Art. 1418 c.c.
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Banca Popolare di Vicenza: applicabilità dell’art. 2358 c.c. alle banche popolari
Con riferimento ad operazioni su azioni proprie poste in essere da società cooperative e, in particolare, da banche popolari, deve riconoscersi anche per esse l’applicabilità dell’art. 2358 c.c., in ragione del rinvio alla disciplina delle società azionarie operato dall’art. 2519 c.c.
Le prescrizioni di cui all’art. 2358 c.c. rivestono natura imperativa, con la conseguenza che, in caso di violazione, il contratto è nullo ai sensi dell’art. 1418 c.c. In particolare, quando il collocamento di azioni avviene nel mancato rispetto delle modalità e dei limiti descritti dallo stesso art. 2358 c.c., la sanzione è quella della nullità, in quanto solo il rispetto dei requisiti e limiti, di cui all’art. 2358 c.c., permette di superare il divieto.
Il fattore preminente fatto oggetto di tutela dall’art. 2358 c.c. è quello della tutela del capitale sociale, nell’interesse della società, oltre che dei soci e anche dei creditori, che fanno parte di quel più ampio pubblico al quale la pubblicazione nel Registro delle Imprese rende accessibile la delibera. Tale interesse è centrale anche nelle società cooperative. Pertanto, una disciplina, come quella contenuta all’art. 2358 c.c., che vieta (o meglio, in concreto limita) le operazioni che possono mettere a repentaglio il capitale non è certo incompatibile con la società cooperativa. Lo scopo mutualistico da solo non basta, infatti, a giustificare la messa in atto di operazioni in sé pericolose, tali da mettere a rischio l’equilibrio economico della struttura sociale. Il codice civile, per esempio, espressamente prevede per le società cooperative una disciplina speciale dell’acquisto delle proprie azioni (2529 c.c.), ma non contiene deroghe espresse per altre operazioni che sono vietate, o limitate, per le s.p.a.
Con riferimento alla questione se i requisiti, le modalità e le condizioni prescritte dall’art. 2358 c.c. siano incompatibili con la struttura cooperativa, deve osservarsi che non lo è certamente la previsione della necessità di una delibera assembleare: se, infatti, per la struttura aperta delle società cooperative, è compito degli amministratori ammettere nuovi soci, ciò vale unicamente, appunto, per l’ammissione di soci nuovi e non, ad esempio, per il collocamento di azioni presso soggetti già soci e comunque non certamente quando vi sia aumento del capitale sociale. La ragione ben si comprende: la apertura della società ad accogliere nuovi soci è regola coessenziale allo scopo mutualistico e dunque essa viene gestita dall’organo amministrativo. A tale scopo però si ricollega anche la regola per la quale il socio dispone di un voto solo, quale che sia la sua quota di partecipazione. L’aumento della partecipazione in sé non ha un nesso funzionale immediato con la soddisfazione dello scopo mutualistico. Più in generale, la normativa prevede espressamente compiti dell’assemblea in vario modo relativi alla emissione e al collocamento di azioni: primo fra tutti il caso di aumento del capitale sociale, operazione che è ammessa dall’art. 2524, co. 3, c.c., il quale prescrive però la applicazione della disciplina generale delle s.p.a. relativa alla modificazione dell’atto costitutivo; lo stesso acquisto o rimborso delle proprie azioni può essere demandato agli amministratori solo dall’atto costitutivo (2529 c.c.).
Deve affermarsi la piena compatibilità con la disciplina delle cooperative dei disposti relativi ai limiti, presupposti e ai modi della deliberazione di concedere un finanziamento per l’acquisto delle azioni della società, previsti dall’art. 2358, co. 3, 4, 5 e 6, c.c., e con l’obbligo ivi previsto di iscrivere una riserva indisponibile corrispondente. Poiché, infatti, tutte le condizioni dettate dalla norma concorrono a elidere i pericoli insiti nel finanziamento dell’acquisto di proprie azioni, tutte indistintamente devono sussistere parimenti perché il divieto dell’art. 2358, comma 1, sia superato: sia quelle di forma e di competenza, sia quelle relative ai presupposti, sia quelle relative alla pubblicità. Appare in primo luogo rilevante la necessità che l’operazione di assistenza finanziaria sia programmata unitariamente e resa pubblica.
Deve escludersi che la disciplina civilistica, posta a tutela del capitale sociale, sia esclusa per quelle società cooperative che sono sottoposte a forme di vigilanza in mancanza di norme che in tal senso dispongano.
Azione di risarcimento danni per mala gestio dell’amministratore e nullità dell’atto istitutivo di trust in mancanza di affidamento intersoggettivo dei beni
Risponde dell’addebito di negligenza l’amministratore che scelga di demandare il maneggio della cassa sociale interamente a terzi senza la previsione di alcun meccanismo di controllo e a fronte di compensi assai rilevanti.
Deve escludersi la configurabilità di una simulazione assoluta anche rispetto all’atto costitutivo di società di persone iscritta nel Registro delle imprese.
Deve ritenersi nullo l’atto costitutivo di un trust t (ovvero la non riconoscibilità di tale atto nel nostro ordinamento in quanto non riconducibile alla disciplina di cui all’art.2 della Convenzione dell’Aja 1.7.1985 resa esecutiva in Italia dalla l. n.364/1989) laddove manchi “nella sostanza un vero affidamento intersoggettivo dei beni”, ciò senz’altro ricorrendo nell’ipotesi in cui il trust reca una integrale coincidenza tra i tre soggetti che ne costituiscono tipicamente le parti (ossia il disponente, il trustee ed il beneficiario). I tre centri di imputazione di tale istituto non possono infatti coincidere, dal momento che il trust postula in capo al trustee una proprietà limitata nel suo esercizio in funzione della realizzazione del programma stabilito dal disponente del trust nell’atto istitutivo a vantaggio del o dei beneficiari.
Se tutte queste figure coincidono, la proprietà del trustee in nulla differisce dalla proprietà piena, e il trust è pertanto nullo in quanto fondato sul carattere abusivo dell’utilizzo di un istituto di segregazione patrimoniale a beneficio di terzi riconosciuto dall’ordinamento in quanto dotato di determinati caratteri e altrimenti risolventesi in negozio in elusiva violazione della norma imperativa ex art. 2740 c.c., e come tale sanzionabile ex artt. 1344, 1345 e 1418 c.c.
La pattuizione di un prezzo simbolico ed apparente rende nullo il contratto di compravendita
L’indicazione di un prezzo assolutamente privo di valore, meramente apparente e simbolico, può determinare la nullità del contratto di compravendita per difetto di causa.
Abuso di posizione dominante: effetti sui contratti stipulati da operatori che svolgono attività’ di handling aeroportuale
Con riferimento alla materia delle tariffe aeroportuali, la giurisdizione del Giudice Amministrativo sussiste solo quando la causa ha ad oggetto la determinazione o rideterminazione di tali tariffe e non invece quando riguarda l’azione restitutoria e risarcitoria a seguito di abuso di posizione dominante.
Ai fini dell’applicazione delle tariffe regolamentate, ciò che rileva è la tipologia di attività svolta all’interno dello scalo di assistenza ai vettori ed alle merci, che deve rendere indispensabile la disponibilità di uffici operativi interni, a prescindere dalla circostanza che il soggetto sia o meno in possesso della certificazione emessa dall’ENAC.
Anche coloro che svolgono attività di spedizionieri in generale possono essere inclusi nell’ambito di applicazione del D. Lgs 18/99, se viene provato in giudizio che entro i confini dell’aeroporto l’unica attività svolta – fosse pure di importanza secondaria – rientra nel cd. handling.
Sotto il profilo probatorio nelle cause civili per danni successive agli accertamenti dell’Autorità (c.d. follow-on), la giurisprudenza di legittimità ha attribuito efficacia di prova “privilegiata” al provvedimento sanzionatorio emesso all’esito della tutela del public enforcement (v. Cass. n. 3640/09, seguita poi in senso conforme da Cass. n. 5941/11, Cass. n. 5942/11, Cass. n. 7039/12), con riguardo all’autorevolezza dell’organo da cui promanano e agli strumenti e alle modalità di indagine poste in atto dalla medesima Autorità. Tale peculiare efficacia probatoria (ora vincolante a seguito del recepimento della Direttiva n. 2014/104) è limitata ad alcuni aspetti della fattispecie sottoposta al sindacato dell’autorità giudiziaria, e in particolare all’accertamento della posizione rivestita sul mercato dalla società indagata ed alla sua posizione di dominanza, alla sussistenza del comportamento abusivo ed alla lesione “del mercato”. Tale valenza non si estende invece alla sussistenza dei danni, al nesso di causalità e alla quantificazione del risarcimento.
L’art. 1337 c.c. va interpretato quale clausola generale che impone ai contraenti di comportarsi in buona fede anche nella fase di formazione del contratto: la violazione di tale precetto è fonte di responsabilità, non solo nell’ipotesi di trattative interrotte ma, anche, quando il negozio sia stato concluso, ma con un assetto degli interessi in concreto pregiudizievoli per il contraente leale.
I soggetti che in virtù dell’illecito antitrust hanno subito prezzi abusivi hanno a disposizione mezzi di tutela di natura contrattuale oltre che quelli aquiliani.
L’imperatività della normativa antitrust – posta a presidio dei principi di rango costituzionale di cui ai già citati art. 41 e 2 della Costituzione – cagiona in caso di loro violazione la nullità delle clausole contrattuali illecite ex art. 1418 ovvero 1419 c.c.
Considerato che l’inefficacia della clausola abusiva non può andare a danno del soggetto che subisce l’abuso privandolo definitivamente dell’interesse a ricevere la prestazione, nel caso in cui il contraente in posizione dominante abusa della sua posizione di dominanza applicando canoni di sub-concessione molto più elevati rispetto a quelli imposti per legge soccorre in proposito il meccanismo della tecnica sostitutiva ex art. 1339 c.c., che consente la conservazione del contratto ed al contempo il suo riequilibrio a favore del contraente pregiudicato.
L’abuso di posizione dominante nel mercato specifico dell’equo compenso cinema determina nullità del contratto per violazione della normativa antitrust
L’art. 46 l.d.a. non pone alcuna riserva legale in favore della Società Italiana degli Autori ed Editori per l’attività di riscossione e ripartizione dell’equo compenso cinema ex art. 46 bis l.d.a., a seguito della liberalizzazione discendente dalla Direttiva 2014/26/UE (Direttiva Barnier). Tuttavia, SIAE gestisce la riscossione dei proventi per la totalità degli autori delle opere cinematografiche utilizzate dagli emittenti, anche di autori non associati o che non abbiano conferito alcun mandato, presentandosi come unico ente di riscossione, a prescindere dall’esistenza di un rapporto volontario di rappresentanza o di associazione ad essa degli autori; e però la mancanza di una riserva legale che giustifichi tale monopolio consente di individuare l’esistenza di un potenziale mercato concorrenziale, aperto ad altri organismi di gestione collettiva ed enti di gestione indipendente, secondo il d.lgs. 35/17. La posizione dominante raggiunta dal menzionato ente quando vi erano ancora vincoli normativi alla libera concorrenza integra attualmente un evidente vantaggio concorrenziale rispetto all’ingresso sul medesimo mercato di nuovi operatori, oggettivamente posti in posizione asimmetrica. Tali condotte abusive di esclusione hanno per effetto quello di conseguire rendite monopolistiche e sono certamente contrarie all’art. 102 TFUE, e trattandosi di norme imperative, configurano, con riferimento all’accordo sottostante tra l’ente e il network sul versamento dell’equo compenso cinema, la nullità dell’intero contratto: esse violano l’ordine pubblico del mercato e la razionalità del suo assetto, in danno anche della controparte contrattuale, ingiunta del pagamento di un importo forfettario che non tiene conto dell’effettiva rappresentatività di SIAE ed esclude ogni possibilità di negoziazione da parte di altri enti.
Contratto di cessione di azienda e mancanza dei titoli autorizzativi per l’esercizio dell’attività ceduta
I titoli autorizzativi all’esercizio di un’attività d’impresa hanno carattere personale e non sono riconducibili ai beni che compongono l’azienda. Tanto che un contratto che prevedesse il trasferimento della licenza sarebbe nullo per la violazione di norme imperative. Il risultato pratico dell’ottenimento del titolo autorizzativo è, piuttosto, conseguibile dall’acquirente mediante la previsione dell’obbligo a carico del cedente di prestare il proprio consenso o comunque dell’obbligo di compiere tutte le attività necessarie per consentire detto ottenimento. Ne discende che l’eventuale insussistenza del titolo autorizzativo non attiene ad un vizio genetico del contratto di cessione d’azienda.
Nullità parziale del negozio fideiussorio perché viziato da clausole negoziate in contesto restrittivo della concorrenza
La produzione in giudizio della documentazione proveniente dalle Autorità Amministrative Indipendenti che hanno svolto approfondita istruttoria antitrust costituisce prova documentale idonea a dimostrare, secondo il paradigma generale di cui all’art. 2697 c.c., l’esistenza del cartello tra imprese. Poiché tale documentazione raccoglie gli esiti di un’esaustiva istruttoria amministrativa, avente carattere definitivo, essa assume valore intrinseco di fonte probatoria privilegiata dell’illecito antitrust (Nel caso di specie, si trattava del provvedimento della Banca d’Italia n. 55 del 2 maggio 2005 e del provvedimento AGCM n. 14251 del 20 aprile 2005 che hanno accertato la presenza di clausole idonee a restringere la concorrenza, ai sensi dell’art. 2, co. 2, della legge n. 287/90 in seno allo schema contrattuale di fideiussione omnibus predisposto dall’ABI (Associazione Bancaria Italiana) con la circolare serie tecnica O, n. 20 del 17 giugno 1987).
Accertato che lo schema contrattuale di fideiussione omnibus predisposto dall’ABI (Associazione Bancaria Italiana) con la circolare serie tecnica O, n. 20 del 17 giugno 1987 è stato adottato da tutti gli istituti di credito aderenti con effetti tali da pregiudicare la libera concorrenza degli operatori del settore, l’orientamento secondo il quale la trasposizione delle clausole in esso contenute nei contratti sottoscritti dai consumatori rende nullo l’intero negozio non appare del tutto convincente atteso che esso presume, in assenza peraltro di prova specifica sul punto, che i contraenti – e nello specifico l’istituto di credito – non avrebbero stipulato la fideiussione in assenza delle clausole ritenute oggetto di intesa anticoncorrenziale. Ma tale affermazione, a ben vedere, si traduce in una petizione di principio, senza che sia offerta sul punto una precisa dimostrazione ‘controfattuale’ della situazione di mercato, tale da dimostrare che la banca non avrebbe accettato la garanzia in assenza delle clausole concordate con ABI.
Accertato che lo schema contrattuale di fideiussione omnibus predisposto dall’ABI (Associazione Bancaria Italiana) con la circolare serie tecnica O, n. 20 del 17 giugno 1987 è stato adottato da tutti gli istituti di credito aderenti con effetti tali da pregiudicare la libera concorrenza degli operatori del settore, tra gli opposti orientamenti giurisprudenziali emersi in riferimento alla questione se la trasposizione nei contratti sottoscritti dai consumatori delle clausole in esso contenute, le renda affette da nullità o, addirittura, renda nullo l’intero negozio, appare maggiormente convincente quello che, soffermandosi sulla natura abusiva dell’intesa e delle relative clausole che da essa sono derivate, trasla l’invalidità del patto anticoncorrenziale alle singole clausole che ne sono il prodotto e non già all’intero negozio, con conseguente accertamento della nullità delle sole clausole oggetto dell’intesa anticoncorrenziale e rigetto della domanda di nullità dell’intero rapporto fideiussorio.
Non può essere accolta la domanda di risoluzione del contratto di fideiussione fondata sul presupposto che la banca non avrebbe proposto le proprie istanze nel termine semestrale previsto dall’art. 1957 c.c.. Ed invero, il termine previsto dall’art. 1957 c.c. costituisce ipotesi di decadenza e non già fattispecie risolutoria. Peraltro, la declaratoria di decadenza ha natura di accertamento, mentre la domanda di risoluzione ha natura costitutiva, sicché la riqualificazione della domanda risolutoria in domanda di accertamento dell’intervenuta decadenza, si risolverebbe in violazione dell’art. 112 c.p.c. per ultrapetizione, stante l’impossibilità per il giudice di rilevare d’ufficio la decadenza ex art. 2969 c.c.. Il rigetto della domanda di risoluzione lascia impregiudicata la possibilità per la parte chiamata all’adempimento di sollevare tutte le eccezioni che derivano dall’applicazione dell’art. 1957 c.c. e che conseguono alla declaratoria di nullità parziale della clausola contrattuale specificatamente invocata da parte .
Principi in tema di affitto di azienda e opzione di acquisto
Il diritto di opzione si inserisce in una fattispecie a formazione progressiva della volontà contrattuale, inizialmente costituita da un accordo avente ad oggetto l’irrevocabilità della proposta del promittente ed, in seguito, dalla eventuale accettazione del promissario, che, saldandosi immediatamente con la proposta irrevocabile precedente, perfeziona il negozio giuridico di trasferimento.
Nel contratto di affitto di azienda, in mancanza di una pattuizione specifica di un corrispettivo per l’esercizio del diritto di opzione del complesso aziendale, lo stesso è da considerarsi conferito a titolo gratuito, non essendo l’onerosità un requisito necessario previsto dall’art. 1331 c.c. Inoltre, la mancata previsione di un corrispettivo per l’opzione costituisce indice del fatto che le parti abbiano determinato l’ammontare del canone non già quale corrispettivo di utilizzazione dell’azienda ma quale corresponsione frazionata anticipata del prezzo per l’acquisto dell’azienda alla prevista scadenza.
L’opzione determina la nascita in capo all’opzionario di un diritto potestativo che se esercitato conclude automaticamente il contratto, mentre la posizione del concedente si concreta in una soggezione a mantenere ferma la sua proposta contrattuale, senza ricevere alcuna tutela giuridica che assicuri l’effettiva conclusione dell’affare oggetto della sua proposta. Pertanto, in caso di affitto di azienda, l’esercizio del diritto di opzione da parte dell’oblata determina automaticamente il trasferimento della proprietà dell’azienda in capo alla stessa.
L’affitto di azienda, a norma dell’art. 2559 c.c., ha carattere unitario ed importa il trasferimento al cessionario, insieme a tutti gli elementi costituenti l'”universitas” senza necessità di una specifica pattuizione nell’atto di trasferimento, di tutti i beni organizzati e di tutti gli elementi unificati in senso funzionale, con riguardo alla loro destinazione, in ragione del comune fine della intrapresa attività imprenditoriale.
Nullità della cessione d’azienda in assenza di delibera assembleare
La cessione d’azienda, trasformando l’attività dell’impresa cedente da produttiva a finanziaria, rientra tra gli atti che certamente modificano l’oggetto sociale stabilito nell’atto costitutivo e modificano in maniera rilevante i diritti dei soci. Ne consegue che il difetto del potere rappresentativo rende invalido l’atto di cessione ed è opponibile ai terzi indipendentemente da qualsiasi indagine sull’elemento soggettivo.
Si afferma in dottrina ed in giurisprudenza che, nella categoria generale di atti ultra vires, si distinguono quelli che, sebbene estranei all’oggetto sociale, non comportano una sua modifica, da quelli estranei in quanto modificativi dell’oggetto sociale. I primi, da individuarsi negli atti aventi contenuto intrinsecamente esorbitante dal perseguimento dello specifico programma economico della società, sono
opponibili ai sensi dell’art. 2475 bis co. 2. I secondi sono sempre opponibili in quanto posti in essere in violazione di una limitazione
legale. Soltanto in relazione a tale ultima categoria di operazioni (quali, ad es., la cessione dell’azienda con modifica di fatto dell’oggetto sociale da società operativa a holding), il legislatore stabilisce, da un lato, la competenza decisoria dei soci, dall’altro, l’opponibilità incondizionata ai terzi della violazione di tale regola di competenza da parte degli amministratori.
L’assenza di una decisione dei soci configura, così, la violazione di una norma inderogabile posta a presidio dei limiti non convenzionali,
bensì legali del potere di rappresentanza degli amministratori con la conseguenza che non può essere invocata l’inopponibilità dell’atto di cessione.
Se, da una parte, l’atto di disposizione d’azienda che esaurisca il patrimonio della società eccede i poteri che per legge spettano agli amministratori e implica una violazione del riparto legale delle competenze tra assemblea ed amministratori, dall’altra, la sanzione va individuata non già nella annullabilità del contratto, ma nella sua nullità. Sul punto, a nulla vale la considerazione che l’art. 2479 comma 2 n. 5 c.c. non prevede il rimedio della nullità, quale conseguenza della sua violazione, in quanto come ribadito dalla giurisprudenza di legittimità, in presenza di un negozio contrario a norme imperative, la mancanza di un’espressa sanzione di nullità non è rilevante ai fini della nullità dell’atto negoziale in conflitto con il divieto, in quanto vi sopperisce l’art. 1418 comma 1, c.c., che rappresenta un principio generale rivolto a prevedere e disciplinare proprio quei casi in cui alla violazione dei precetti imperativi non si accompagna una previsione di nullità.
In conclusione, la cessione dell’azienda che esaurisce il patrimonio sociale della società a responsabilità limitata deve essere dichiarata nulla ove posta in essere in assenza di deliberazione da parte dei soci.
Costituire una newco e trasferirvi i contratti con la clientela non è qualificabile come simulazione negoziale
La costituzione di una newco nella quale è conferito un ramo d’azienda, comprensivo dei contratti con alcune controparti commerciali (clienti), non rappresenta ex se un negozio simulato teso a eludere gli obblighi contrattuali della conferente verso i clienti ceduti. In particolare la circostanza che assieme ai contratti con i clienti siano stati ceduti anche avviamento, know how, immobilizzazioni materiali, disponibilità liquide, diritti di proprietà intellettuale e lavoratori esclude la natura simulata del negozio. Un’ulteriore conferma è data dall’effettiva operatività della newco, dalla sua patrimonializzazione e dalla presenza sul mercato dei suoi prodotti.
Ai sensi dell’art. 1415, comma 2, c.c. i terzi che vogliano contestare la natura simulata di un’operazione devono dimostrare di essere stati pregiudicati dalla stessa. Ebbene, le controparti commerciali cedute alla newco non possono lamentare l’inefficacia dell’operazione sostenendone la natura simulata allorché la newco eserciti facoltà contrattuali che erano sin dall’origine presenti negli accordi trasferiti. Infatti in tal caso il pregiudizio denunciato non deriva dall’operazione che si assume simulata, ma da clausole contrattuali applicabili a prescindere dal mutamento soggettivo del rapporto.