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Art. 1226 c.c.
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3 Dicembre 2022

L’azione di responsabilità esercitata dal curatore: termine di prescrizione e quantificazione del danno

L’azione di responsabilità esercitata dal curatore ex art. 146 l.fall. ha natura unitaria e inscindibile e racchiude in sé, quale strumento di reintegrazione del patrimonio della fallita unitariamente considerato a garanzia sia dei soci che dei creditori sociali, tanto l’azione spettante alla società quanto quella a tutela dei creditori sociali; ciò comporta che anche in assenza di una specificazione, si deve presumere che il curatore abbia inteso esercitare congiuntamente entrambe le azioni. Nondimeno, la natura giuridica e i presupposti delle due azioni rimangono diversi ed indipendenti. Ne consegue che il curatore ha il vantaggio di cumulare i vantaggi di entrambe le azioni, sia sotto il profilo dell’onere della prova (gravando sul fallimento esclusivamente l’onere di dimostrare la sussistenza delle violazioni ed il nesso di causalità tra queste ed il danno verificatosi, gravando invece sull’amministratore l’onere di dimostrare la non imputabilità a sé del fatto dannoso), sia per quanto attiene al regime della prescrizione.

Il termine di prescrizione quinquennale  ex art. 2949, co. 2, c.c. decorre dal momento in cui si è palesata e resa percepibile dai terzi l’insufficienza patrimoniale della società. Al riguardo, ricorre una presunzione semplice che tale momento coincida con il fallimento della società, salvo la prova contraria – ovvero che l’insufficienza patrimoniale si sia manifestata prima – a carico dell’amministratore.

La quantificazione del danno non si sottrae ai principi generali in tema di onere della prova che solo possono essere mitigati dal ricorso all’equità, ma sempre nella ricorrenza della prova dell’esistenza del danno. Infatti, l’esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c., espressione del più generale potere di cui all’art. 115 c.p.c., presuppone che sia provata l’esistenza di danni risarcibili e che risulti obiettivamente impossibile o particolarmente difficile, per la parte interessata, provare il danno nel suo preciso ammontare; non è possibile, invece, in tal modo surrogare il mancato accertamento della prova della responsabilità del debitore o la mancata individuazione della prova del danno nella sua esistenza.

È inammissibile la domanda di revoca del curatore per asserita mala gestio per condotte attive od omissive in spregio del dovere di diligenza proprio dell’ufficio. Il curatore è un organo della procedura concorsuale e la sua revoca, come la sua nomina e la sua sostituzione, sono di competenza esclusiva del tribunale fallimentare ex art. 23 l.fall.

22 Novembre 2022

Royalties spettanti all’autore: copie vendute o copie stampate?

La percentuale prevista in favore degli autori, cd. royalties, è determinata sulle copie vendute e mai potrebbe essere stabilita sulle copie stampate che ovviamente, per l’editore, costituiscono una passività fino a quando non sono appunto vendute. Non ha quindi alcun fondamento logico, prima ancora che giuridico, la pretesa del pagamento di una percentuale per i diritti d’autore, semplicemente sul numero di copie che la casa editrice si era impegnata a stampare e che per diversi motivi non ha stampato.

Non coglie nel segno, pertanto, la tesi secondo cui la mancata tiratura iniziale delle copie concordate avrebbe creato un pregiudizio derivante dalla minore circolazione e commerciabilità dell’opera con conseguente danno da stimare in via equitativa con riferimento al parametro dei diritti d’autore che alla stessa sarebbero spettati.

15 Luglio 2022

Allegazione e prova dell’esistenza di un’intesa restrittiva della concorrenza all’interno del mercato nazionale bancario

La mancata prova dell’esistenza di un’intesa anteriore o coeva alla stipulazione del contratto personale di garanzia, avente come oggetto o effetto quello di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale bancario attraverso la fissazione di specifiche condizione contrattuali, cagiona l’ inadempimento dell’onore probatorio ex art. 1697 c.c. per cui la domanda volta all’accertamento della nullità del contratto sottoscritto non può essere accolta, e né può trovare accoglimento la domanda subordinata di declaratoria della nullità parziale. Ad ogni modo, l’allegazione generica e non meglio specificata di una negazione della libertà di iniziativa economica e della compressione della propria sfera di disponibilità patrimoniale non consentirebbe, in ogni caso, di per sé sola, di ritenere assolto l’onere probatorio della domanda risarcitoria, né sarebbe applicabile il ricorso al criterio equitativo di cui all’art. 1226 c.c., che presuppone l’impossibilità oggettiva ed assoluta di prova del danno nel suo preciso ammontare.

24 Maggio 2022

Sulla prova del danno cagionato dall’inadempimento a doveri negoziali

Al creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, è sufficiente provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, essendo il debitore convenuto gravato dell’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa; tuttavia, rimane in capo a parte attrice l’onere di indicare la natura del danno sofferto, dando prova del nesso di causalità e dell’ammontare, costituito dall’avvenuto adempimento.

In caso di mancata prova del danno emergente, la prova del lucro cessante può essere raggiunta guardando alla somma predeterminata negozialmente dalle parti quale garanzia a fronte degli impegni assunti, costituendo essa un parametro oggettivo cui poter ricorrere ai fini della quantificazione del danno da mancato guadagno: tale previsione, che certo non svolge la funzione tipica della clausola penale, può costituire un indice significativo e univoco del “valore” finale che le parti hanno attribuito all’affare.

12 Maggio 2022

Profili di illiceità dell’adozione come denominazione sociale di un segno identico a una ditta e un marchio registrato anteriori

È illecita sotto plurimi profili la condotta consistente nell’utilizzo di una denominazione sociale identica tanto al nome breve di un’associazione attrice precedentemente costituita e operante nello stesso settore imprenditoriale, quanto al marchio denominativo registrato su domanda anteriore. Essa, infatti, viola sia l’art. 2563 c.c. a tutela della ditta dell’imprenditore, sia gli artt. 2569 c.c. e 20 e 22 del c.p.i. a tutela del marchio registrato, sia infine l’art. 2958 n. 1, c.c. in materia di concorrenza sleale confusoria. In mancanza, tuttavia, di allegazione e prova da parte dell’attrice della sussistenza di un qualsiasi pregiudizio risarcibile riconducibile alla adozione, da parte della società convenuta, di una denominazione sociale identica al proprio marchio registrato e alla propria ditta/nome in forma abbreviata, non è possibile addivenire ad una liquidazione equitativa del danno ai sensi dell’art. 1226 c.c. e la relativa domanda dev’essere rigettata.

19 Aprile 2022

Inadempimento della scrittura privata concernente la suddivisione dei marchi, risarcimento dei danni ex art. 125 c.p.i. e relativo onere probatorio

L’art. 125 c.p.i. non costituisce una deroga in senso stretto alla regola ordinaria sul risarcimento dei danni e al relativo onere probatorio, ma rappresenta una semplificazione probatoria che pur presuppone un indizio della sussistenza dei danni arrecati, attuali o potenziali, cosicché la liquidazione non può essere effettuata sulla base di un’astratta presunzione e, in applicazione degli art. 1223 e seg. c.c., non si può dunque prescindere dalla prova di un adeguato rapporto di causalità tra l’atto illecito e i danni sofferti ed allegati, secondo i criteri ordinari probatori. Ciò vale anche per la giusta royalty, poiché la successione letterale e logica tra le norme dei primi due commi esprime l’intento del legislatore di non sganciare il criterio risarcitorio del “giusto prezzo del consenso” dalla norma generale di cui al primo comma, che richiama, appunto, i principi generali dettati dagli artt. 1223 ss., c.c.. La restituzione degli utili, disciplinata nell’art. 125 c. 3 c.p.i., può essere chiesta dal titolare del diritto di privativa senza che sia necessario allegare e provare, in primo luogo, che agli utili realizzati dal contraffattore, sia corrisposto un mancato guadagno da parte sua; in secondo luogo, che l’autore della violazione abbia agito con colpa o con dolo. La restituzione degli utili costituisce una vera e propria domanda che deve essere proposta entro la soglia fissata dalla legge processuale per le preclusioni assertive, quindi quantomeno entro il termine della prima memoria ex art. 183 c.p.c., comma 6.

28 Marzo 2022

Domanda di risoluzione del contratto di licenza di un famoso marchio di occhiali e risarcimento del danno

L’accoglimento della domanda di risarcimento del danno da lucro cessante o da perdita di “chance” esige la prova, anche presuntiva, dell’esistenza di elementi oggettivi e certi dai quali desumere, in termini di certezza o di elevata probabilità e non di mera potenzialità, l’esistenza di un pregiudizio economicamente valutabile.
L’esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c., presuppone che sia dimostrata l’esistenza di danni risarcibili e che risulti obiettivamente impossibile, o particolarmente difficile, provare il danno nel suo preciso ammontare, ciò che non esime, però, la parte interessata – per consentire al giudice il concreto esercizio di tale potere, la cui sola funzione è di colmare le lacune insuperabili ai fini della precisa determinazione del danno stesso – dall’onere di dimostrare non solo l'”an debeatur” del diritto al risarcimento, ove sia stato contestato o non debba ritenersi “in re ipsa”, ma anche ogni elemento di fatto utile alla quantificazione del danno e di cui, nonostante la riconosciuta difficoltà, possa ragionevolmente disporre.

Gli utili non conseguiti dalla società a causa della condotta dannosa dell’amministratore non costituiscono danno diretto del socio

L’azione di responsabilità contemplata dall’art. 2476 comma 7 (di natura extracontrattuale in quanto applicazione dell’art. 2043 c.c.) presuppone l’esistenza di un danno subito dal singolo socio direttamente, e non come mero riflesso del danno sociale di cui solo la Società direttamente o per via surrogatoria del socio ex art 2476 co 3 c.c. può chiedere il risarcimento all’amministratore. In particolare la mancata percezione di utili costituisce danno diretto del socio solo in ipotesi (i) di utili effettivamente conseguiti dalla società e (ii) di cui si sia deliberata la distribuzione al socio; qualora, invece, si è dedotto che gli utili non sono stati conseguiti dalla società a causa della condotta dannosa dell’amministratore, il danno lamentato dal socio non è un danno diretto.

15 Dicembre 2021

Abuso di dipendenza economica e responsabilità da direzione e coordinamento. Danno diretto e danno riflesso

La disciplina ex art. 2497 c.c. è specificatamente volta alla tutela dei soci di minoranza di società eterodirette, l’abuso nei confronti delle quali da parte della controllante si sia risolto in un pregiudizio al patrimonio dell’eterodiretta, comportante anche una diminuzione del valore della partecipazione dei soci di minoranza, i quali, in questa peculiare situazione, sono legittimati dalla norma a far valere, contrariamente alla regola generale, un proprio danno riflesso, non essendo plausibile, data la situazione di direzione e coordinamento esistente, che il danno diretto subito dal patrimonio della eterodiretta sia oggetto esso stesso di azioni risarcitorie e quindi potendosi escludere una duplicazione risarcitoria.

Proprio in relazione a tale finalità della disciplina, la responsabilità della società esercente attività di direzione e coordinamento viene quindi esclusa dall’ultima parte del primo comma dell’art. 2497 c.c. nel caso in cui il danno risulti mancante alla luce del risultato complessivo dell’attività di direzione e coordinamento, ovvero sia integralmente eliminato anche a seguito di operazioni a ciò dirette. Tale esclusione deve essere estesa, secondo la ratio della norma, anche all’ipotesi in cui il pregiudizio subito direttamente dalla società eterodiretta sia stato azionato da quest’ultima, poiché l’accoglimento sia della pretesa azionata dalla società eterodiretta sia di quella azionata dai soci della stessa verrebbe a rappresentare una duplicazione delle poste risarcitorie.

Qualora una società di capitali subisca un danno per effetto dell’illecito commesso da un terzo, ancorché esso possa incidere negativamente sui diritti attribuiti al socio dalla partecipazione sociale, nonché sulla consistenza di questa, il diritto al risarcimento compete solo alla società e non anche a ciascuno dei soci, in quanto l’illecito colpisce direttamente la società e il suo patrimonio, obbligando il responsabile al relativo risarcimento, mentre l’incidenza negativa sui diritti del socio, nascenti dalla partecipazione sociale, costituisce soltanto un effetto indiretto di detto pregiudizio e non una conseguenza immediata e diretta dell’illecito.

La partecipazione sociale in una società di capitali costituisce un bene giuridicamente distinto e autonomo dal patrimonio sociale, come tale inidoneo a venire direttamente danneggiato da vicende legate all’inadempimento contrattuale di un terzo nei confronti della società, attesa la natura meramente riflessa che il pregiudizio patrimoniale conseguente può produrre sul valore della quota di partecipazione. Ne consegue che, posta la netta separazione tra il patrimonio sociale e quello del socio, anche nell’ipotesi di partecipazione totalitaria, qualsiasi danno che colpisce direttamente il patrimonio della società può avere un’incidenza meramente indiretta sulla quota medesima e, conseguentemente, non è suscettibile di autonoma risarcibilità.

La domanda che sia fondata su una pretesa di abuso di dipendenza economica, e cioè di eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi negli esistenti rapporti commerciali regolati da un contratto, ai fini della determinazione della competenza giurisdizionale rientra nella materia contrattuale, posto che la linea di demarcazione tra controversia contrattuale e quella relativa a delitti o quasi delitti è costituita dalla circostanza che nella prima vi deve essere prospettata una censura attinente alla mancata o imperfetta esecuzione di un programma di comportamento dovuto dal convenuto e non la semplice e autonoma lesione di un bene della vita tutelato in quanto tale dal diritto oggettivo. Rientrano, pertanto, nelle controversie di natura contrattuale non solo quelle riguardanti il mancato adempimento di un obbligo di prestazione di fonte negoziale (controversie pacificamente contrattuali), ma in genere le controversie in cui l’attore, allegando l’esistenza di una regola di condotta legata ad una relazione liberamente assunta tra lui e l’altra parte ne lamenti la violazione da parte di quest’ultima. In altri termini, va qualificata come controversia in materia contrattuale quella tra due soggetti, che non si pongono l’un l’altro come due consociati non relazionati reciprocamente, ma come soggetti che hanno già instaurato un rapporto di natura commerciale, dal quale ognuno attende che l’altro non ne abusi, ma tenga un comportamento determinato.

Anche nei confronti delle persone giuridiche, e in genere degli enti collettivi, è configurabile il risarcimento del danno non patrimoniale, qualora il fatto lesivo incida su una situazione giuridica della persona giuridica o dell’ente che sia equivalente ai diritti fondamentali della persona umana costituzionalmente protetti, qual è il diritto all’immagine, determinando una diminuzione della considerazione dell’ente o della persona giuridica da parte dei consociati in genere, ovvero di settori o categorie di essi, con le quali il soggetto leso di norma interagisca.

19 Ottobre 2021

Assenza del carattere individuale del disegno e modello, concorrenza sleale e risarcimento del danno. Il caso OVS

Ai fini dell’accertamento dell’illecito di concorrenza sleale non rileva che le rispettive società si trovino su piani diversi della catena produttiva, in quanto condizione necessaria per cui le imprese si trovino in una situazione di concorrenza è che prodotti e servizi concernano la stessa categoria di clientela finale e che operino quindi in una qualsiasi delle fasi della produzione o del commercio destinate a sfociare nella collocazione sul mercato di tali beni.

Ai fini di una determinazione equitativa del danno, la sanzione del risarcimento del danno per concorrenza sleale può seguire le stesse regole in tema di tutela dei diritti della proprietà industriale con la peculiarità della materia e l’indicazione, derivante dalla direttiva CE 04/48, di tenere conto nella quantificazione del danno – purché il risarcimento sia adeguato, ma non punitivo – di tutti gli aspetti pertinenti, tra i quali i benefici realizzati dall’autore della violazione.