanismo che, pur determinando identiche prestazioni funzionali, operi con mezzi strutturali diversi.
In materia di competenza funzional-territoriale in applicazione dei principi generali regolatori degli istituti della domanda riconvenzionale e della connessione, stante il sopravvenuto venir meno della inderogabilità della competenza territoriale prevista dal citato art. 120 c. III CPI per effetto della caducazione dell’obbligatorietà dell’intervento del P.M, il giudice della domanda principale può conoscere, nel medesimo processo, della domanda riconvenzionale che sia connessa alla prima per l’oggetto oltre che per il titolo.
La generica prospettazione della violazione di un segreto industriale non basta a determinare la competenza delle sezioni specializzate in materia di impresa
Rientrano nella competenza delle sezioni specializzate in materia di impresa le domande di repressione di atti di concorrenza sleale o di risarcimento dei danni che si fondano su comportamenti che interferiscono con un diritto di esclusiva (concorrenza sleale cd. “interferente”), avendo riguardo alla prospettazione dei fatti da parte dell’attore ed indipendentemente dalla loro fondatezza, mentre esulano dalla competenza delle sezioni specializzate le domande fondate su atti di concorrenza sleale cd. “pura”, in cui la lesione dei diritti di esclusiva non sia elemento costitutivo dell’illecito concorrenziale.
La generica prospettazione della violazione di un segreto industriale non basta a determinare la competenza delle sezioni specializzate in mancanza dei presupposti fattuali richiesti dalla legge onde si configuri l’oggetto stesso della tutela a mente dell’art. 98 c.p.i., comma 1, lett. a) b) e c), ossia onde un segreto abbia attinenza con la materia industriale, e di reali indicazioni descrittive del contenuto effettivo di quei segreti, non potendo la primaria funzione assertiva essere surrogata da espressioni lessicali solo evocative di mere categorie, lasciate prive di contenuti concreti (nel caso di specie il Tribunale ha ritenuto che l’attrice, nel prospettare la sottrazione di informazioni riservate, avesse svolto allegazioni non sufficientemente circostanziate, omettendo di indicare concreti elementi di valutazione, in fatto, idonei ad individuare la natura, la tipologia ed il contenuto effettivo dei dati aziendali asseritamente sottratti e a verificare, sia pure ai più limitati fini della determinazione della competenza, la sussistenza dei requisiti cui gli artt. 98 e 99 c.p.i. subordinano il carattere “segreto” dell’informazione; il ritenuto difetto di siffatte allegazioni ha portato il Tribunale a qualificare la fattispecie sottoposta al suo esame in termini di concorrenza sleale “pura” e, quindi, a dichiarare la propria incompetenza ratione materiae).
In tema di concorrenza sleale, il luogo di commissione dell’illecito (rilevante ai fini della corretta individuazione del giudice competente per territorio alla stregua dei criteri alternativi indicati dagli artt. 19 e 20 cod. proc. civ.) non è quello in cui l’attore che si affermi danneggiato ha la sua sede, bensì quello nel quale si siano materialmente verificati sia gli atti che si assumono lesivi della norma di cui all’art. 2598 cod. civ., sia i conseguenti effetti, sul mercato, dell’attività concorrenziale vietata (nel caso di specie il Tribunale ha fatto coincidere il locus commissi delicti con quello in cui la convenuta – impresa operante nel settore della produzione, distribuzione e rivendita di valvole e tubazioni prefabbricate di alta qualità e nei correlativi servizi di analisi dei fluidi – aveva i propri stabilimenti industriali).
Il fatto che le condotte contestate come sleali siano state attuate in tutto o in parte all’interno del più ampio contesto di lavoro non vale a fondare l’eccezione di incompetenza per materia, laddove dall’atto introduttivo emerga che l’attrice non abbia inteso svolgere nei confronti del convenuto azione di inadempimento delle obbligazioni “ex contractu” (e specificamente del dovere di lealtà ex art. 2015 c.c.), bensì un’azione di risarcimento danni per illeciti extracontrattuali (nel caso di specie il Tribunale ha ritenuto infondata l’eccezione di incompetenza per materia in favore del Giudice del lavoro sollevata da uno dei convenuti, in ragione del fatto che l’attrice non ha allegato il rapporto di lavoro come causa petendi, bensì come mera occasione nel cui ambito si sono verificate le condotte anticoncorrenziali contestate).
Concorrenza sleale per imitazione servile in ambito di prodotti per l’igiene e la pulizia della casa
In tema di concorrenza sleale, al fine di accertare l’esistenza della fattispecie della confondibilità tra prodotti per imitazione servile, è necessario che la comparazione tra i medesimi avvenga non attraverso un esame analitico e separato dei singoli elementi caratterizzanti, ma mediante una valutazione sintetica dei medesimi nel loro complesso, ponendosi dal punto di vista del consumatore e tenendo, quindi, conto che, quanto minore è l’importanza merceologica di un prodotto, tanto più la scelta può essere determinata da percezioni di tipo immediato e sollecitazioni sensoriali, anziché da dati che richiedano un’attenzione riflessiva, e considerando altresì che il divieto di imitazione servile tutela l’interesse a che l’imitatore non crei confusione con i prodotti del concorrente. L’imitazione rilevante ai sensi dell’art. 2598, n. 1, cod. civ. non esige la riproduzione di qualsiasi forma del prodotto altrui, ma solo quella che cade sulle caratteristiche esteriori dotate di efficacia individualizzante, e cioè idonee, in virtù della loro capacità distintiva, a ricollegare il prodotto ad una determinata impresa, sempreché la ripetizione dei connotati formali non si limiti a quei profili resi necessari dalle caratteristiche funzionali del prodotto; ne consegue che, in caso di utilizzo di confezioni identiche a quelle della impresa concorrente, sussiste l’illecito predetto se tale comportamento è idoneo ad indurre il consumatore in inganno sulla provenienza del prodotto. La sussistenza di una reale possibilità di confusione tra prodotti di imprese concorrenti va apprezzata dal punto di vista dei consumatori dei prodotti stessi che siano di media diligenza e intelligenza, ma anche con riferimento al tipo di clientela cui il rapporto è destinato [nel caso di specie, avente ad oggetto detergenti, il Tribunale ha ritenuto sussistente la concorrenza sleale in ragione delle dimensioni, colori e forma similari delle bottiglie impiegate per il confezionamento del prodotto, dell’identità di forma e colore dei tappi, della somiglianza delle indicazioni relative alle diverse profumazioni dei vari prodotti, nonché della somiglianza per forma e colorazione del logo riprodotto sulle etichette, il tutto dato anche conto del fatto che il pubblico di riferimento era rappresentato dal consumatore medio].