Art. 2364 c.c.
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Presupposti per il riconoscimento del TFM
Si deve rilevare come il TFM sia una componente della retribuzione aggiuntiva a quella ordinaria e in quanto tale concessa dallo Statuto o dalla assemblea ex art 2364 e 2389 c.c. Qualora lo statuto non preveda il TFM come dovuto, ma solo come possibile, è necessaria una delibera assembleare per far sorgere in capo all’ex amministratore il diritto all’indennità di fine mandato che reclama. Delibera che non può considerarsi implicita in quella di approvazione del bilancio, attesa la natura imperativa e inderogabile della previsione normativa.
Il contenuto della delibera di azione di responsabilità contro gli amministratori; la responsabilità dei sindaci per culpa in vigilando
L’art. 2393 c.c. non richiede che la deliberazione con cui l’assemblea autorizza l’esercizio dell’azione sociale di responsabilità rechi una specifica motivazione volta ad illustrare le ragioni che giustificano tale scelta, tantomeno che rechi una individuazione specifica delle condotte degli amministratori asseritamene contrarie ai doveri imposti agli amministratori dalla legge o dallo statuto. Ne deriva che è da escludere che la delibera prevista dall’art. 2393 c.c. circoscriva l’esercizio dell’azione sociale di responsabilità solo agli atti di mala gestio eventualmente riportati nella relativa motivazione e che deve essere ritenuto senz’altro ammissibile, in sede di proposizione, fondare l’azione su fatti diversi da quelli specificamente esaminati dall’assemblea. A differenza di altre deliberazioni societarie, non è necessario che detta delibera sia motivata, né che individui in maniera specifica tutti gli addebiti, essendo sufficiente che emerga la volontà dei soci di ottenere per via giudiziaria il risarcimento del danno causato dalla mala gestio di determinati amministratori, poiché la delibera è soltanto una condizione dell’azione e non può predeterminarne il contenuto, che deve invece essere rimesso al vaglio degli amministratori attuali non in conflitto di interessi. L’azione di responsabilità, pertanto, non solo può essere concretamente esercitata nei confronti di alcuni soltanto degli amministratori indicati nella delibera assembleare, ma può anche essere fondata su fatti diversi da quelli specificatamente esaminati dall’assemblea in sede di delibera della relativa azione.
Per poter accertare la sussistenza della responsabilità dei sindaci in concorso omissivo con il fatto illecito degli amministratori o dei liquidatori, colui che propone l’azione ex art. 2407 c.c. ha l’onere di allegare specificamente quali doveri sono rimasti inadempiuti e quali poteri non sono stati esercitati dai sindaci, nonché di provare il danno e il nesso di causalità tra quelle omissioni e il danno, nesso che può ritenersi sussistente quando il danno non si sarebbe prodotto se essi avessero vigilato in conformità degli obblighi della loro carica (art. 2407, co. 2, c.c.), cioè quando, in base ad un ragionamento controfattuale ipotetico, l’attivazione diligente dei poteri che la legge accorda loro lo avrebbe ragionevolmente evitato o limitato. Ciò accade, in particolare, quando i sindaci non abbiano rilevato una macroscopica violazione o non abbiano in alcun modo reagito di fronte ad atti di dubbia legittimità e regolarità, specie se protratti per un lasso di tempo apprezzabile, poiché in tal caso il mantenimento di un comportamento inerte implica che non si sia vigilato adeguatamente sulla condotta degli amministratori (o dei liquidatori) pur nella esigibilità di un diligente sforzo per verificare la situazione anomala e porvi rimedio, col fine di prevenire eventuali danni.
Se lo statuto della società non stabilisce il diritto dell’amministratore al compenso, esso è determinato dall’assemblea ordinaria dei soci all’atto della nomina o successivamente. In mancanza di determinazione in seno allo statuto è pertanto necessaria, perché sorga in capo all’amministratore il diritto al compenso, un’esplicita delibera assembleare. Le medesime regole valgono anche con riferimento al liquidatore, al quale lo statuto dell’amministratore, mutatis mutandis, è applicabile (art. 2489 c.c.).
Sede appropriata per la verifica dei soci in ordine alla correttezza, da parte dell’organo amministrativo, della liquidazione dei propri compensi sulla base di criteri già stabiliti in apposita e previa sede assembleare ed assumere le relative determinazioni, ben può essere anche l’ approvazione del bilancio di esercizio, considerando che tale delibera è pur capace di esplicare limitati e condizionati effetti negoziali non già, come ovvio, nei rapporti della società con terzi, ma nei rapporti interni, non solo tra soci e tra soci e società (es.: vincolo, solo per i soci che lo abbiano approvato, del bilancio che reca un determinato regime dei loro finanziamenti), ma anche con riferimento ai rapporti interni tra organo amministrativo proponente il progetto di bilancio e società. Tuttavia, perché in sede di approvazione del bilancio possa dirsi formata un’effettiva volontà dei soci in ordine al riconoscimento / ratifica del compenso erogato all’organo gestorio, è necessario che la relativa appostazione sia chiara e specifica sia con riferimento all’attribuzione della somma pagata all’organo stesso a titolo di compenso, sia con riferimento al suo ammontare.
Il revisore è il soggetto preposto per legge al controllo dei conti delle società di capitali. L’attività del revisore consta di due diverse fasi: quella ispettivo-ricognitiva e quella valutativa. Il revisore, infatti, verifica periodicamente la regolare tenuta della contabilità sociale e la corretta rilevazione nelle scritture contabili dei fatti di gestione; a ciò segue la fase valutativa nella quale egli accerta se il bilancio di esercizio e, ove redatto, il bilancio consolidato corrispondano alle risultanze delle scritture contabili e siano stati redatti correttamente, esprimendo il relativo giudizio in apposita relazione (artt. 11 e 14 d.lgs. n. 39/2010). Il revisore contabile ha dunque prevalentemente doveri informativi che consistono specialmente nell’esprimere la valutazione sul bilancio di esercizio ma anche nel fornire tempestivamente al collegio sindacale informazioni rilevanti per l’espletamento dei rispettivi compiti ex art. 2409 septies c.c. La presentazione di dichiarazioni fiscali è un’attività di natura senz’altro gestoria ed esula dai poteri preventivi di controllo del revisore.
Azione sociale di responsabilità nella s.r.l.
L’esercizio dell’azione sociale di responsabilità deve essere deliberato, anche nelle società a responsabilità limitata, dall’assemblea dei soci. L’autorizzazione assembleare, dunque, si pone come requisito necessario per attribuire al legale rappresentante della società la legittimazione processuale e la volontà dei soci deve necessariamente essere espressa mediante una deliberazione da assumersi nell’assemblea in sede ordinaria (art. 2364, co. 1 n. 4, c.c.), non essendo ammesse forme equipollenti.
L’azione sociale di responsabilità si configura, per consolidata giurisprudenza, come un’azione risarcitoria di natura contrattuale, derivante dal rapporto che lega gli amministratori alla società e volta a reintegrare il patrimonio sociale in conseguenza del depauperamento cagionato dalla cattiva gestione degli amministratori e dalle condotte da questi posti in essere in violazione degli obblighi gravanti in forza della legge e delle previsioni dell’atto costitutivo, ovvero dell’obbligo generale di vigilanza o dell’obbligo di intervento preventivo e successivo. E’ onere della parte attrice allegare l’inadempimento sussistente in capo all’amministratore degli obblighi a lui imposti dalla legge e/o dall’atto costitutivo, nonché discendenti dal generale obbligo di vigilanza al fine di evitare il determinarsi di eventi dannosi.
La condotta dell’amministratore di s.r.l., equiparata per tale aspetto ai doveri che devono connotare il contegno degli amministratori di s.p.a., deve informarsi alla diligenza richiesta per la natura dell’incarico ed alle specifiche competenze del settore; trattasi, dunque, della speciale diligenza richiesta, ai sensi dell’art. 1176, 2° comma, al professionista e non, come previsto nei tempi precedenti alla riforma del diritto societario entrata in vigore il’1.1.2004, alla generica diligenza del mandatario.
Giova precisare che, ai fini della risarcibilità del danno, il soggetto agente, oltre ad allegare l’inadempimento dell’amministratore nei termini summenzionati, deve anche allegare e provare l’esistenza di un danno concreto, che si estrinsechi nel depauperamento del patrimonio sociale di cui si chiede il ristoro, nonché nella possibilità di ricondurre detta lesione alla condotta dell’amministratore inadempiente, quand’anche cessato dall’incarico.
La ripartizione dell’onere probatorio attribuisce alla parte attrice l’obbligo non solo di allegare l’inadempimento – nel caso di specie l’acquisto della società identificato come operazione antieconomica per la società e, dunque, lesiva del dovere di diligenza che impegna l’amministratore nei confronti della società stessa – ma anche l’onere di allegare e provare l’esistenza di un danno concreto, causalmente connesso alla condotta dell’amministratore.
Natura giuridica del rapporto tra amministratore e società e disciplina del compenso
Tra la società e l’amministratore si instaura un vero e proprio rapporto contrattuale, dovendosi considerare che, nei rapporti tra loro intercorrenti – i c.d. “rapporti interni” –, essi devono essere considerati, come d’altronde sono, due soggetti di diritto autonomi e distinti, dei quali l’uno svolge una prestazione in favore dell’altro, sicché la questione maggiormente problematica riguarda l’individuazione del tipo negoziale all’interno del quale il predetto rapporto va ricondotto: a riguardo, è senz’altro da condividere quanto affermato da Cass. civ., sez. un., 20 gennaio 2017, n. 1545 laddove (i) da un lato, ha escluso che la prestazione dell’amministratore possa essere assimilata a quella di un lavoratore subordinato o para-subordinato ovvero di un prestatore d’opera, non essendo essa soggetta ad alcun coordinamento o eterodirezione (neppure da parte dell’assemblea dei soci), (ii) dall’altro, ha ricondotto il rapporto tra la società e l’amministratore nell’ambito dei rapporti societari cui fa riferimento l’art. 3, co. 2, lett. a), D.Lgs. 168/2003. Da tale inquadramento giuridico del rapporto negoziale deriva l’inapplicabilità dell’articolo 36 Cost. e la conseguente natura derogabile del diritto al compenso spettante all’amministratore, e così (i) il rapporto societario di amministrazione può configurarsi anche come contratto a titolo gratuito; (ii) il diritto al compenso è rinunciabile da parte dell’amministratore, anche tacitamente, mediante un comportamento concludente che riveli in modo univoco la sua effettiva e definitiva volontà dismissiva del diritto.
Al fine di individuare le modalità di regolamentazione del rapporto contrattuale con l’amministratore, occorre fare riferimento a quegli atti attraverso i quali, nell’ambito dell’organizzazione societaria, si manifesta la volontà dei soci con particolare riferimento al rapporto di amministrazione. Sovviene, in primo luogo, lo statuto della società, cui l’amministratore, nell’accettare la nomina, aderisce. lo statuto – nel dettare le regole organizzatorie dell’ente – individua i diritti degli amministratori, le competenze e le facoltà attribuite all’assemblea riguardo a tale rapporto. In particolare, con riferimento al compenso degli amministratori, lo statuto può: (i) attribuire agli amministratori un diritto al compenso, (ii) subordinare il diritto al compenso all’assunzione di apposita delibera dell’assemblea, (iii) escludere il diritto al compenso e stabilire, dunque, la gratuità dell’incarico, ovvero (iv) non prevedere nulla al riguardo. In secondo luogo viene in considerazione la delibera assembleare di nomina degli amministratori, la quale, (i) laddove lo statuto attribuisca loro il diritto al compenso, può determinarne la misura; (ii) ove invece lo statuto preveda un diritto al compenso condizionato o non preveda alcunché, la stessa può deliberare l’attribuzione di emolumenti in favore degli amministratori, determinandone eventualmente l’ammontare, ovvero ancora (iii) può non prevedere nulla al riguardo. In ultima istanza devono essere considerate le eventuali deliberazioni assembleari successive, laddove i soci, in corso di svolgimento del rapporto, eventualmente sollecitati in tal senso dagli amministratori stessi, abbiano stabilito l’attribuzione del compenso loro dovuto o anche solo il suo eventuale ammontare.
Il disposto degli artt. 2364, co. 1, n. 3 e 2389, co. 1 c.c. – quest’ultimo dettato in materia di S.p.A., ma pacificamente ritenuto applicabile in via estensiva anche alle s.r.l. – devono essere letti e interpretati in relazione alla natura del rapporto di amministrazione ed alle fonti che lo disciplinano: ne deriva che il loro portato normativo va apprezzato sul piano funzionale, nel senso che tali norme individuano l’atto e l’organo cui spetta la determinazione del compenso eventualmente dovuto ai membri dell’organo gestorio sulla base e nei limiti previsti dalle disposizioni che lo statuto sociale prevede in proposito. Si tratta cioè di materia del tutto disponibile e subordinata alle disposizioni statutarie ed alla volontà assembleare (artt. 2377 co. 1, 2479-ter, u. co., c.c.). Dalle suddette previsioni non può quindi in alcun modo desumersi il carattere inderogabilmente oneroso della prestazione dell’amministratore, non costituendo l’onerosità un requisito indispensabile della stessa.
Lo statuto può disporre la gratuità dell’incarico di amministratore
Il compenso dell’amministratore costituisce materia del tutto disponibile e subordinata alle disposizioni statutarie (artt. 2377 comma 1, 2479 ter, ult. comma, c.c.). Ben si può dire, in linea molto generale, che, nel rapporto interno con l’amministratore e sul piano contrattuale, le scelte negoziali per conto della società sono assunte ed espresse dai soci, ai quali spetta ex lege il potere di nominare e revocare gli amministratori e di determinarne, eventualmente, il compenso. Da tali previsioni non può quindi in alcun modo desumersi il carattere inderogabilmente oneroso della prestazione dell’amministratore, non costituendo l’onerosità un requisito indispensabile della stessa.
Inoltre, il rapporto intercorrente tra la società di capitali ed il suo amministratore è di immedesimazione organica e ad esso non si applicano né l’art. 36 Cost. né l’art. 409, comma 1, n. 3) c.p.c.. Ne consegue che è legittima la previsione statutaria di gratuità delle relative funzioni.
Pertanto, al fine di individuare le modalità di regolamentazione del rapporto con l’amministratore, occorre fare riferimento a quegli atti attraverso i quali, nell’ambito dell’organizzazione societaria, si manifesta la volontà dei soci con particolare riferimento al rapporto di amministrazione. Astrattamente, sono prospettabili quattro alternative, potendo lo statuto: (i) attribuire agli amministratori un diritto al compenso, (ii) subordinare il diritto al compenso all’assunzione di apposita delibera dell’assemblea, (iii) escludere il diritto al compenso e stabilire, dunque, la gratuità dell’incarico ovvero (iv) non prevedere nulla al riguardo.
Sicché, se lo statuto subordina il compenso dell’amministratore alla presenza di una specifica delibera assembleare, e tale delibera non vi è, nulla è dovuto a chi ricopra quella carica, in forza della vigenza di una regola statutaria di gratuità.
Resta fermo che, a fronte della gratuità dell’incarico, l’amministratore ben potrebbe non accettare la conclusione del contratto e, quindi, rifiutare la nomina oppure, ove l’abbia già accettata, estinguere anticipatamente il rapporto, rassegnando le proprie dimissioni.
Presupposti per la nomina di un curatore speciale ex art. 78 c.p.c.
Il conflitto di interessi tra rappresentante e rappresentato, requisito richiesto ex art. 78, co. 2, c.p.c. per la nomina di un curatore speciale, sussiste in tutti e soli i casi in cui vi sia un contrasto fra la società e il suo legale rappresentante, per essere quest’ultimo giuridicamente (e non solo in via di fatto) direttamente interessato ad un esito della lite diverso da quello che possa invece avvantaggiare l’ente.
Tale conflitto giuridico non sussiste, invece, quando gli interessi confliggenti appartengano in realtà ai soci o a gruppi di essi, dei quali alcuni fisiologicamente dissenzienti ma minoritari e altri, maggioritari, che abbiano concorso con il loro voto all’adozione di determinate decisioni assembleari o ad esprimere l’organo amministrativo.
Dunque, non si ritiene sussistente tale conflitto di interessi (e non è necessario procedere alla nomina di un curatore speciale) nell’ipotesi in cui oggetto del giudizio sia l’impugnazione di una delibera assembleare di approvazione del bilancio di esercizio, in quanto vi è convergenza tra l’interesse della società e quello del suo legale rappresentante (in entrambi i casi, la conferma della delibera).
Sussiste invece, anche alla luce del chiaro dettato dell’art. 2373, co. 1, c.c. (secondo il quale gli amministratori non possono votare nelle deliberazioni riguardanti la loro responsabilità), un conflitto di interessi rilevante ex art. 78 c.p.c. nel caso di giudizio impugnatorio della delibera con la quale è stata respinta la proposta di autorizzazione all’azione di responsabilità nei confronti dell’amministratore-legale rappresentante, in quanto vi è una divergenza tra gli interessi dell’amministratore stesso e della società, che da tale azione risarcitoria (e dall’automatica rimozione dalla carica ex art. 2393, co. 4, c.c.) almeno potenzialmente si avvantaggerebbe.
Delibera assembleare di rinuncia all’azione di responsabilità: determinatezza dell’oggetto e limiti
La delibera assembleare di una società che contenga l’espressa dichiarazione di volontà di liberare l’amministratore unico da qualsivoglia conflitto di interessi e responsabilità in ordine ad alcune operazioni sociali, al quale aveva preso parte anche in nome e per conto proprio, costituisce una rinuncia pro futuro all’esercizio dell’azione di responsabilità con riferimento alle operazioni oggetto della delibera.
La rinuncia, da parte dell’assemblea, all’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori (prevista agli artt. 2393, co. 6, c.c. e 2476, co. 5, c.c.), sia essa preventiva o successiva, incontra due limiti invalicabili costituiti dalla determinatezza dell’oggetto della rinuncia e dalla regola dell’art. 1229 c.c., che esclude la validità di patti che esimano preventivamente il debitore da responsabilità dolosa o per colpa grave.
Azione di recupero del credito, efficacia probatoria della delibera di approvazione del bilancio
L’azione proposta dalla s.r.l. in termini di azione di recupero di un credito regolarmente iscritto in bilancio nei confronti del socio nonché ex Amministratore Unico della società, derivante da condotte distrattive da parte di quest’ultimo nei confronti del patrimonio sociale, non può essere qualificata come azione di responsabilità nei confronti dell’amministratore di una società di capitali ex art. 2476 c.c.
La delibera di un’assemblea ordinaria avente ad oggetto l’approvazione del bilancio, ai sensi dell’art. 2364, co. 1, n. 1 c.c., conformemente alla generale vincolatività delle delibere assembleari per tutti i soci, anche dissenzienti, in mancanza di rituale impugnazione, ha piena efficacia vincolante nei confronti di tutti i soggetti legati dal rapporto sociale, e costituisce altresì piena prova del credito che la società vanta nei confronti del singolo socio, atteso che il principio della libera valutabilità da parte del giudice di merito dei libri e delle scritture contabili, e quindi anche del bilancio, dell’impresa soggetta a registrazione, ai sensi dell’art. 2709 c.c., non si estende ai rapporti fra società e socio, per essere agli stessi applicabile, anche con riguardo alle rispettive posizioni debitorie e creditorie, l’indicato principio della vincolatività.
Inesistenza ed invalidità della delibera di seconda convocazione per vizi formali e sostanziali
La deliberazione assembleare societaria assunta, in seconda convocazione, non preceduta dalla verbalizzazione del mancato raggiungimento delle maggioranze richieste per la sua costituzione in prima convocazione, non può essere considerata “inesistente”, possedendo tutti gli elementi per essere riconducibile al modello legale delle deliberazioni assembleari e per essere imputata alla società nel cui ambito viene assunta, e ponendo solo problemi di validità legati all’accertamento della maggioranza necessaria per assumere la deliberazione.
Non ogni incompletezza o inesattezza del verbale inficia la validità della delibera assembleare, considerato che l’art. 2377, co. 5, n. 3, del c.c. limita la rilevanza dell’incompletezza o inesattezza del verbale ai fini dell’annullamento della delibera all’ipotesi in cui siano tali da impedire l’accertamento del contenuto, degli effetti e della validità della deliberazione. In tal senso, la mancata allegazione al verbale di documenti prodotti dai soci non determina di per sé l’invalidità ai sensi dell’art. 2377 c.c., per l’incompletezza dello stesso.
Nelle società di capitali il diritto del socio a percepire gli utili presuppone e necessita di una preventiva delibera assembleare che ne disponga la distribuzione. Il socio ha, dunque, una aspettativa ma non un diritto di credito esigibile sino a quando l’assemblea, in sede di approvazione di bilancio (o, comunque, anche in un momento successivo), non decida circa la distribuzione, l’accantonamento o il reimpiego degli utili nell’interesse della stessa società.
La delibera assunta dalla maggioranza di non distribuire l’utile di esercizio è censurabile (da un punto di vista sostanziale) unicamente sotto il profilo dell’abuso di maggioranza, il cui carattere abusivo deriva dalla condotta dei soci di maggioranza volta ad acquisire posizioni di indebito vantaggio in antitesi con l’interesse sociale e/o idonea a provocare la lesione della posizione degli altri soci (rendendo più onerosa la partecipazione o sacrificando la legittima aspettativa di remunerazione dell’investimento in violazione del canone di buona fede e correttezza (ex art. 1175 e 1375 c.c.) nella esecuzione del contratto sociale (ove l’esercizio in comune dell’attività economica avviene proprio “allo scopo di dividerne gli utili”). Tuttavia, grava sul socio di minoranza che impugna la delibera l’onere di provare in giudizio che la decisione dell’accantonamento degli utili sia viziata sotto il profilo dell’abuso di maggioranza.
A tal proposito, la mancata distribuzione per diversi esercizi dell’utile sociale costituisce un indice rivelatore ma non è di per sé sufficiente a dimostrare il carattere abusivo della delibera di accantonamento (ciò anche in considerazione del fatto che la stessa produce effetti positivi diretti sul patrimonio della società e riflessi sul valore delle partecipazioni dei soci), rivestendo elemento determinante ai fini della decisione la valutazione circa le concrete ed effettive motivazioni sottese alla volontà della maggioranza. Tuttavia, il sindacato sull’esercizio del potere discrezionale della maggioranza deve, comunque, arrestarsi alla legittimità della deliberazione attraverso l’esame di aspetti all’evidenza sintomatici della violazione della buona fede e non può spingersi a complesse valutazioni di merito in ordine all’opportunità delle scelte di gestione e programma dell’attività comune sottese all’accantonamento dell’utile.
Interesse all’impugnazione in caso di delibera assembleare negativa
La delibera assembleare costituisce l’esito di un procedimento che può e deve essere valutato sotto il profilo della sua correttezza e legittimità; dunque, anche nel caso in cui l’esito del procedimento si traduca in una mancata delibera è coerente con il sistema ammettere l’impugnazione per consentire il rilievo di un vizio procedimentale, determinante dell’esito. L’interesse alla impugnazione deve essere rappresentato, e sussiste, qualora si possa dimostrare che, correggendo il vizio del procedimento, l’esito sarebbe stato diverso.
La necessità di una preventiva autorizzazione assembleare rispetto a una o più materie o decisioni non può dirsi idonea ad esautorare gli amministratori, titolari del potere gestorio, laddove vi sia una giustificazione nello specifico assetto societario
La previsione di quorum assembleari ultra-qualificati deve ritenersi generalmente ammissibile, con le uniche ed espresse eccezioni dei casi di approvazione del bilancio e nomina o revoca delle cariche sociali