Art. 1226 c.c.
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Criteri di quantificazione del danno e poteri del CTU
Sussiste una situazione di conflitto di interessi giuridicamente rilevante allorquando l’amministratore di una società disponga la vendita nummo uno della domanda di brevetto ad un’altra società a lui riconducibile, in danno della società amministrata.
Il danno derivante dalla condotta in questione si identifica nella perdita patrimoniale e reddituale subita dalla società venditrice per effetto della dismissione del brevetto a prezzo simbolico e, dunque, nel valore e nella reddittività di tale brevetto.
In tema di consulenza tecnica d’ufficio, rientra nel potere del consulente tecnico d’ufficio attingere “aliunde” notizie e dati, non rilevabili dagli atti processuali e concernenti fatti e situazioni formanti oggetto del suo accertamento, quando ciò sia necessario per espletare convenientemente il compito affidatogli, e che dette indagini possono concorrere alla formazione del convincimento del giudice purché ne siano indicate le fonti, in modo che le parti siano messe in grado di effettuarne il controllo, a tutela del principio del contraddittorio. L’acquisizione di dati e documenti da parte del consulente tecnico ha funzione di riscontro e verifica rispetto a quanto affermato e documentato dalle parti; mentre non è consentito al consulente sostituirsi alla parte stessa, andando a ricercare aliunde i dati stessi che devono essere oggetto di riscontro da parte sua, che costituiscono materia di onere di allegazione e di prova che non gli siano stati forniti, in quanto in questo modo verrebbe impropriamente a supplire al carente espletamento dell’onere proba-torio, in violazione sia dell’articolo 2697 c.c. che del principio del contraddittorio. Il consulente d’ufficio può pertanto acquisire documenti pubblicamente consultabili o provenienti da terzi o dalle parti nei limiti in cui siano necessari sul piano tecnico ad avere riscontro della correttezza delle affermazioni e produzioni documentali delle parti stesse o, ancora, quando emerga l’indispensabilità dell’accertamento di una situazione di comune interesse, indicandone la fonte di acquisizione e sottoponendoli al vaglio del contraddittorio, esigenza, quest’ultima, che viene soddisfatta sia mediante la possibilità della partecipazione al contraddittorio tecnico attraverso il consulente di parte, sia, a posteriori, con la possibilità di dimostrazione di elementi rilevanti in senso difforme.
Prodotti che richiamano prodotti di successo: contraffazione di marchi complessi, look-alike e risarcimento del danno
Il marchio complesso, che consiste nella combinazione di più elementi, ciascuno dotato di capacità caratterizzante e suscettibile di essere autonomamente tutelabile, non necessariamente è un marchio forte, ma lo è solo se lo sono i singoli segni che lo compongono, o quanto meno uno di essi, ovvero se la loro combinazione rivesta un particolare carattere distintivo in ragione dell’originalità e della fantasia nel relativo accostamento. Quando, invece, i singoli segni siano dotati di capacità distintiva, ma quest’ultima (ovvero la loro combinazione) sia priva di una particolare forza individualizzante, il marchio deve essere qualificato debole, tale seconda fattispecie differenziandosi, peraltro, dal marchio di insieme in ragione del fatto che i segni costitutivi di quest’ultimo sono privi di un’autonoma capacità distintiva, essendolo solo la loro combinazione.
Per valutare la similitudine confusoria tra due marchi complessi occorre utilizzare un criterio globale che si giovi della percezione visiva, uditiva e concettuale degli stessi con riferimento al consumatore medio di una determinata categoria di prodotti, considerando anche che costui non ha possibilità di un raffronto diretto, che si basa invece sulla percezione mnemonica dei marchi a confronto.
Costituisce atto di concorrenza sleale l’imitazione pedissequa degli elementi essenziali della confezione dell’altrui prodotto, allorchè il pubblico dei consumatori possa essere indotto ad attribuire, alla confezione dell’imitatore, le qualità di cui è portatore l’altrui prodotto (c.d. “look alike”), ciò in forza del rischio di associazione tra le due confezioni, e senza che occorra errore o confusione quanto alle fonti di produzione.
L’art. 125 c.p.i., comma 2, consente che il giudice liquidi il danno in una somma globale stabilita in base agli atti della causa e alle presunzioni che ne derivano. Il criterio del giusto prezzo del consenso o della giusta royalty, vale a dire del compenso che il contraffattore avrebbe pagato al titolare se avesse chiesto ed ottenuto una licenza per utilizzare l’altrui privativa industriale, opera come ulteriore elemento di valutazione equitativa “semplificata” del lucro cessante e come fissazione di un limite minimo o residuale di ammontare del risarcimento, voluto dal legislatore a garanzia della effettività della compensazione. Il criterio della “giusta royalty” o “royalty virtuale” segna solo il limite inferiore del risarcimento del danno liquidato in via equitativa e non può essere utilizzato laddove il danneggiato abbia offerto validi e ragionevoli criteri per procedere alla liquidazione del lucro cessante o ad una valutazione comunque equitativa più consistente.
La retroversione degli utili ha una causa petendi diversa, autonoma e alternativa rispetto alle fattispecie risarcitorie di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 125. Ci si trova di fronte non ad una mera e tradizionale funzione esclusivamente riparatoria o compensativa del risarcimento del danno, nei limiti del pregiudizio subito dal soggetto danneggiato, ma ad una funzione, se non propriamente sanzionatoria, diretta, quantomeno, ad impedire che il contraffattore possa arricchirsi mediante l’illecito consistito nell’indebito sfruttamento del diritto di proprietà intellettuale altrui.
Tutela autoriale delle banche dati e illecita sottrazione di informazioni riservate
La verifica della competenza va attuata alla stregua delle allegazioni contenute nella domanda e non anche delle contestazioni mosse alla pretesa dalla parte convenuta, tenendo altresì conto che, qualora uno stesso fatto possa essere qualificato in relazione a diversi titoli giuridici, spetta alla scelta discrezionale della parte attrice la individuazione dell’azione da esperire in giudizio, essendo consentito al giudice di riqualificare la domanda stessa soltanto nel caso in cui questa presenti elementi di ambiguità non altrimenti risolvibili.
L’utilizzabilità da parte dell’ex lavoratore delle conoscenze acquisite nel corso della propria esperienza lavorativa non può estendersi fino al punto di ricomprendere un complesso organizzato e strutturato di dati cognitivi, anche se non segretati o pretetti, che superino la capacità mnemonica e l’esperienza del singolo normale individuo e che configurino così una banca dati che, arricchendo la conoscenza del concorrente, sia capace di fornirgli un vantaggio competitivo che trascenda la capacità e le esperienze del lavoratore acquisito (in tal senso Cass. 12.7.2019 n. 18772).
Rientrano nella definizione di banche dati, secondo gli art. 2 n. 9 e 64-quinuies e sexies L. 633/41, le raccolte di opere, dati, e altri elementi indipendenti sistematicamente o metodicamente disposti ed individualmente accessibili mediante mezzi elettronici o in altro modo. Affinchè una banca dati possa rientrare nell’ambito di tutela della disciplina delle opere dell’ingegno è necessario che sia dotata del requisito della creatività, ovvero della capacità dell’opera di costituire espressione del suo autore.
La liquidazione equitativa del danno secondo quanto previsto dall’art. 158 L. 633/1941 in materia di violazione del diritto d’autore e dall’2600 c.c. in materia di concorrenza sleale presuppone in ogni caso la prova circa l’effettiva esistenza del danno. L’esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c., espressione del più generale potere di cui all’art. 115 c.p.c., dà luogo non già ad un giudizio di equità, ma ad un giudizio di diritto caratterizzato dalla cosiddetta equità giudiziale correttiva od integrativa; esso, pertanto, da un lato è subordinato alla condizione che per la parte interessata risulti obiettivamente impossibile, o particolarmente difficile, provare il danno nel suo ammontare, e dall’altro non ricomprende l’accertamento del pregiudizio della cui liquidazione si tratta, presupponendo già assolto l’onere della parte di dimostrare la sussistenza e l’entità materiale del danno (Cass. 22.2.2018 n. 4310, Cass. 30.7.2020 n. 16344).
Il mantenimento in funzione per un lungo periodo di tempo dell’account aziendale personale di un dipendente dopo l’interruzione del rapporto di lavoro si pone in contrasto con il diritto alla riservatezza dello stesso.
Il danno non patrimoniale risarcibile ai sensi dell’art. 15 del d.lgs. n. 196 del 2003 (codice della privacy), pur determinato da una lesione del diritto fondamentale alla protezione dei dati personali tutelato dagli artt. 2 e 21 Cost. e dall’art. 8 della CEDU, non si sottrae alla verifica della “gravità della lesione” e della “serietà del danno”, in quanto anche per tale diritto opera il bilanciamento con il principio di solidarietà ex art. 2 Cost., di cui quello di tolleranza della lesione minima è intrinseco precipitato, sicché determina una lesione ingiustificabile del diritto non la mera violazione delle prescrizioni poste dall’art. 11 del codice della privacy, ma solo quella che ne offenda in modo sensibile la sua portata effettiva, restando comunque il relativo accertamento di fatto rimesso al giudice di merito (Cass. 20.8.2020 n. 17383). Il danno alla privacy, come ogni danno non patrimoniale, non sussiste in “re ipsa”, non identificandosi il danno risarcibile con la mera lesione dell’interesse tutelato dall’ordinamento, ma con le conseguenze di tale lesione, seppur può essere provato anche attraverso presunzioni (Cass. 10.6.2021 n. 16402).
Illecito sviamento della clientela, violazione di informazioni riservate e competenza del Tribunale delle Imprese
Violazione di una clausola di prelazione e tutela reale
Alla violazione di una clausola di prelazione statutaria non consegue né la nullità né l’invalidità né l’inefficacia degli atti di cessione né tantomeno la necessità di una “retrocessione” delle quote cedute. Tale violazione è sanzionata con la sola tutela reale consistente nel rendere inefficace l’atto di trasferimento nei confronti della società.
A tal fine, colui che intende agire per ottenere la declaratoria di tale inopponibilità alla società deve provare l’esistenza di un proprio effettivo interesse all’acquisto della partecipazione ceduta, presupposto necessario anche ai fini del ricorso al criterio equitativo ex art. 1226 c.c. per la determinazione del danno lamentato.
Responsabilità degli amministratori per illegittima prosecuzione dell’attività di impresa
Gli amministratori non possono essere ritenuti responsabili delle perdite maturate dall’impresa, senza la prova che il deficit patrimoniale sia stato conseguenza delle condotte gestorie compiute dopo la riduzione del capitale sociale, e possono essere chiamati a rispondere solo dell’aggravamento del dissesto cagionato dalle ulteriori perdite che siano derivate dalla loro condotta illegittima, in quanto commessa al di fuori dei poteri di conservazione del patrimonio sociale. Infatti, integra responsabilità degli amministratori la prosecuzione, dopo che si sia verificata una causa di scioglimento, dell’attività economica della società con assunzione di nuovo rischio imprenditoriale che abbia determinato effetti pregiudizievoli per la società stessa, i creditori od i terzi. Il curatore fallimentare che intenda far valere la responsabilità dell’ex amministratore deve allegare e provare che, successivamente alla perdita del capitale, sono state intraprese iniziative imprenditoriali connotate dall’assunzione di nuovo rischio economico-commerciale e compiute al di fuori di una logica meramente conservativa.
Risarcimento del danno da abusiva diffusione al pubblico di fonogrammi musicali
Il pagamento dei compensi risultanti da un tariffario per l’utilizzo di fonogrammi è un’obbligazione di valuta su cui non può essere riconosciuta la rivalutazione poichè il maggior danno di cui all’art. 1224 c.c., comma 2, può ritenersi esistente in via presuntiva solo qualora, durante la mora, il saggio medio di rendimento netto dei titoli di Stato con scadenza non superiore a dodici mesi sia stato superiore al saggio degli interessi legali.
Per il principio di vicinanza alla prova, è onere del soggetto che avrebbe illecitamente duplicato fonogrammi dimostrare di aver comunicato/diffuso al pubblico i brani musicali traendoli da registrazioni dei fonogrammi lecitamente acquisite, trattandosi di circostanza che rientra nella sua esclusiva disponibilità materiale e giuridica.
Diffondere i brani musicali al pubblico e non pagare i diritti al produttore di fonogrammi integra un illecito diverso e ulteriore rispetto al duplicare illecitamente i fonogrammi, in quanto la legittimità della diffusione non implica altresì il diritto a duplicare i fonogrammi, presupponendo al contrario l’utilizzo di fonogrammi lecitamente acquisiti nel rispetto dei diritti del produttore.
Il risarcimento del danno patrimoniale in forma forfettaria quale prezzo del consenso presuppone sostanzialmente una liquidazione in via equitativa rispetto a cui il parametro offerto dalla convenzione fra SCF ed Asso-Intrattenimento rappresenta un chiaro indice di adeguatezza, essendo stata sottoscritta da un’associazione rappresentativa del settore, ragion per cui quanto in essa previsto può utilmente essere utilizzato al fine di quantificare in via equitativa il prezzo del consenso richiedibile agli utilizzatori. Infatti, qualora non possano essere dimostrate specifiche voci di danno patrimoniale, il soggetto leso può far valere il diritto al pagamento di una somma corrispondente al compenso che avrebbe presumibilmente chiesto per dare il suo consenso alla duplicazione dei brani musicali a scopo commerciale, e tale prezzo può equitativamente essere desunto dalla convenzione SCF-Asso-Intrattenimento.
Con riferimento al diritto all’immagine ed alla reputazione commerciale di SCF, si ritiene che allorquando si verifichi la lesione di tale immagine, è risarcibile oltre al danno patrimoniale, se verificatosi e se dimostrato, soprattutto il danno non patrimoniale costituito – come danno conseguenza – dalla diminuzione della considerazione della persona da parte dei consociati in genere o di settori o categorie di essi con le quali essa abbia a interagire. In ordine alla prova di tale danno, la stessa deve sempre essere fornita dal soggetto leso in quanto danno-conseguenza e non danno-evento. Non è dunque sufficiente affermare genericamente l’esistenza di un danno non patrimoniale allegando apoditticamente che tale danno sorgerebbe in automatico dal mancato pagamento dei diritti da parte della convenuta, condotta che lederebbe l’immagine di SCF presso i propri soci e presso gli altri utilizzatori di fonogrammi.
Limiti all’applicabilità del principio della compensatio lucri cum damno
La corretta applicazione del principio della compensatio lucri cum damno postula che, quando unico è il fatto illecito generatore del danno e dell’asserito vantaggio, nella quantificazione del risarcimento si tenga conto anche di tutti i vantaggi nel contempo derivati al danneggiato, perché il risarcimento è finalizzato a sollevare dalle conseguenze pregiudizievoli dell’altrui condotta e non a consentire una ingiustificata locupletazione del soggetto danneggiato.
Al fine di determinare l’entità del danno risarcibile al patrimonio sociale, causato dal pagamento da parte della società di una sanzione amministrativa per condotte di violazione alla concorrenza direttamente ascrivibili alla negligenza degli amministratori, non può tenersi conto dell’eventuale vantaggio conseguito dalla società per effetto delle condotte sanzionate. Viene, dunque, negata l’operatività del principio della compensatio lucri cum damno, la cui applicazione determinerebbe, da un lato, la frustrazione della funzione sanzionatoria del pagamento effettuato dalla società e, dall’altro, una duplicazione degli effetti vantaggiosi per la stessa, posto che l’ammontare della sanzione irrogata già include l’eventuale lucro ricavato dalla società con la condotta sanzionata. Ammettere che esso possa esser nuovamente valutato sub specie di mitigazione del risarcimento dovuto dagli amministratori alla società per la perdita così inferta al patrimonio sociale, varrebbe in ultima analisi a duplicare la compensazione dei suoi effetti vantaggiosi: una volta nel patrimonio della autrice/danneggiata e una seconda in quello delle persone fisiche che per essa hanno agito.
La liquidazione equitativa del danno è consentita dalla legge (artt. 1226 e 2056 c.c.) solo in tema di danno da inadempimento o fatto illecito, quando questo sia stato dimostrato dal danneggiato ma non sia provato nel suo preciso ammontare. Non è, quindi, possibile utilizzare tale criterio nell’opposta ipotesi in cui sia il danneggiante a voler provare di aver apportato al danneggiato, con lo stesso illecito con cui ha leso la sua sfera giuridico-patrimoniale, delle utilità tali da compensare in tutto o in parte le disutilità infertegli.
L’applicazione del prezzo del consenso per la liquidazione in via forfettaria del danno derivante da inadempimento contrattuale con conseguente violazione dei diritti d’autore
In giurisprudenza è diffuso il riferimento al c.d. prezzo del consenso in relazione al corrispettivo che potrebbe essere richiesto dal titolare del diritto per l’utilizzazione dell’opera (cfr. C. Appello Milano 7.6.2012, C. Appello Milano 24.11.2010, Tribunale Roma 22.4.2008, Tribunale Milano 8.7.2009). Sulla base di tale principio, alla luce della domanda di risarcimento del danno in via forfettaria formulata dalla parte attrice, è equo determinare l’importo dovuto a titolo di risarcimento in misura pari all’importo in precedenza percepito dallo stesso autore per la cessione dei propri diritti alla convenuta, oltre rivalutazione e interessi.
Non risulta doverosa l’applicazione di una maggiorazione alla royalty ricavabile dall’analisi di mercato, per il fatto che il contraffattore non assume gli stessi costi e rischi di un legittimo licenziatario. Non vi sono, infatti, nel nostro ordinamento, specifici riferimenti normativi da cui dedurre la doverosità della maggiorazione della royalty media di settore, considerato che l’art. 125, comma 2, CPI, cui è raffrontabile l’art. 158 L. 633/41, si limita a dettare una regola di semplificazione della valutazione equitativa per le ipotesi in cui sia difficile determinare l’importo effettivo del danno.
(Nel caso di specie l’attrice, l’erede universale del regista di un’opera teatrale, ha chiesto che l’entità del danno venisse determinata in via equitativa alla luce dell’intervenuta perdita di chance in relazione all’importo che avrebbe potuto percepire se la convenuta non avesse violato i propri obblighi contrattuali).
Distribuzione di opera cinematografica e inadempimento per insuccesso dell’opera
L’accoglienza inadeguata del film nelle sale di prima proiezione integra un’ipotesi di impossibilità oggettiva dovuta ad un fattore esterno, indipendente dalla volontà del debitore – che aveva certamente interesse a che il film fosse distribuito il più ampiamente possibile, poiché anche da questo dipendevano i suoi guadagni -, perché determinata dal fallimento commerciale del film incidente negativamente sull’ottenimento di ulteriore distribuzione.
Il momento importante per il lancio di un film è quello iniziale, quando lo stesso viene proiettato per le prime volte nelle sale e il fallimento commerciale del film in questa fase rende poco significativa un’attività di promozione successiva di lunga durata, con i costi correlati, perché il prodotto rimane poco interessante e, nel tempo, si trova a concorrere in posizione di svantaggio con le nuove uscite.
La valutazione equitativa del danno ne riguarda la quantificazione, ed è possibile solo se l’esistenza di un danno in nesso causale con l’inadempimento risulti provata.