Art. 2393 c.c.
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Inidoneità della mancanza delle scritture contabili a giustificare la condanna dell’amministratore
La mancanza di scritture contabili, ovvero la sommarietà di redazione di esse o la loro inintelligibilità, non è di per sé sufficiente a giustificare la condanna dell’amministratore in conseguenza dell’impedimento frapposto alla prova occorrente ai fini del nesso di causalità rispetto ai fatti causativi del dissesto. Essa presuppone, invece, per essere valorizzata in chiave risarcitoria nel contesto di una liquidazione equitativa, che sia comunque previamente assolto l’onere della prova, e prima ancora dell’allegazione, circa la l’esistenza di condotte per lo meno astrattamente causative di un danno patrimoniale. Il criterio del deficit fallimentare è applicabile soltanto come criterio equitativo per l’ipotesi di impossibilità di quantificare esattamente il danno, sussistendo però la prova almeno presuntiva di condotte tali da generare lo sbilancio fra attivo e passivo.
Le scritture contabili hanno la funzione di rappresentare dei fatti di gestione e la loro mancanza o la loro irregolare tenuta sono illeciti meramente formali che certamente sono suscettibili di essere valorizzati ad esempio ai fini della revoca dell’amministratore o della denuncia al tribunale ai sensi dell’art. 2409 c.c., ma che, ai fini della responsabilità dello stesso amministratore, non hanno di per sé soli una rilevanza tale da consentire di addebitare allo stesso sic et simpliciter la perdita.
Il risultato negativo di esercizio non è conseguenza immediata e diretta della mancata o dell’irregolare tenuta delle scritture contabili, ma del compimento da parte dell’amministratore di un atto di gestione contrario ai doveri di diligenza, prudenza, ragionevolezza e corretta gestione.
È onere di colui che afferma l’esistenza di una responsabilità dell’amministratore allegare specificamente l’atto o gli atti contrari ai doveri gravanti sull’amministratore, dimostrare l’esistenza di tale atto e del danno al patrimonio sociale. Soltanto una volta soddisfatti tali oneri, la mancanza delle scritture contabili rileva quale presupposto per l’utilizzo dei criteri equitativi differenziali. Il potere del giudice di liquidare equitativamente il danno ai sensi dell’art. 1226 c.c. presuppone pur sempre che vi sia la prova dell’esistenza del medesimo e del nesso di causalità ma che la quantificazione del danno non sia agevole; il potere, invece, non può essere esercitato né invocato dal danneggiato quale modalità per aggirare l’onere della prova relativamente agli elementi costitutivi dell’illecito.
Con riguardo alla responsabilità dell’amministratore per la violazione degli obblighi inerenti la conservazione dell’integrità del patrimonio sociale, la quale sia stata compromessa da prelievi di cassa o pagamenti in favore di terzi in assenza di causa, deve ritenersi dimostrata per presunzioni la distrazione del denaro sociale da parte dell’amministratore ove questi non provi la riferibilità alla società delle spese o la destinazione dei pagamenti all’estinzione di debiti sociali.
Revoca giudiziale dell’amministratore di s.p.a.: inapplicabilità del rimedio cautelare di cui all’art. 2476, comma 3, c.c.
Lo strumento tipico che l’ordinamento accorda al socio di minoranza qualificata della spa che sia titolare di una partecipazione pari almeno al 10% al fine di ottenere la revoca giudiziale dell’amministratore è quello previsto dall’art. 2409 c.c. e non se ne possono riconoscere altri. In particolare, al socio di minoranza di spa è dato dal legislatore lo strumento di tutela per conseguire la revoca giudiziale dell’amministratore previsto dall’art. 2409 c.c., si tratta, questa, di una precisa scelta del legislatore che non ha predisposto all’interno della disciplina della spa una norma analoga all’art. 2476 co. 3, c.c. la quale riconosce al socio di minoranza della srl, oltre all’azione di responsabilità dell’amministratore, anche l’azione di revoca dell’amministratore esperibile pure in via cautelare. Il rimedio cautelare tipico accordato al socio della srl dall’art 2476 comma 3 c.c.. non è estensibile alla spa, nemmeno nel quadro attuale che vede l’apertura della tutela ex art 2409 c.c. anche alle srl.. La ratio della diversa disciplina tra spa e srl sta nella diversità del tipo delle due società di capitali; da un lato nella più intensa base personale della srl, nel più stretto rapporto fra i suoi soci e la gestione sociale che giustifica l’attribuzione a ciascun socio (al pari di ciò che si riscontra nella società di persone, art 2259 u.c. c.c.) della facoltà di chiedere la revoca dell’organo gestorio oltre che la facoltà di agire, senza sbarramenti di partecipazione sociale, per far valere la responsabilità sociale dell’amministratore; dall’altro in una più marcata struttura organizzativa retta dal principio di maggioranza della spa, dove il potere di revoca dell’amministratore sta solo in capo alla assemblea ex artt. 2383 e 2393, co 5, c.c. e non al socio di minoranza il quale, se minoranza qualificata, può attivare lo strumento di controllo previsto dall’art. 2409 c.c..
La responsabilità degli amministratori per danni diretti
Il principale elemento di diversità dell’azione individuale di responsabilità rispetto all’azione sociale e a quella dei creditori è rappresentato dall’incidenza diretta del danno sul patrimonio del socio o del terzo. Mentre l’azione sociale è finalizzata al risarcimento del danno al patrimonio sociale, che incide soltanto indirettamente sul patrimonio dei soci per la perdita di valore delle loro azioni e l’azione dei creditori sociali mira al pagamento dell’equivalente del credito insoddisfatto a causa dell’insufficienza patrimoniale cagionata dall’illegittima condotta degli amministratori, e quindi ancora riguarda un danno che costituisce il riflesso della perdita patrimoniale subita dalla società, l’azione di responsabilità per danni diretti postula la lesione di un diritto soggettivo patrimoniale del socio o del terzo che non sia conseguenza del depauperamento del patrimonio della società.
Il criterio del danno diretto non serve dunque a delimitare l’ambito applicativo delle conseguenze risarcibili ex art. 1223 c.c. (ossia il quantum), ma le condizioni dell’azione ex art. 2395 c.c. (an debeatur), per distinguerla dalle azioni pertinenti ai pregiudizi che, riguardando indistintamente i soci e il ceto creditorio, sono assoggettate al diverso regime ex artt. 2393 e 2394 c.c. L’avverbio “direttamente” delimita l’ambito di esperibilità dell’azione ex art. 2395 c.c. rispetto alle fattispecie disciplinate dagli artt. 2393 e 2394 c.c., rendendo palese che il discrimine tra le stesse non va individuato nei presupposti stabiliti dalla legge per il sorgere di tali forme di responsabilità – che consistono pur sempre nella violazione, dolosa o colposa, dei doveri a essi imposti dalla legge o dall’atto costitutivo –, ma nelle conseguenze che il comportamento illegittimo ha determinato nel patrimonio del socio o del terzo. Se il danno allegato costituisce solo il riflesso di quello cagionato al patrimonio sociale si è al di fuori dell’ambito di applicazione dell’art. 2395 c.c., in quanto tale norma richiede che il danno abbia investito direttamente il patrimonio del socio o del terzo.
L’insufficienza patrimoniale di cui agli artt. 2394 e 2476, co. 6, c.c. è una condizione di squilibrio patrimoniale più grave e definitiva della semplice insolvenza e cioè l’obiettiva insufficienza del patrimonio sociale a soddisfare integralmente i creditori e non la pura e semplice incapacità di adempiere regolarmente, cioè alla scadenza e con mezzi normali, e deve risultare da fatti sintomatici di assoluta evidenza, oggettivamente percepibili dai creditori, quali, ad esempio, la chiusura della sede, l’approvazione di bilanci fortemente passivi, o l’assenza di cespiti suscettibili di espropriazione forzata.
Amministratore di società di capitali: natura del rapporto e responsabilità per irregolare tenuta della contabilità
La prestazione dell’amministratore non può essere assimilata a quella di un lavoratore subordinato o parasubordinato ovvero di un prestatore d’opera, non essendo essa soggetta ad alcun coordinamento o eterodirezione (neppure da parte dell’assemblea dei soci). Il rapporto tra la società e l’amministratore va, invece, ricondotto nell’ambito dei rapporti societari cui fa riferimento l’articolo 3, comma 2, lett. a) del D. Lgs. 168 del 2003. Da tale inquadramento giuridico del rapporto negoziale deriva l’inapplicabilità dell’articolo 36 Cost. e la conseguente natura derogabile del diritto al compenso spettante all’amministratore, e così: (i) il rapporto societario di amministrazione può configurarsi anche come contratto a titolo gratuito; (ii) il diritto al compenso è rinunciabile da parte dell’amministratore, anche tacitamente, mediante un comportamento concludente che riveli in modo univoco la sua effettiva e definitiva volontà dismissiva del diritto. In linea generale, nel rapporto interno con l’amministratore e sul piano contrattuale, le scelte negoziali per conto della società sono assunte ed espresse dai soci, ai quali spetta ex lege il potere di nominare e revocare gli amministratori e di determinarne, eventualmente, il compenso (artt. 2364, comma 1, n. 3 e 2389, comma 1 c.c.). Pertanto, al fine di individuare le modalità di regolamentazione del rapporto contrattuale con l’amministratore, occorre fare riferimento a quegli atti attraverso i quali, nell’ambito dell’organizzazione societaria, si manifesta la volontà dei soci con particolare riferimento al rapporto di amministrazione. Sovviene, in primo luogo, lo statuto della società, cui l’amministratore, nell’accettare la nomina, aderisce. In secondo luogo viene in considerazione la delibera assembleare di nomina degli amministratori, la quale: (i) laddove lo statuto attribuisca loro il diritto al compenso, può determinarne la misura; (ii) ove invece lo statuto preveda un diritto al compenso condizionato o non preveda alcunché, la stessa può deliberare l’attribuzione di emolumenti in favore degli amministratori, determinandone eventualmente l’ammontare ovvero ancora (iii) può non prevedere nulla al riguardo. In ultima istanza devono essere considerate le eventuali deliberazioni assembleari successive, laddove i soci, in corso di svolgimento del rapporto, eventualmente sollecitati in tal senso dagli amministratori stessi, abbiano stabilito l’attribuzione del compenso loro dovuto o anche solo il suo eventuale ammontare.
L’irregolare tenuta della contabilità non genera in sé un danno. La contabilità registra gli accadimenti economici che interessano l’attività dell’impresa, non li determina; ed è da quegli accadimenti che deriva il deficit patrimoniale, non certo dalla loro (mancata o scorretta) registrazione in contabilità. Può dunque condividersi l’affermazione secondo cui l’omessa tenuta della contabilità integra la violazione di specifici obblighi di legge in capo agli amministratori, ed è vero che tale violazione risulta di per sè (almeno potenzialmente) idonea a tradursi in un pregiudizio per il patrimonio sociale, ma il fatto che l’amministratore sia venuto meno ai suoi doveri di corretta redazione e di conservazione della contabilità non giustifica che venga posto a suo carico l’onere di provare la non dipendenza di quel deficit patrimoniale dall’inadempimento, da parte sua, di ulteriori ma non meglio specificati obblighi.
Azione di responsabilità esercitabile dal curatore ex art. 146 L.F. tra azione sociale e azione dei creditori sociali
L’azione esercitabile dal curatore ex art. 146 L.F., in cui confluiscono, pur mantenendo i propri caratteri e la propria disciplina, tanto l’azione sociale di responsabilità ex art. 2393 c.c., quanto l’azione di responsabilità esperibile dai creditori ex art. 2934 c.c., ha carattere unitario e inscindibile, con la conseguenza che le due azioni che la compongono non possono essere separate.
In presenza di una clausola compromissoria statutaria devolvente in arbitri le controversie proposte nei confronti degli amministratori, questi non possono eccepire l’incompetenza dell’autorità giudiziaria ordinaria in relazione all’azione di responsabilità esperita dal curatore ex art. 146 L.F., poiché, ricomprendendo tale azione sia l’azione di responsabilità sociale ex art. 2393 c.c. sia l’azione di responsabilità vero i creditori ex art. 2394 c.c., l’autorità giudiziaria ordinaria resta competente a conoscere quest’ultima, cui la prima è inscindibilmente attratta.
L’avvenuta prescrizione quinquennale dell’azione sociale di responsabilità ex art. 2393 c.c. non preclude la proponibilità, da parte del curatore, dell’azione di responsabilità ex art. 146 L.F., posto che tale azione comula in sé tanto l’azione sociale di responsabilità quanto l’azione di responsabilità verso i creditori e che, in relazione a quest’ultima, il termine prescrizionale di cinque anni decorre non dalla cessazione della carica degli amministratori, ma dal momento in cui il ceto creditorio è reso edotto dell’insufficienza patrimoniale della società debitrice (quindi, nel caso di specie, dal momento della dichiarazione di fallimento e non dalla precedente domanda di concordato, che invece presuppone solo uno stato di crisi, inidoneo a far decorrere il termine prescrizionale).
Azione di responsabilità sociale nei confronti dell’ amministratore delegato
L’amministratore delegato che conclude contratti per conto della società a costi superiori rispetto a quelli necessari, percependo indebitamente denaro tramite provvigioni, si espone a un’azione di responsabilità sociale nei suoi confronti ai sensi degli artt. 2392 c.c. e 2393 c.c. per mala gestio.
In aggiunta al risarcimento danni dovuto alla società interessata, è possibile stimare un risarcimento legato alla perdita di immagine e di reputazione commerciale ai sensi dell’art. 2059 c.c., che ammette il ristoro del danno non patrimoniale nei casi previsti dalla legge e, dunque, anche nei casi di fatti lesivi costituenti reato o che incidano su una situazione giuridica soggettiva della persona, sia essa fisica o giuridica, tale da pregiudicare i diritti fondamentali costituzionalmente garantiti.
La quantificazione del danno nell’azione di responsabilità
L’azione sociale di responsabilità si configura come un’azione risarcitoria volta a reintegrare il patrimonio sociale in conseguenza del suo depauperamento cagionato dagli effetti dannosi provocati dalle condotte, dolose o colpose, degli amministratori, poste in essere in violazione degli obblighi su di loro gravanti in forza della legge e delle previsioni dell’atto costitutivo ovvero dell’obbligo generale di vigilanza o dell’altrettanto generale obbligo di intervento preventivo e successivo. Per gli amministratori di una società a responsabilità limitata, al pari di quelli delle società per azioni, è richiesta non la generica diligenza del mandatario, cioè quella tipizzata nella figura dell’uomo medio, ma quella desumibile in relazione alla natura dell’incarico e alle specifiche competenze, cioè quella speciale diligenza prevista dall’art. 1176, co. 2, c.c. per il professionista.
La natura contrattuale della responsabilità degli amministratori e dei sindaci verso la società comporta che questa ha soltanto l’onere di dimostrare la sussistenza delle violazioni ed il nesso di causalità fra queste e il danno verificatosi, mentre incombe sugli amministratori e i sindaci l’onere di dimostrare la non imputabilità a sé del fatto dannoso, fornendo la prova positiva, con riferimento agli addebiti contestati, dell’osservanza dei doveri e dell’adempimento degli obblighi loro imposti. Invero, spetta all’attore l’onere dell’allegazione e della prova, sia pure mediante presunzioni, dell’esistenza di un danno concreto, cioè del depauperamento del patrimonio sociale e della riconducibilità della lesione al fatto dell’amministratore inadempiente, quand’anche cessato dall’incarico.
Nell’azione di responsabilità promossa dal curatore a norma dell’art. 146, co. 2, l.fall., la mancata o irregolare tenuta delle scritture contabili, pur se addebitabile all’amministratore convenuto, non giustifica che il danno risarcibile sia determinato e liquidato nella misura corrispondente alla differenza tra il passivo accertato e l’attivo liquidato in sede fallimentare, potendo tale criterio essere utilizzato solo quale parametro per una liquidazione equitativa ove ne sussistano le condizioni, purché l’attore abbia allegato un inadempimento dell’amministratore almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno lamentato, indicando le ragioni che gli hanno impedito l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore medesimo.
Una correlazione tra le condotte dell’organo amministrativo e il pregiudizio patrimoniale dato dall’intero deficit patrimoniale della società fallita può prospettarsi soltanto per quelle violazioni del dovere di diligenza nella gestione dell’impresa così generalizzate da far pensare che proprio in ragione di esse l’intero patrimonio sia stato eroso e si siano determinate le perdite registrate dal curatore, o comunque per quei comportamenti che possano configurarsi come la causa stessa del dissesto sfociato nell’insolvenza.
I cc.dd. criteri del deficit fallimentare e dei netti patrimoniali di cui all’art. 2486, co. 3, c.c. è applicabile anche ai giudizi in corso al momento della entrata in vigore della norma.
Responsabilità di amministratori, sindaci e revisore
Gli elementi costitutivi della fattispecie integrante la responsabilità solidale degli amministratori non esecutivi sono, sotto il profilo oggettivo, la condotta d’inerzia, il fatto pregiudizievole anti doveroso altrui e il nesso causale tra i medesimi e, sotto il profilo soggettivo, almeno la colpa, i cui caratteri risultano indicati all’art. 2392 c.c. La norma stabilisce che la colpa può consistere o nell’inadeguata conoscenza del fatto di altri, il quale in concreto abbia cagionato il danno, o nel non essersi il soggetto con diligenza utilmente attivato al fine di evitare l’evento, aspetti entrambi ricompresi nel concetto di essere immuni da colpa. La regola della responsabilità solidale e presunta come paritaria in capo a tutti i componenti dell’organo gestorio viene meno, però, a fronte della prova della concreta insussistenza o ininfluenza della condotta di taluno nella causazione del danno. Permane ai sensi dell’art. 2381 c.c. il dovere di vigilare sul generale andamento della società rispetto al quale non ha alcun rilievo il difetto di delega, salva la prova che gli altri consiglieri, pur essendosi diligentemente attivati, non abbiano potuto in concreto esercitare detta vigilanza a causa del comportamento ostativo degli altri componenti del consiglio.
I presupposti della responsabilità dei sindaci, in concorso con quella degli amministratori, sono: la commissione, da parte degli amministratori, di un atto di mala gestio, la derivazione causale da tale atto di un danno a carico della società ex art. 2393 c.c., la derivazione di un danno dall’omessa o inadeguata vigilanza sull’operato degli amministratori da parte dei sindaci. Compito essenziale ex art. 2403 c.c. dell’organo di controllo è di verificare, secondo la diligenza professionale ex art. 1176 c.c., il rispetto dei principi di corretta amministrazione, controllando in ogni tempo che gli amministratori compiano la scelta gestoria nell’osservanza di tutte le regole che disciplinano il corretto procedimento decisionale, alla stregua delle circostanze del caso concreto. I doveri di controllo imposti ai sindaci sono contraddistinti da particolare ampiezza, si estendono a tutta l’attività sociale in funzione della tutela e dell’interesse dei soci e di quello concorrente dei creditori sociali. Il sindaco non risponde in modo automatico per ogni fatto dannoso aziendale in ragione della sua mera posizione di garanzia; si esige tuttavia, a fini dell’esonero dalla responsabilità, che egli abbia esercitato o tentato di esercitare l’intera gamma dei poteri istruttori e impeditivi affidatigli dalla legge.
L’esercizio del controllo da parte del revisore nelle società di capitali è finalizzato ad assicurare la verifica della corretta appostazione dei dati contabili nel bilancio della società e, di conseguenza, della corretta gestione contabile dell’ente, al fine di assicurare la conoscibilità, in capo ai terzi, delle effettive modalità di gestione contabile e dell’oggettività del patrimonio. Il revisore nello svolgimento della sua funzione deve necessariamente operare un controllo sulla correttezza e congruità di tutte le voci di bilancio. Proprio in funzione della peculiare ampiezza e incisività del controllo affidato al revisore contabile si prevede che esso risponda, in solido con gli amministratori, nei confronti della società che ha conferito l’incarico di revisione, dei suoi soci e dei terzi per i danni derivanti dall’inadempimento ai loro doveri. Non si tratta di un’ipotesi di responsabilità oggettiva, ma anche il revisore risponde in solido con l’organo gestorio nei limiti del contributo effettivamente dato al danno.
Nell’ipotesi di perdita del capitale e sua riduzione al di sotto del minimo di legge lo scioglimento della società si produce automaticamente e immediatamente, salvo il verificarsi della condizione risolutiva costituita dalla reintegrazione del capitale o della trasformazione regressiva della società, da deliberarsi con le maggioranze richieste per le modificazioni dell’atto costitutivo. Il danno derivante dall’inerzia dell’organo gestorio a fronte della perdita del capitale sociale è un danno per i creditori sociali ed è rappresentato dall’incremento dell’indebitamento ovvero dall’aggravamento della situazione patrimoniale della società (già in situazione di deficit) con conseguente detrimento della prospettiva di soddisfazione per i creditori.
Per quanto attiene alla conservazione del capitale sociale è evidente l’esigenza che per tutta la durata della società persista quell’ammontare di risorse investite dai soci su cui si localizza, in via primaria, il rischio di impresa. In mancanza, nell’ipotesi in cui i soci non abbiano più nulla da perdere, non si può consentire la prosecuzione di un’iniziativa che altrimenti proseguirebbe ad esclusivo rischio di creditori sociali. Occorre in altri termini assicurare in ogni momento della vita sociale che il potere di direzione dell’iniziativa sia controbilanciato dalla esposizione al rischio. Gli artt. 2446 e 2447 c.c. esprimono principi fondamentali della attività economica di impresa in forma sociale: la tempestiva rilevazione di una situazione di crisi, con l’attivazione di procedure idonee a prevenirne l’aggravamento e l’immediato blocco di nuove operazioni imprenditoriali quando non sussista più quel minimo di investimento che è il presupposto per il regime di responsabilità limitata dei soci.
La prescrizione delle azioni di responsabilità contro gli organi sociali: decorrenza e specificità
L’azione di responsabilità proposta dal curatore fallimentare, pur cumulando in sé i profili propri sia dell’azione di responsabilità sociale che dell’azione dei creditori sociali, in relazione alle quali assume contenuto inscindibile e connotazione autonoma, quale strumento di reintegrazione del patrimonio sociale unitariamente considerato a garanzia sia degli stessi soci che dei creditori sociali, implicando quindi una modifica della legittimazione attiva, non muta tuttavia la natura giuridica e i presupposti delle due azioni, che rimangono diversi e indipendenti, essendo quindi diversi, rispetto a ciascuna di esse, i principi che regolano la ripartizione dell’onere della prova e la disciplina della prescrizione.
Tanto l’azione sociale di responsabilità quanto l’azione dei creditori si prescrivono in cinque anni. Tuttavia, mentre il decorso della prescrizione quinquennale dell’azione sociale di responsabilità è regolato dal principio secondo cui essa non decorre sino a quando l’organo amministrativo rimanga in carica, in forza del disposto dell’art. 2941, n. 7, c.c., con la conseguenza che la prescrizione prevista dall’art. 2949, co. 1, c.c. rimane sospesa tra le persone giuridiche e i loro amministratori finché sono in carica per le azioni di responsabilità contro di essi, nell’azione dei creditori sociali il dies a quo della prescrizione quinquennale prevista dall’art. 2949, co. 2, c.c. decorre dal momento in cui i creditori abbiano potuto avere contezza dell’insufficienza patrimoniale, momento che, in caso di fallimento, si presume coincidere con la dichiarazione di insolvenza della società debitrice, salva prova contraria; ricadendo sull’amministratore la prova contraria della diversa data, anteriore, di insorgenza e percepibilità dello stato di incapienza patrimoniale, con la deduzione di fatti sintomatici di assoluta evidenza, la cui valutazione spetta al giudice di merito.
L’azione di responsabilità esercitata dal curatore
Il curatore può far valere la responsabilità degli amministratori della società fallita tanto a mezzo dell’azione sociale, in quanto ve ne siano i presupposti, e cioè il danno prodotto al patrimonio sociale da un atto, colposo o doloso, commesso in violazione ai doveri imposti a loro carico dalla legge o dall’atto costitutivo, quanto a mezzo dell’azione dei creditori sociali, in quanto ve ne siano i presupposti, vale a dire il pregiudizio arrecato al patrimonio sociale, nella misura in cui sia stato reso insufficiente alla integrale soddisfazione dei creditori della società, da un atto commesso con dolo o colpa in violazione degli obblighi funzionali alla conservazione della sua integrità. Le due azioni, ancorché diverse, vengono ad assumere, nell’ipotesi di fallimento, carattere unitario e inscindibile, nel senso che i diversi presupposti e scopi si fondono tra loro al fine di consentire l’acquisizione all’attivo della procedura di quel che è stato sottratto dal patrimonio sociale per fatti loro imputabili. Sicché il curatore fallimentare, quando agisce postulando indistintamente la responsabilità degli amministratori, fa valere sia l’azione che spetterebbe alla società, in quanto gestore del patrimonio dell’imprenditore fallito, sia le azioni che spetterebbero ai singoli creditori, considerate però quali azioni di massa.
L’azione di responsabilità sociale ex art. 2393 c.c. ha natura contrattuale e presuppone un danno prodotto alla società da ogni illecito doloso o colposo degli amministratori per violazione di doveri imposti dalla legge e dall’atto costitutivo, mentre l’azione di responsabilità verso i creditori sociali ex art. 2394 c.c. ha natura extracontrattuale e presuppone l’insufficienza patrimoniale cagionata dall’inosservanza di obblighi di conservazione del patrimonio sociale.
La differenza tra le due tipologie di responsabilità si coglie soprattutto in ciò: solo il creditore di una prestazione contrattualmente dovuta non è tenuto a provare l’imputabilità dell’inadempimento al debitore, sul quale grava l’onere della prova liberatoria, consistente nella dimostrazione che l’inadempimento è dipeso da una causa a lui non imputabile (art. 1218 c.c.). E tuttavia, compete pur sempre al creditore l’onere di allegare l’altrui comportamento non conforme al contratto o alla legge, oltre che di allegare e provare il danno ed il nesso di causalità. A maggior ragione, tali oneri gravano su chi agisce per far valere un’altrui responsabilità extracontrattuale, dovendo egli in aggiunta farsi carico (non solo di allegare, ma altresì) di provare il comportamento del convenuto in violazione del dovere del neminem laedere.
Grava sugli amministratori il dovere di adempiere alle obbligazioni contratte dalla società con regolarità, al fine di evitare che la società abbia danno dai ritardi o dalle omissioni nei pagamenti, ciò quindi al fine di preservare l’integrità del patrimonio sociale. In caso di inadempimento, l’amministratore ha la possibilità di provare la mancanza di provvista in capo alla società per imputare all’impotenza finanziaria il proprio inadempimento. Tuttavia, anche in questo caso, per andare esente da responsabilità, deve dimostrare di aver attivato tutti gli strumenti del caso, dalla convocazione dell’assemblea per affrontare la crisi di liquidità con il versamento di nuova finanza, fino a prendere atto dell’impossibilità della società a proseguire la gestione ordinaria per incapacità a fare fronte con regolarità le obbligazioni tributarie attivando la messa in scioglimento.