Art. 1175 c.c.
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Frazionamento giudiziale abusivo del credito
In tema di risarcimento del danno da responsabilità civile, il danneggiato, a fronte di un unitario fatto illecito non può frazionare la tutela giudiziaria agendo separatamente, neppure mediante riserva di far valere in altri procedimenti diverse voci di danno, in quanto si tratterebbe di una condotta che aggrava la posizione del debitore, ponendosi in contrasto con il generale dovere di correttezza e buona fede e risolvendosi, quindi, in un abuso dello strumento processuale. Non costituisce, tuttavia, ipotesi di frazionamento abusivo del credito (e, quindi, violazione dell’art. 1175 c.c.) la formulazione di domande in autonomi giudizi solo se risulti, in capo al creditore, un interesse oggettivamente valutabile alla tutela processuale frazionata (qualora, ad esempio, uno dei crediti originati da un medesimo rapporto obbligatorio possa essere accertato mediante il ricorso ad uno strumento processuale di più veloce definizione rispetto a quello necessario per accertare la sussistenza degli altri crediti originati dallo stesso rapporto). In assenza di un interesse oggettivamente valutabile del creditore, la condotta frazionata deve ritenersi strumentale e, pertanto, non meritevole di protezione dall’ordinamento giuridico.
Carenza dei presupposti per la risoluzione e annullamento del contratto di cessione di quote in caso di violazione delle clausole cd. di “Representations & Warranties”
E’ improponibile la domanda di risoluzione del preliminare (e di conseguenza del contratto definitivo) fondata sul grave inadempimento identificato nella violazione delle clausole di “dichiarazione e garanzia” per falsa dichiarazione-sopravvenienza di debito e falsa dichiarazione in ordine alla situazione di insolvenza della società, nel caso in cui il contratto preliminare preveda il rimedio indennitario in luogo della risoluzione del medesimo. [ LEGGI TUTTO ]
L’attore deve adeguatamente provare la violazione delle norme antitrust per far valere la nullità del contratto
Appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario le domande di risarcimento del danno cagionato dalla violazione della normativa
Antitrust dell’Unione Europea e di quella nazionale di cui all’art. 33, comma 2, l. n. 287/90, nonché le domande di risarcimento di natura contrattuale attinenti alla pretesa violazione degli obblighi di buona fede e di protezione dell’altro contraente sul presupposto dell’applicazione di prezzi eccessivi derivanti dall’abuso di posizione dominante e di dipendenza economica (nel caso di specie si trattava di una causa c.d. quasi follow on).
Qualora il materiale probatorio raccolto dall’attore sia insufficiente a provare che lo stesso rivestiva, in un contratto di sublocazione, una qualifica soggettiva tale da esigere nei confronti del monopolista legale l’applicazione della tariffa prevista ex lege, si deve ritenere non provato l’abuso di posizione dominante; pertanto, il monopolista non poteva essere tenuto, nella fase genetica del contratto, ad adottare una condotta imposta dalla legge al fine di stabilire in misura congrua l’entità dei corrispettivi contrattuali.
Natura extracontrattuale dell’abuso di posizione dominante ex art. 102 TFUE ai fini della prescrizione e degli effetti restitutori
La data di decorrenza del termine prescrizionale quinquennale ai sensi dell’art. 2935 c.c. dell’azione per illecito antitrust coincide con il momento in cui il danneggiato abbia avuto sufficiente ed adeguata informazione quanto alla sussistenza dell’illecito lamentato.
I comportamenti tenuti dalla società di gestione di un aeroporto, consistenti nell’applicare canoni di sub-concessione non equi ed eccessivamente onerosi, quanto alla messa a disposizione di spazi operativi (uffici) all’interno dell’aeroporto per lo svolgimento delle attività di handling cargo, sono idonei ad integrare esclusivamente un illecito concorrenziale per violazione dell’art. 102 TFUE (con correlata prescrizione quinquennale) e non anche una responsabilità contrattuale, né una responsabilità precontrattuale da contatto sociale qualificato (con correlata prescrizione decennale). Infatti, l’obbligo di comportamento antidiscriminatorio si pone a monte del contratto e impone un obbligo di tenere una determinata condotta che può collocarsi sia all’interno di un contratto in essere, che all’esterno dello stesso (ad esempio con un obbligo a contrarre). Dunque non si tratta di obblighi derivanti dal contratto, ma nascenti da norme esterne al contratto stesso. Il fatto che l’applicazione di determinate tariffe non discriminatorie incida, poi, sul contratto, non può cambiare la natura dell’illecito. Inoltre, è indubbio che l’illecito è tale in quanto è violata la normativa comunitaria che regola i comportamenti di abuso di posizione dominante, e dunque, come sopra detto, è violata una regola di comportamento che si pone al di fuori del contratto. In altri termini non è violata la norma che si sono date le parti (cioè la regola contrattuale), ma sono violate norme che si pongono a monte del contratto, e, in ipotesi, anche al di fuori di esso. Né può ritenersi che una tale valutazione possa porre dei problemi di compatibilità e di tenuta della normativa rispetto al contesto comunitario, essendoci già stata occasione di rilevare come in materia di disciplina della concorrenza nell’ordinamento italiano, anche nel regime anteriore all’entrata in vigore della direttiva 2014/104/Ue , il diritto al risarcimento del danno da illecito antitrust risulta garantito, senza che possa ravvisarsi un’impossibilità o eccessiva difficoltà di esercizio, al punto di vanificare il principio di effettività della tutela posto dall’ art. 102 TFUE , dalla previsione di un termine quinquennale di prescrizione, dettato dalla normativa nazionale, che cominci a decorrere dal momento in cui sia stato dato, con pubblicità legale, avvio al procedimento amministrativo dinanzi all’Autorità Garante per l’accertamento dell’abuso di posizione dominante, rispetto ad un’impresa concorrente.
Correttezza e buona fede nel contratto di franchising e affitto di ramo d’azienda
Responsabilità precontrattuale, obblighi di correttezza e buona fede in pendenza di trattative finalizzate alla stipulazione di un contratto di cessione di un ramo d’azienda
La pacifica applicazione dell’art. 1223 c.c. anche all’ipotesi di responsabilità da contatto qualificato determina il diritto del danneggiato al ristoro del pregiudizio subito sia nella forma del danno emergente che del lucro cessante. Tuttavia, la peculiarità dell’illecito e le caratteristiche della responsabilità precontrattuale, la quale, nel caso di ingiustificato recesso dalla trattativa, postula il coordinamento tra il principio secondo cui il vincolo negoziale sorge solo con la stipulazione del contratto e il principio secondo cui le negoziazioni devono svolgersi correttamente, comportano alcune particolarità in tema di determinazione del danno. Infatti, non essendo stato stipulato il contratto e non essendovi stata lesione dei diritti che dallo stesso sarebbero nati, non può essere dovuto un risarcimento equivalente a quello conseguente all’inadempimento contrattuale, mentre essendosi verificata la lesione dell’interesse al corretto svolgimento delle trattative, il danno risarcibile è unicamente quello consistente nelle perdite che sono derivate dall’affidamento nella conclusione del contratto e nei mancati guadagni verificatisi in conseguenza delle altre occasioni contrattuali perdute (c.d. ‘interesse negativo’). L’ammontare del danno va parametrato non già alla conclusione del contratto bensì al c.d. interesse contrattuale negativo che copre sia il danno emergente, ovvero le spese sostenute, che il lucro cessante, da intendersi, però, non come mancato guadagno rispetto al contratto non eseguito ma in riferimento ad altre occasioni di contratto che la parte allega di avere perso.
Condotte integranti concorrenza sleale
L’utilizzo, da parte di un’impresa concorrente e, segnatamente, nella propria pubblicità, di un segno distintivo di cui altra impresa ha diritto all’uso esclusivo come marchio di fatto, può essere inibito, ove tale utilizzo possa determinare confusione nel pubblico, a sensi dell’art. 2, comma 4, c.p.i. (che tutela i segni o marchi di fatto) e dell’art. 2598 c.c.; tale utilizzo dell’altrui segno distintivo, anche di fatto, costituisce infatti non solo “contraffazione di marchio”, ma anche “concorrenza sleale confusoria”, quando si verifica nell’ambito di un rapporto concorrenziale. [ LEGGI TUTTO ]
Inefficacia del term sheet per mancato avveramento di una condizione sospensiva priva di termine specifico
Al fine di valutare secondo i canoni di buona fede oggettiva la correttezza del comportamento di una parte che dichiari di ritenere divenuto inefficace un term sheet per il mancato avveramento di una condizione sospensiva priva di un termine specifico, occorre considerare gli interessi dedotti in contratto per verificare se era ormai decorso un lasso di tempo ragionevole entro il quale secondo il regolamento contrattuale si sarebbe dovuta verificare la condizione sospensiva ovvero se al momento della dichiarazione della parte poteva ancora ritenersi presente l’interesse contrattuale al suo mantenimento.
Profili sostanziali sull’invalidità delle delibere assembleari per abuso di potere di maggioranza
La figura dell’abuso del potere di maggioranza non trova diretto fondamento nella legge, ma ha origini di matrice giurisprudenziale. Tale profilo di invalidità è considerato integrato laddove la delibera risulti arbitrariamente e fraudolentemente volta al perseguimento di interessi divergenti da quelli societari, ovvero preordinata alla lesione degli interessi dei soci di minoranza. Così delineata, è l’unica ipotesi in cui al giudice è concesso un esame del merito della delibera societaria, andando oltre un controllo di mera legalità formale. In tali ipotesi formalmente non vi è violazione di alcuna disposizione di legge o di atto costitutivo, ma il principio di maggioranza, usato per l’approvazione delle delibere societarie, viene strumentalizzato a danno degli interessi della minoranza assembleare.
Orientamento ormai consolidato sostiene che l’abuso di potere costituisca una violazione della clausola generale di correttezza e buona fede contrattuale nell’esecuzione del contratto sociale, che trova fondamento negli artt. 1175 e 1375 c.c., sull’assunto che le delibere assembleari costituiscono fondamentali momenti esecutivi del contratto di società. Tali norme impongono che i soci informino il proprio operato ai suddetti principi, imponendo un impegno di cooperazione in base al quale ciascun socio deve tenere condotte “idonee a soddisfare le legittime aspettative degli altri membri della compagine societaria” (Cass. 11 giugno 2003, n. 9353)
In sostanza, una delibera può definirsi invalida per abuso del potere di maggioranza quando essa non trovi alcuna giustificazione nell’interesse della società, o perché tesa al perseguimento da parte dei soci di maggioranza di un interesse personale antitetico con quello sociale, oppure perché espressione di un’attività fraudolenta dei soci di maggioranza preordinata a ledere i diritti di partecipazione e degli altri diritti patrimoniali spettanti ai soci di minoranza. Tali requisiti evidenziati non sono richiesti congiuntamente, ma in alternativa.
In tema di onere della prova, il socio che assume l’illegittimità della deliberazione per abuso della maggioranza sarà tenuto a provare che la maggioranza, attraverso il deliberato impugnato, abbia perseguito interessi extrasociali, ovvero che questi interessi erano finalizzati a danneggiare la minoranza. Soprattutto sarà onere della parte impugnante dimostrare che alla base della decisione della maggioranza non vi fosse alcun interesse sociale e che alcun vantaggio per la società possa derivarne.
Mancata ricostituzione del capitale sociale eroso da perdite rilevanti
Qualora il capitale sociale di una s.r.l. sia stato eroso da perdite rilevanti ai sensi dell’art. 2482-ter c.c. ed il corretto espletamento della procedura obbligatoria volta alla loro reintegrazione non sia andato a buon fine, l’assemblea va tempestivamente convocata per deliberare lo scioglimento obbligatorio della società ai sensi dell’art. 2484, co. 1, n. 4.