Art. 2383 c.c.
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Abusivo ricorso al meccanismo simul stabunt simul cadent
La previsione statutaria della cessazione dell’intero consiglio di amministratore per effetto delle dimissioni di taluno dei suoi membri attribuisce all’esercizio da parte del singolo componente dell’organo amministrativo della facoltà di recedere liberamente dal mandato senza alcuna necessità di motivazione desumibile dall’art. 2385, co. 1, c.c. l’ulteriore effetto di determinare la decadenza immediata dell’organo gestorio con la funzione, non solo di conservare gli equilibri interni di composizione del consiglio originariamente voluti e cristallizzati nella delibera assembleare di nomina evitando in particolare l’alterazione che potrebbe derivare a danno della compagine di minoranza dall’applicazione del meccanismo della cooptazione, ma anche di fungere da stimolo alla coesione dell’organo gestorio poiché ciascun amministratore è consapevole che le dimissioni di uno o di alcuni degli altri determina la decadenza dell’intero consiglio e nel contempo può contribuire a quella decadenza quando in disaccordo con gli altri. La decadenza immediata dell’organo amministrativo conseguente alla legittima applicazione della clausola statutaria simul stabunt simul cadent non comporta a favore del componente non dimissionario alcun effetto indennitario o risarcitorio dal momento che la previsione conforma specificamente il mandato gestorio assunto da ciascun membro del consiglio di amministrazione con l’accettazione della carica.
La revoca dell’amministratore corrisponde, invece, a una facoltà discrezionale dell’assemblea dei soci, fondata sulla natura eminentemente fiduciaria dell’incarico, che può essere esercitata per determinare la cessazione immediata del rapporto gestorio anche a prescindere dal preavviso o dall’esistenza di una giusta causa salva, però, la necessità in questo caso di corrispondere all’amministratore il risarcimento del danno previsto dall’art. 2383 c.c., avente natura essenzialmente indennitaria in quanto connesso all’esercizio legittimo di una facoltà.
Quando in presenza della clausola statutaria simul stabunt simul cadent le dimissioni di taluni membri del consiglio di amministrazione siano preordinate esclusivamente a consentire poi all’assemblea dei soci di rinnovare l’organo amministrativo con l’esclusione del solo componente sgradito per sottrare la società all’obbligo di indennizzo connesso all’adozione diretta di una deliberazione assembleare di revoca senza giusta causa può configurarsi l’ abuso nell’esercizio delle facoltà spettanti ai componenti degli organi sociali coinvolti, fonte dell’obbligo della società di risarcire il danno subito dal componente non dimissionario illegittimamente privato della prestazione indennitaria. Il complesso onere probatorio gravante sull’amministratore che deduce l’uso distorto del meccanismo decadenziale concerne, quindi, un vero e proprio procedimento elusivo costituito dalla concatenazione concertata di atti negoziali e comportamenti riferibili a componenti di organi sociali diversi volti a convergere sull’unico scopo della realizzazione di un effetto equivalente alla revoca ingiustificata senza indennizzo dell’amministratore.
La configurabilità della fattispecie procedimentale dell’abuso in questione presuppone, in particolare: (i) l’esercizio strumentale della facoltà di dimissioni da parte di taluni componenti del consiglio di amministrazione con il solo scopo di provocare la decadenza immediata dell’organo in vista della programmata esclusione da parte dell’assemblea convocata per il rinnovo dell’organo del solo componente sgradito; (ii) la rinnovazione da parte dell’assemblea dei soci dell’incarico a tutti gli altri membri del consiglio con esclusione del solo componente non dimissionario; (iii) il collegamento oggettivo e soggettivo tra le dimissioni dei consiglieri che hanno perfezionato la fattispecie statutaria della decadenza dell’intero consiglio di amministrazione e la successiva immediata nomina da parte dell’assemblea del nuovo consiglio di amministrazione composto da tutti i membri precedenti escluso quello non più gradito, connotato dall’esclusivo intento di ottenere la sua estromissione senza indennizzo dall’organo gestorio.
Il socio di fatto nelle società di capitali. L’atto costitutivo non è interpretabile secondo l’intenzione dei contraenti
La società di fatto si ha quando la costituzione del rapporto non risulta da una prova scritta e questa non sia richiesta dalla legge ai fini della validità del rapporto sociale. Se è così, non è predicabile l’esistenza della figura del socio cofondatore o del socio di fatto all’interno di una società si capitali, giacché il legislatore richiede per la costituzione di questa tipologia di enti e per l’acquisto della qualità di socio delle formalità e delle attività che non sono surrogabili per fatti concludenti.
Le formalità imposte per la costituzione della società e per l’acquisto della qualità di socio sono richieste per ragioni di certezza del traffico giuridico e di tutela dei terzi. Tipo e scopo sociale, una volta compiute le formalità di legge, sono quelle che emergono dal sistema di pubblicità, con la conseguenza che l’atto di costituzione dell’ente non può più essere interpretato secondo la comune intenzione dei contraenti e resta consacrato nei termini in cui risulta iscritto ed è portato a conoscenza dei terzi: le esigenze di tutela di questi ultimi assumono dunque prevalenza e rendono irrilevante la fase negoziale che ha dato luogo alla nascita del nuovo soggetto giuridico, che vive di vita propria, agisce e risponde dei propri atti in via autonoma, quale che sia stata la volontà dei soci sottostante alla formazione del contratto.
L’amministratore di fatto è un istituto concepito al fine di estendere il regime di responsabilità civile e penale previsto per gli illeciti gestori degli amministratori di diritto al soggetto che, pur senza rivestire formalmente tale qualità, si ingerisca con una certa stabilità e continuità nella gestione della società. L’amministratore di fatto non ha alcuna aspettativa giuridicamente tutelata alla conservazione della sua carica, in quanto è privo di una formale investitura proveniente dall’assemblea e, in assenza di tale adempimento, non è nemmeno logicamente configurabile una revoca ai sensi dell’art. 2383 c.c.
Sulla revoca in assenza di giusta causa dell’amministratore
Il rapporto intercorrente tra la società di capitali e il suo amministratore è di immedesimazione organica e a esso non si applicano né l’art. 36 cost., né l’art. 409, co. 1, n. 3, c.p.c. Ne consegue che è legittima la previsione statutaria di gratuità delle relative funzioni. La rinuncia al compenso da parte dell’amministratore può trovare espressione in un comportamento concludente del titolare che riveli in modo univoco una sua volontà dismissiva del relativo diritto. Le norme di cui agli artt. 2383, co. 3, e 1725, co. 2, c.c., riferite al rapporto societario di amministrazione, sono derogabili, sia perché hanno ad oggetto rapporti puramente patrimoniali, sia perché non hanno riflessi né su diritti di terzi né su aspetti concernenti la struttura corporativa dell’ente. Non sussistono, dunque, motivi per ritenere non disponibile per via statutaria la disciplina delle conseguenze della cessazione del rapporto amministrativo per effetto di revoca.
Il diritto al risarcimento dell’amministratore revocato in assenza di giusta causa sorge a seguito di un atto giusto della società amministrata – configurandosi la revoca dell’amministratore quale diritto potestativo, salvo il caso estremo dell’abuso – talché esso è più propriamente qualificabile in termini di diritto a un indennizzo, avendo l’art. 2383, co. 3, c.c. utilizzato il sintagma “risarcimento del danno” per assicurare all’amministratore avente diritto il pieno ristoro del pregiudizio subito piuttosto che per affermarne la derivazione da fatto ingiusto. Sul piano più propriamente organizzativo / corporativo si può riconoscere meritevole di tutela l’interesse della società a estendere al massimo, per via statutaria, il proprio diritto potestativo di revoca, negando accesso, a fronte della decisione di revoca, a valutazioni o pretese di sorta circa il fondamento di quella decisione, nonché alle correlative controversie.
Il pregiudizio ai diritti della persona (onore, reputazione, identità personale, ecc.) subito dall’amministratore revocato in assenza di giusta causa è distinto da quello derivante dalla lesione del diritto alla prosecuzione della carica sino a naturale scadenza. Il danno ulteriore ai diritti della persona si può verificare allorché, ad esempio, eventuali dichiarazioni contenute rese in occasione della revoca costituiscano un’attività ingiuriosa o diffamatoria, animata da colpa o da dolo, posta in essere dalla società, lesiva del prestigio professionale dell’amministratore; oppure quando le concrete modalità della cessazione del rapporto, esterne alla deliberazione, si palesino contra ius. Tuttavia, di tali ulteriori e diversi danni l’amministratore deve offrire puntuale allegazione. Tale puntuale allegazione dovrebbe estrinsecarsi, da un lato, nell’individuazione del diritto leso e, dall’altro, nella chiara e specifica allegazione delle dichiarazioni/deliberazioni o comportamenti lesivi di quei diritti.
La mancanza di giusta causa di revoca dell’amministratore non integra un vizio della deliberazione
Ai sensi dell’art. 2383, co. 3 c.c., la giusta causa di revoca costituisce soltanto requisito che esclude il risarcimento del danno, che è invece dovuto laddove essa mancasse. La delibera di revoca integra di per sé il titolo del venir meno del rapporto gestorio, ben potendo qualificarsi in termini di recesso ex lege suscettibile di essere adottato dall’assemblea ad nutum. L’ordinamento, dunque, concede tutela in via prioritaria non solo all’affidamento che i soci ripongono nelle capacità, avvedutezza e diligenza professionale dell’amministratore, ma anche alla valutazione soggettiva che i soci stessi esprimono in ordine alla permanenza di quel patto. Il potere di revoca soggiace al limite dell’abuso, ma, trattandosi di diritto potestativo, la configurazione e la prova di questo rimangono indubbiamente problematiche e residuali. Si può dunque escludere che la mancanza di giusta causa della revoca, considerata dalla legge solo come elemento della fattispecie risarcitoria, integri un vizio della deliberazione, che invece rimane valida anche in assenza di giusta causa. L’individuazione e la quantificazione del danno derivante dalla revoca senza giusta causa della carica gestoria devono avvenire al più tardi nella prima memoria.
Di ulteriori e diversi danni rispetto a quelli consistenti nel lucro cessante da revoca priva di giusta causa – quali i pregiudizi ai diritti della persona (onore, reputazione, identità personale, ecc.), – l’amministratore deve offrire puntuale allegazione. Tale puntuale allegazione dovrebbe estrinsecarsi, da un lato, nella individuazione minimamente precisa del diritto leso – se da identificare nell’onore e reputazione come diritti della persona in quanto tale, o nella loro più stretta declinazione relativa alla sfera professionale o nel diverso diritto alla identità personale –, dall’altro, soprattutto, nella chiara e specifica allegazione delle dichiarazioni/deliberazioni o comportamenti di determinati rappresentanti delle società od organi che, connotati da colpa o dolo, sono risultati lesivi di quei diritti.
Il rapporto tra SGR e partecipanti del fondo comune di investimento; in particolare, la revoca della SGR
La sostituzione della SGR nella gestione di un fondo comune di investimento è un fenomeno assimilabile al mutamento delle persone degli amministratori; i partecipanti al fondo – nel deliberare la revoca del gestore e l’esercizio dell’azione di responsabilità nei confronti di questi – assumono una posizione analoga a quella dei soci di società di capitali. Ne discende che la volontà di revoca espressa in sede assembleare non può che essere imputata al fondo medesimo, il quale – sotto il profilo della responsabilità e nella sua autonomia patrimoniale “bilaterale” perfetta ex art. 36, co. 4, t.u.f., ovvero sia rispetto al patrimonio del gestore, sia rispetto a quello dei partecipanti – può senz’altro legittimamente costituire un centro di imputazione di posizioni giuridiche soggettive attive e passive.
Deve escludersi che il rapporto intercorrente tra la società di gestione e i partecipanti al fondo sia propriamente riconducibile alle figure del mandato e della rappresentanza. Infatti, la volontà del mandante e quella del rappresentato sono rilevanti per il mandatario (art. 1711 c.c.) e per il rappresentante (art. 1388 c.c.), mentre la SGR è indipendente dai partecipanti al fondo. Inoltre, sia nel mandato, sia nella rappresentanza, la legittimazione sostanziale a disporre attribuita al gestore non sostituisce, ma si aggiunge a quella del dominus, che, pur con le dovute cautele, può continuare a compiere atti di disposizione del diritto (artt. 1716, co. 2, e 1729 c.c.). Il potere di disposizione non spetta invece ai partecipanti, ma, ex artt. 1, lett. k), e 36, co. 3, t.u.f., alla sola SGR in via esclusiva.
Né depone in senso contrario l’espressa attribuzione legislativa alla SGR dei doveri e delle responsabilità del mandatario (art. 36, co. 3, t.u.f.): trattasi, infatti, di situazioni giuridiche che non esauriscono il rapporto di mandato. E così la gestione nell’interesse dei partecipanti non è concepibile senza un riferimento unificante, che, come tale, esclude la loro rilevanza uti singuli. Peraltro, se si può ammettere che i partecipanti al fondo possano agire in responsabilità verso la SGR, l’oggetto di tale azione è la mala gestio del fondo ed il risarcimento è dovuto al fondo e non ai partecipanti agenti, analogamente a quanto accade per le società di capitali ex artt. 2393 bis e 2476, co. 3, c.c. Per quanto riguarda il fondo, non è dubbio che da esso non possano promanare istruzioni di gestione, sicché è escluso che la SGR possa esser soggetta ad esse, pur essendo le scelte di investimento del gestore limitate dal regolamento, rimanendone così esclusa la assimilabilità al mandato fiduciario. Il rapporto tra SGR e fondo è dunque specialmente regolato dalla legge e sono proprio la perfetta autonomia patrimoniale che lo caratterizza ex lege ed il potere gestorio altrettanto stabilito ex lege in capo alla SGR, con la mediazione del regolamento, che ben giustificano l’affermazione di una imputazione diretta in capo al fondo delle posizioni giuridiche attive e passive che di quella gestione sono il risultato effettuale, senza che uno sdoppiamento della proprietà tra “formale” e “sostanziale” – sostituita alla più tradizionale dicotomia proprietà / gestione – possa particolarmente giovare alla chiarezza e certezza del traffico giuridico.
La legittimazione attiva con riferimento alle azioni con le quali si facciano valere diritti inclusi in un fondo comune di investimento spetta alla SGR e non ai partecipanti.
L’assenza di una disciplina ad hoc prevista per il funzionamento dell’assemblea dei partecipanti al fondo comune di investimento e dei rimedi di impugnazione delle relative delibere (sebbene il suo oggetto sia normativamente limitato alla sola revoca della SGR ed all’esperimento dell’eventuale azione di responsabilità), conduce a individuare l’assetto societario più logicamente ricollegabile al funzionamento e alla struttura di un fondo nelle disposizioni specificamente rivolte alle società per azioni.
Nel diritto societario, le deliberazioni degli organi sociali soggette per legge all’obbligo di motivazione costituiscono un numero limitato (artt. 2391, 2391 bis, 2441, co. 5, 2497 ter c.c.). Accanto alle ipotesi in cui le deliberazioni societarie debbono essere motivate per esplicito dettato normativo, ve ne sono altre che possono essere individuate in via interpretativa. Tra di esse vi sono, sia pure con connotati fra loro parzialmente diversi, le deliberazioni di interruzione del rapporto sociale (artt. 2287, 2473 bis e 2533 c.c.), gestorio (artt. 2259, 2383 e 2409 duodecies c.c.) o sindacale (art. 2400 c.c.), dove la necessità di verificare la sussistenza della giusta causa, o della fattispecie statutaria, impone di motivare la deliberazione al momento in cui essa viene assunta. A tale riguardo, se è vero che il legislatore ha previsto un potere di recesso ex lege in capo alla società, tanto che la giusta causa non si pone come requisito di efficacia dell’atto, la condizione della sussistenza di ragioni integranti la medesima è, tuttavia, da verificare per impedire la nascita del diritto al risarcimento del danno.
Le ragioni di revoca, che devono presentare i caratteri di effettività ed essere riportate in modo adeguatamente specifico, debbono essere enunciate espressamente nella deliberazione e non restare meramente implicite; la deduzione in sede giudiziaria di ragioni ulteriori non è ammessa, restando esse ormai quelle indicate nella deliberazione.
Qualora, nel corso del processo in cui è controverso un diritto attinente a un fondo comune di investimento, si trasferiscano da una società di gestione all’altra – ai sensi dell’art. 36, co. 1, t.u.f. – i rapporti di gestione relativi al fondo, il processo prosegue tra le parti originarie. Conseguentemente, ai sensi dell’art. 111, co. 3 e 4, c.p.c., la società di gestione subentrata nella gestione può intervenire o essere chiamata nel processo e la società alienante può esserne estromessa. In ogni caso, la sentenza pronunciata nei confronti delle parti originarie spiega i suoi effetti anche nei confronti della società di gestione subentrata.
Sulla revoca dell’amministratore di società a responsabilità limitata
In difetto di specifiche disposizioni normative o statutarie di segno contrario, la disciplina dettata in materia dall’art. 2383 c.c. con riferimento alle s.p.a. – che consente la revoca c.d. ad nutum dell’amministratore, al quale spetta soltanto il diritto al risarcimento del danno nel caso di sua destituzione senza una giusta causa – è applicabile in via analogica, stante l’eadem ratio, anche agli amministratori di società a responsabilità limitata.
La revoca dell’amministratore di società a responsabilità limitata può essere disposta in ogni tempo dall’assemblea dei soci, anche in assenza di giusta causa ma, essendo il rapporto di amministrazione riconducibile quale “species” a sé stante al “genus” del mandato, l’amministratore revocato “ante tempus” senza giusta causa ha diritto al risarcimento del danno, per il principio posto dall’art. 1725, comma 1, c.c., salvo espressa pattuizione statutaria o convenzionale in senso contrario.
E’ onere per la società di indicare già nella delibera, in modo specifico, i fatti ed i motivi integranti, a suo dire, la giusta causa di revoca. Deve, in generale, trattarsi di fatti integranti un grave inadempimento degli obblighi gestori o che, in ogni caso, hanno irrimediabilmente compromesso il rapporto fiduciario tra società e suo amministratore. Sarà pure onere per la società di provare l’esistenza e l’incidenza/gravità dei fatti addebitati in delibera a fronte delle contestazioni svolte dall’amministratore che si reputi revocato senza giusta causa e che, per tale ragione, chiede il dovuto ristoro.
La giusta causa per la revoca dell’amministratore, prevista dall’art. 2383, terzo comma, c.c., può consistere non solo in fatti integranti un significativo inadempimento degli obblighi derivanti dall’incarico, ma anche in fatti che minino il “pactum ficuciae”, elidendo l’affidamento riposto al momento della nomina sulle attitudini e capacità dell’amministratore, sempre che essi siano oggettivamente valutabili come capaci di mettere in forse la correttezza e le attitudini gestionali dell’amministratore revocato, e non costituiscano, invece, il mero inadempimento ad una inesistente soggezione dell’amministratore stesso alle direttive del socio di maggioranza.
Revoca dell’amministrazione senza giusta causa
Se potenzialmente qualsiasi situazione sopravvenuta, anche estranea all’operato degli amministratori, è suscettibile di elidere e far venir meno il patto fiduciario tra soci e consiglio di amministrazione, le cause della rottura del pactum devono comunque poter essere chiaramente dedotte dalla delibera assembleare di revoca dell’amministratore. La facoltà di revocare a propria discrezione gli amministratori trova infatti un limite nel presupposto della giusta causa, le cui ragioni devono essere, quindi, esposte nella delibera. L’indicazione delle ragioni nella delibera è imposta dalla circostanza che la revoca è atto dell’assemblea e in seno ad essa le ragioni della revoca trovano la loro ponderazione e valutazione. Occorre l’enunciazione esplicita a verbale in ordine alle ragioni di revoca, che devono presentare i caratteri di effettività ed essere ivi riportate in modo adeguatamente specifico; mentre la deduzione in sede giudiziaria di ragioni ulteriori non è ammessa, restando esse ormai quelle indicate nella deliberazione.
Nel caso di revoca dell’incarico di amministratore senza giusta causa, il danno consiste nel lucro cessante, cioè nel compenso non percepito per il periodo in cui l’amministratore avrebbe conservato il suo ufficio, se non fosse intervenuta la revoca.
Cessione di quote e revoca dell’amministratore
Ai sensi dell’art. 1395 c.c. è esclusa l’annullabilità del contratto stipulato dal rappresentante con se stesso in due ordini di casi: nel caso in cui a ciò sia stato autorizzato il procuratore con la procura ovvero nel caso in cui il contenuto del contratto sia predeterminato in modo da prevenire la possibilità di un conflitto di interessi che è visto come intrinseco in tale modalità di stipulazione.
Nell’ipotesi di mandato conferito nell’interesse del mandatario con attribuzione di procura, la irrevocabilità del mandato è limitata al rapporto interno tra il mandante ed il mandatario e, pertanto, la validità del contratto concluso con il terzo dal mandatario, resta subordinata alla permanenza del potere di rappresentanza ed alla mancanza di revoca della procura. La revoca della procura determina la estinzione del potere di rappresentanza (art. 1396 c.c.) con la conseguenza che il contratto concluso dal rappresentante senza potere è privo di efficacia
La scelta di revocare gli amministratori è dalla legge rimessa all’assemblea ma è contemperata dalla previsione, per il caso di revoca senza giusta causa, del diritto dell’amministratore revocato al risarcimento del danno prodotto dallo scioglimento anticipato del rapporto; in difetto di giusta causa di revoca spetta all’amministratore rimosso dall’ufficio il diritto a percepire il compenso (pattuito o stabilito giudizialmente) fino alla scadenza (cd. periodo differenziale) o in caso di incarico a tempo indeterminato, alla percezione di un compenso la cui quantificazione è determinata nella misura del periodo di mancato preavviso o in via equitativa.
Se è certamente vero che, in caso di revoca senza giusta causa, all’amministratore revocato non è data altra tutela che quella risarcitoria, non può negarsi, tuttavia, che l’amministratore revocato mantenga la propria legittimazione ad impugnare la deliberazione di revoca qualora intenda lamentare che la stessa non è stata correttamente assunta. Invero, la legittimazione degli amministratori ad impugnare le deliberazioni assembleari si fonda non già su un proprio interesse, ma sull’esigenza di tutela dell’interesse generale alla legalità societaria, che implica l’esistenza di un diritto ad impugnare anche nel caso in cui la decisione invalida sia stata approvata dai soci all’unanimità.
Nelle società di capitali, il divieto per l’amministratore, ai sensi dell’art 2390 primo comma cod. civ., di assumere la qualità di socio illimitatamente responsabile in società concorrenti, o di esercitare comunque attività concorrente, tendendo ad evitare che l’amministratore durante il suo ufficio, si trovi in situazioni di dannoso antagonismo con la società amministrata, opera a prescindere dal momento in cui egli abbia assunto la qualità incompatibile, od intrapreso l’attività concorrente, ed anche, quindi, se le indicate situazioni siano non successive, ma preesistenti alla sua nomina. In entrambi i casi pero, l’inosservanza del divieto in questione non tocca la validità della delibera assembleare di nomina dell’amministratore, né determina, nella seconda ipotesi, l’ineleggibilità del medesimo, ma comporta solo l’obbligo per l’amministratore di dismettere la qualità o l’attività incompatibile, al fine di non esporsi alla sanzione della revoca, salvo che abbia ricevuto autorizzazione in forza di rituale delibera della assemblea dei soci, od in forza di espressa clausola dello statuto. Non si ha, quindi, né invalidità della delibera né ineleggibilità dell’amministratore che operi quale amministratore anche di altra società concorrente, ma solo causa di revoca rimessa all’assemblea.
Divieto di patto leonino e di patto commissorio e strumenti finanziari partecipativi
Affinché il limite all’autonomia statutaria dell’art. 2265 c.c. sussista, è necessario che l’esclusione dalle perdite o dagli utili costituisca una situazione assoluta e costante. Assoluta, perché il dettato normativo parla di esclusione “da ogni” partecipazione agli utili o alle perdite, per cui una partecipazione condizionata (ed alternativa rispetto all’esclusione in relazione al verificarsi, o non, della condizione) esulerebbe dalla fattispecie preclusiva. Costante, perché riflette la posizione, lo status del socio nella compagine sociale, quale delineata nel contratto di società.
Sia il divieto di patto commissorio (artt. 1963 e 2744 c.c.) sia il divieto di usura postulano l’esistenza di un rapporto negoziale di natura (quantomeno) prevalentemente creditizio-finanziaria, pena l’impossibilità giuridica di applicare detti divieti.
E’ lecito e meritevole di tutela l’accordo negoziale concluso tra i soci di società azionaria con il quale gli uni, in occasione del finanziamento partecipativo così operato, si obblighino a manlevare un altro socio delle eventuali conseguenze negative del conferimento effettuato in società, mediante l’attribuzione del diritto di vendita (c.d. put) entro un termine dato e il corrispondente obbligo di acquisto della partecipazione sociale a prezzo predeterminato, pari a quello dell’acquisto, pur con l’aggiunta di interessi sull’importo dovuto e del rimborso dei versamenti operati nelle more in favore della società.
Il tenore letterale dell’art. 2346, co. 6, c.c. recita che lo strumento finanziario partecipativo possa essere emesso “a seguito dell’apporto da parte di soci o di terzi anche di opera o di servizi”: tale precisazione implica necessariamente che l’apporto del sottoscrittore non sia necessariamente limitato alla dazione di denaro o beni fungibili, ma si estenda anche allo svolgimento di una prestazione di facere, ipoteticamente contraddistinta da intuitus personae. Da ciò discende la possibilità di emettere strumenti partecipativi singoli e individualizzati e quindi non seriali.
E’ ammissibile una deroga statutaria del principio secondo il quale le cariche sociali sono nominate in modo collegiale da tutte le azioni riunite in assemblea ordinaria. Lo statuto può diversamente allocare il potere di assumere la decisione nell’ambito della compagine sociale, mediante la configurazione di “diritti diversi” attribuiti a una o più categorie di azioni ai sensi dell’art. 2348 c.c.
Revoca senza giusta causa dell’amministratore di s.r.l.
L’assemblea dei soci di una società a responsabilità limitata, in mancanza di diverse previsioni statutarie, ha il potere di rimuovere l’amministratore dalla carica, in qualunque tempo, salvo il diritto al risarcimento del danno se la revoca avviene senza giusta causa, in virtù dell’applicazione analogica della previsione di cui all’art. 2383, co. 3, c.c., che opera il contemperamento fra l’interesse della società a far gestire l’impresa da persona di sua persistente fiducia e l’interesse dell’amministratore a permanere in carica e percepire il relativo compenso sino alla scadenza naturale, riflettendo sostanzialmente il regolamento generale della revoca del mandato, di cui l’incarico di amministrazione costituisce una particolare specie, sancito dall’art. 1725, co. 1, c.c.
La giusta causa è ravvisabile in qualsiasi fatto anche estraneo alla sfera giuridica dell’amministratore idoneo a minare la fiducia che deve costantemente permeare il rapporto fra l’organo gestorio e la compagine sociale che lo ha espresso e la sua ricorrenza deve, quindi, essere necessariamente valutata in seno all’assemblea dei soci ed enunciata compiutamente nella delibera che determina la cessazione del mandato gestorio. L’omessa indicazione nella delibera delle ragioni che hanno determinato l’assemblea dei soci a rimuovere e sostituire l’amministratore connota, quindi, già di per sé la revoca come priva di giusta causa, non potendo le carenze dell’atto deliberativo essere emendate nel corso del giudizio né l’assemblea essere sostituita dal giudice nella valutazione e ponderazione dell’incidenza dei fatti narrati dalla difesa della società sulla tenuta del rapporto fiduciario.
Quanto alla liquidazione dell’ammontare del ristoro dovuto all’amministratore revocato senza giusta causa, non essendo l’esercizio di funzioni gestorie in alcun modo assimilabile al rapporto di lavoro subordinato o di collaborazione, l’esistenza e consistenza del pregiudizio deve essere da lui provata in giudizio secondo le previsioni generali dell’art. 1223 c.c. e dell’art. 2967 c.c. e, in linea generale, si presume corrispondente alla perdita del compenso nel periodo necessario a reperire un nuovo incarico nel settore ad analoghe condizioni economiche.