Art. 2393 c.c.
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La perdita della continuità aziendale non costituisce una causa di scioglimento (ex art. 2484, n. 2, c.c.)
L’impossibilità di conseguire l’oggetto sociale deve essere attuale, definitiva e irreversibile, dunque tale da rendere inutile la permanenza del vincolo sociale. L’ oggetto sociale cui l’art. 2484, co. 1, n. 2, c.c. si riferisce deve identificarsi nell’attività economica che la società in statuto ha dichiarato di svolgere (art. 2328, co. 2, n. 3, c.c.). Viceversa, non rientra nella fattispecie la sopravvenuta impossibilità di conseguire – non già l’oggetto ma – lo scopo generale di ogni società commerciale, cioè la realizzazione di un profitto (art. 2247 c.c.). Invero, lo scopo della società non può essere confuso con l’attività prevista per conseguirlo non solo per la generale eterogeneità di questi concetti, ma perché lo stesso legislatore opera molto chiaramente la distinzione, sia negli artt. 2328, n. 3, 2463, n. 3, 2437, lett. a, c.c., in cui si parla espressamente di “attività”, sia, soprattutto, nell’art. 2497 quater, lett. a, c.c., dove si pone in alternativa una trasformazione che implica il mutamento del suo scopo sociale, con una delibera della modifica dell’oggetto sociale che consenta l’esercizio di attività che alterino le condizioni economico-patrimoniali della società eterodiretta. Pertanto, l’esercizio diseconomico dell’attività sociale è estraneo all’area applicativa della fattispecie di scioglimento di cui si discorre.
I connotati della fattispecie di scioglimento di cui all’art. 2484, co. 1, n. 2, c.c. sono incompatibili con quella di mancanza di continuità aziendale, come definita generalmente dallo IAS n. 1 e dal Principio di Revisione n. 570. La continuità aziendale è considerata, in relazione al disposto dell’art. 2423 bis, co. 1, n. 1, c.c., quale presupposto, di natura prospettica, di valutazione delle voci di bilancio. Essa consiste nella capacità dell’impresa di continuare a operare come una impresa in funzionamento, dunque in presenza di alternative realistiche alla liquidazione. Se si confronta la nozione di continuità aziendale quale risultante dalle fonti di prassi contabile (IAS n. 1 e dal Principio di Revisione n. 570) e la fattispecie normativa di cui all’ art. 2484, co. 1, n. 2, c.c., ci si avvede del fatto che la perdita del going concern non costituisce una causa di scioglimento.
La fattispecie di scioglimento attiene a una valutazione circa una situazione attuale, definitiva ed irreversibile in cui versa la società, mentre la valutazione circa la sussistenza o la mancanza di continuità aziendale è di natura prospettica, cioè, ha a che fare con previsioni circa il futuro della società in un determinato arco temporale (12 mesi) e, come tale, attiene ad una situazione non definitivamente cristallizzata ed invece tipicamente reversibile. Si tratta di prospettive valutative non compatibili tra loro. Inoltre, nella fattispecie di continuità aziendale rientrano fattori di natura e tipologia disparate, molti dei quali ictu oculi estranei al tema della possibilità/impossibilità di conseguire l’oggetto sociale.
Le fattispecie descritte dall’art. 2484 c.c. sono tipiche e, come tali, esprimono un’esigenza di certezza incompatibile con la natura stessa della valutazione sulla continuità aziendale come connotata nei principi contabili in termini di dubbio significativo, connotazione peraltro che ben si accorda con la natura prognostica della valutazione. Può accadere che un evento considerato quale “indicatore” utilizzabile per la valutazione circa la sussistenza del presupposto della continuità aziendale possa, di fatto e in concreto, determinare la sopravvenuta impossibilità di conseguire l’oggetto sociale. Così è, ad esempio, per eventi catastrofici non adeguatamente assicurati o per la revoca di autorizzazioni amministrative a svolgere l’attività oggetto della società. Tuttavia, in tal caso, è giuridicamente irrilevante, ai fini qui considerati, che esso evento determini il venir meno della continuità aziendale, essendo invece rilevante che determini la sopravvenuta impossibilità di conseguire l’oggetto sociale. E, come tale, esso deve essere specificamente allegato e provato dall’attore che deduce il suo verificarsi come causa di scioglimento della società. Cioè, a fronte di una fattispecie così ampia e tutt’altro che tassativa descritta dalle fonti di prassi contabile, è irrilevante o addirittura fuorviante riferirsi ad essa quando si pretenda l’applicazione di norme che assumono a fattispecie rilevante eventi determinati, linguisticamente designati da significanti diversi, la cui sussistenza o meno bensì rileva ma del tutto indipendentemente dalla circostanza che essi siano eventualmente qualificabili anche in termini di perdita di continuità aziendale. Così è, ad esempio, per l’insufficienza patrimoniale di cui all’art. 2394 c.c., per la discesa del capitale sociale sotto il minimo legale di cui all’art. 2484, co. 1, n. 4, c.c., per il dissesto di cui art. 217, co. 1, n. 4, l.fall. (art. 217, co. 1, n. 4, c.c.i.), per l’insolvenza di cui all’art. 5 l.fall. (art. 2, lett. b, c.c.i.). Così è anche per la situazione di “definitiva perdita della continuità aziendale”, di individuazione pratica e priva di referente normativo preciso, quando, come spesso accade, riferita ad un disequilibrio finanziario tale che l’attività svolta risulterebbe irreversibilmente programmata alla distruzione di ricchezza e alla traslazione del rischio di impresa sui creditori o sia fotografata da bilanci prospettici che presentano cash flow negativi e in presenza di indici economico-finanziari negativi dai quali emergerebbe che l’impresa non è più in condizioni di continuare a realizzare le proprie attività. In tali casi la “definitiva perdita di continuità aziendale” o si risolve in realtà nelle diverse fattispecie normativamente previste di insufficienza patrimoniale, perdita del capitale sociale, insolvenza, dissesto, oppure, ma con diversa rilevanza rispetto al passato, si identifica in una manifestazione di quella prevista dall’art. 2086, co. 2, c.c., che tuttavia non riguarda lo scioglimento della società.
La sistematica del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza conferma il quadro interpretativo appena descritto. Invero, la fattispecie di perdita della continuità aziendale è posta dai principi fondanti previsti in materia – quelli stabiliti dal nuovo secondo comma dell’art. 2086 c.c. – a presupposto dell’obbligo di reazione degli amministratori, in forma di adozione ed attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento, in vista del recupero della continuità aziendale. Con il ché è ribadita sia la natura prognostica del relativo giudizio che la sua reversibilità, connotati questi propri anche del concetto di crisi aziendale, quale definito dall’art. 2, lett. a, c.c.i.
Il concetto normativo di crisi assorbe in sé molti, se non tutti, i parametri finanziari che i principi contabili ascrivono alla continuità aziendale. Se ne ricava che, sul piano normativo, la situazione di perdita di continuità aziendale è definibile per sottrazione dai parametri, criteri e indicatori previsti dai principi contabili e di revisione, di tutte quegli eventi/situazioni di natura finanziaria che oggi vanno ricondotti alla fattispecie “crisi” di cui all’art. 2, lett. a, c.c.i. Ugualmente, situazioni deficit patrimoniale o capitale ridotto al di sotto dei limiti legali andranno ascritte non già alla fattispecie perdita di continuità aziendale, essendo piuttosto da ricondurre alla fattispecie di cui all’art. 2484, co. 1, n. 4, c.c. Né si tratta di distinzioni nominalistiche o inutili, poiché alle diverse fattispecie sopra indicate sono collegate discipline ben diverse in relazione ai poteri e doveri degli amministratori, dei sindaci, dei soci, con altrettanto diverse discipline delle loro responsabilità risarcitorie.
La lettera delle innovazioni apportate dal codice della crisi all’art. 2484, co. 1, c.c. conferma ulteriormente, a contrario (ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit), la superiore ricostruzione ermeneutica. È stata aggiunta una fattispecie ulteriore di scioglimento della società data dalla apertura delle procedure di liquidazione giudiziale e controllata (n. 7 bis). Orbene, considerata l’importanza conferita alla situazione di perdita della continuità aziendale nella sistematica del diritto della crisi e la considerazione della liquidazione come extrema ratio, sembra ovvio inferirne che, se il legislatore avesse voluto fare anche della prima una causa di scioglimento della società l’avrebbe detto, inserendo un’altra ipotesi oltre l’unica invece aggiunta. Tale argomento ben si accorda con l’intenzione del legislatore, essendo del tutto disfunzionale, in vista del recupero della continuità aziendale, prevedere che quando essa fosse persa, la società versi in stato di scioglimento, con il conseguente sorgere, in capo agli amministratori, non solo dell’obbligo di attuazione di uno degli strumenti di soluzione della crisi previsti a quel fine, ma anche dell’innesco della fase liquidatoria ex artt. 2485 e ss. c.c., comportante di per sé dissoluzione di ricchezza ed assai più difficilmente reversibile ex art. 2487 ter c.c.
Azione di responsabilità esercitata dal curatore fallimentare: questioni processuali
L’azione di responsabilità esercitata dal curatore ex art. 146 l. fall. cumula in sé le diverse azioni previste dagli artt. 2393 e 2394 c.c. per le s.p.a. e dall’art. 2476, co. 3 e 6, c.c. per le s.r.l., a favore, rispettivamente, della società e dei creditori sociali, in relazione alle quali assume contenuto inscindibile e connotazione autonoma – quale strumento di reintegrazione del patrimonio sociale unitariamente considerato a garanzia sia degli stessi soci che dei creditori sociali -, implicando una modifica della legittimazione attiva, ma non della natura giuridica e dei presupposti delle due azioni, che rimangono diversi e indipendenti, con conseguente possibilità per il curatore di cumulare i vantaggi di entrambe, sul piano del riparto dell’onere della prova, del regime della prescrizione e dei limiti al risarcimento ed è diretta alla reintegrazione del patrimonio della società fallita, visto unitariamente come garanzia sia per i soci che per i creditori sociali.
L’azione sociale, intrapresa ai sensi dell’art. 2476, co. 3, c.c., mira a far valere la responsabilità degli amministratori per quelle violazioni dei loro doveri che abbiano cagionato un pregiudizio patrimoniale alla società. Questi, infatti, sono chiamati ad adempiere ai doveri ad essi imposti dalla legge e dall’atto costitutivo con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze, esponendosi a responsabilità per i danni derivanti dall’inosservanza dei cennati doveri. L’inadempimento degli amministratori ai loro obblighi può essere fatto valere direttamente dalla società sicché in ipotesi di esercizio della predetta azione nel caso di fallimento, la sostituzione del curatore alla società fallita è una manifestazione specifica del generale effetto per cui il curatore, ai sensi dell’art. 43 l. fall. sta in giudizio nelle controversie relative ai rapporti patrimoniali compresi nel fallimento.
L’insufficienza patrimoniale – cui si ricollega la responsabilità degli amministratori e dei sindaci della società verso i creditori – deve essere individuata nell’eccedenza delle passività sulle attività del patrimonio netto dell’impresa, ovverossia in una situazione in cui l’attivo sociale, raffrontato ai debiti della società, risulti insufficiente al soddisfacimento di questi ultimi. Essa va distinta dall’eventualità della perdita integrale del capitale sociale, dal momento che quest’ultima evenienza può verificarsi anche quando vi è un pareggio tra attivo e passivo perché tutti i beni sono assorbiti dall’importo dei debiti e, quindi, tutti i creditori potrebbero trovare di che soddisfarsi nel patrimonio della società. L’insufficienza patrimoniale è una condizione più grave e definitiva della mera insolvenza, definita dall’art. 5 l. fall. come incapacità di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni, potendosi una società trovare nell’impossibilità di far fronte ai propri debiti ancorché il patrimonio sia integro, così come potrebbe accadere l’opposto, vale a dire che l’impresa possa presentare una eccedenza del passivo sull’attivo, pur permanendo nelle condizioni di liquidità e di credito richieste (per esempio ricorrendo ad ulteriore indebitamento).
Il criterio dello sbilancio fallimentare può prospettarsi soltanto per quelle violazioni del dovere di diligenza nella gestione dell’impresa così generalizzate da far pensare che proprio in ragione di esse l’intero patrimonio sia stato eroso e si siano determinate le perdite registrate dal curatore; o comunque per quei comportamenti che possano configurarsi come la causa stessa del dissesto sfociato nell’insolvenza. Il giudice non può pervenire in via automatica ad una liquidazione equitativa del danno secondo tale criterio, ma unicamente laddove il curatore, dopo aver allegato gli inadempimenti dell’amministratore almeno astrattamente idonei a porsi come causa del danno lamentato, indichi le ragioni che gli hanno impedito l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore medesimo.
Responsabilità dell’amministratore di società cooperativa facente parte dei confidi minori per rilascio di fideiussioni in favore del pubblico
È precluso ai cc.dd. confidi minori di cui all’art. 155, co. 4, TUB il rilascio di garanzie in favore del pubblico. La funzione dei confidi minori, infatti, è quella di assicurare alle imprese associate delle garanzie collettive per l’accesso al credito tramite la costituzione di un fondo consortile a cui contribuiscono tutti i soci. Detto fondo è funzionale sia alla costituzione delle garanzie, sia a coprire le perdite derivanti da crediti assistiti da garanzia mutualistica nell’ambito soggettivo dei soci; di conseguenza, la concessione di garanzie a soggetti non soci determina un rischio e una eventuale perdita a carico della cooperativa indebiti. Pertanto, è fondata e va accolta l’azione esercitata dal curatore fallimentare nei confronti dell’amministratore che abbia sottoscritto, in nome e per conto della cooperativa, garanzie a favore di terzi non soci della stessa cooperativa.
Nel caso di deliberazione adottata dall’assemblea di una società, qualora nel relativo verbale sia dato atto della partecipazione di un determinato soggetto, incombe su colui il quale contesta la validità o, addirittura, l’inesistenza di quella assemblea, provare la propria mancata partecipazione alla stessa.
Questione di legittimità costituzionale dell’art. 15, co. 3, d.lgs. n. 39/2010, recante disciplina di favore per i revisori in tema di prescrizione
L’art. 15, co. 3, d.lgs. n. 39/2010, per il quale il dies a quo del termine quinquennale di prescrizione della responsabilità dei revisori deve essere individuato nella data della relazione di revisione sul bilancio emessa al termine dell’attività di revisione cui si riferisce l’azione di risarcimento, costituisce lex specialis, di indubbio favore, che esclude l’applicabilità in via analogica delle regole dettate per l’azione di responsabilità contro gli amministratori e i sindaci con i quali pure il revisore sia chiamato in correità; e che ricomprende indistintamente tutte le azioni risarcitorie, di qualunque natura, esperibili ai sensi del medesimo art. 15 contro il revisore dalla società revisionata come anche dai soci di questa e dai terzi in genere. Tale norma presenta caratteri di possibile illegittimità costituzionale [pertanto, il tribunale ha sollevato, con separata ordinanza, quesitone di legittimità dell’art. 15, co. 3, d.lgs. n. 39/2010].
La mancanza di autorizzazione del giudice delegato al curatore perché intraprenda un giudizio, concernendo un’attività svolta nell’esclusivo interesse del fallimento procedente, è suscettibile di sanatoria con effetto ex tunc, anche mediante successiva autorizzazione nel corso del processo, purché l’inefficacia degli atti non sia stata nel frattempo già accertata e sanzionata dal giudice.
L’atto di citazione, pur se invalido come domanda giudiziale, inidoneo cioè a produrre effetti processuali, può tuttavia valere come atto di costituzione in mora, ed avere perciò l’efficacia interruttiva della prescrizione, qualora, per il suo specifico contenuto e per i risultati cui è rivolto, possa essere considerato come richiesta scritta stragiudiziale di adempimento rivolta dal creditore al debitore ex art. 2943, co. 4, c.c.
L’azione di responsabilità esercitata dal curatore ex art. 146 l.fall. cumula in sé le diverse azioni previste dagli artt. 2393 e 2394 c.c. a favore, rispettivamente, della società e dei creditori sociali, in relazione alle quali assume contenuto inscindibile e connotazione autonoma quale strumento di reintegrazione del patrimonio sociale unitariamente considerato a garanzia sia degli stessi soci che dei creditori sociali. L’azione ex art. 146 l.fall. implica una modifica della legittimazione attiva, ma non della natura giuridica e dei presupposti delle due azioni, che rimangono diversi ed indipendenti; tant’è che il curatore può, anche separatamente, formulare le domande risarcitorie in commento, una di natura contrattuale (l’azione sociale di responsabilità), l’altra di natura extracontrattuale (l’azione di responsabilità verso i creditori). Tali azioni non perdono la loro originaria identità giuridica, rimanendo tra loro distinte sia nei presupposti di fatto, che nella disciplina applicabile, differenti essendo la distribuzione dell’onere della prova, i criteri di determinazione dei danni risarcibili ed il regime di decorrenza del termine di prescrizione.
L’azione sociale di responsabilità ex art. 2393 c.c. si prescrive nel termine di cinque anni; il termine, in applicazione del principio generale di cui all’art. 2935 c.c., decorre dal momento in cui il danno diventa oggettivamente percepibile all’esterno, manifestandosi nella sfera patrimoniale della società; il decorso rimane sospeso per l’amministratore, a norma dell’art. 2941, n. 7, c.c., fino alla cessazione dalla carica. L’azione di responsabilità dei creditori sociali ex art. 2394 c.c. si prescrive nel termine di cinque anni; il termine decorre dal momento dell’oggettiva percepibilità, da parte dei creditori, dell’insufficienza del patrimonio sociale, per l’inidoneità dell’attivo, raffrontato alle passività, a soddisfare i loro crediti. In ragione della onerosità della prova gravante sulla procedura che agisce, sussiste una presunzione iuris tantum di coincidenza tra il dies a quo di decorrenza della prescrizione dell’azione de qua e la dichiarazione di fallimento, ricadendo sugli amministratori convenuti l’onere di fornire prova contraria della diversa data anteriore di conoscibilità dello stato di incapienza patrimoniale, con la deduzione di fatti sintomatici di assoluta evidenza.
Concessione abusiva di credito e responsabilità degli amministratori
La concessione abusiva di credito è una fattispecie plurioffensiva, in quanto può determinare: (i) un danno al patrimonio dell’impresa finanziata per le perdite maturate nel periodo in cui la dichiarazione d’insolvenza è stata dilazionata; (ii) un danno ai creditori sociali per il minor incasso conseguito; (iii) una sanzione penale per gli amministratori della società fallita e gli eventuali concorrenti. In apparenza il comportamento della banca è contrario ai suoi stessi interessi, posto che il cliente in difficoltà difficilmente restituisce il denaro prestato; pertanto, è la banca stessa ad aver interesse a valutare con prudenza se concedere o meno il prestito. Il fatto di procrastinare l’apertura di una procedura concorsuale può, però, derivare da una scelta consapevole dell’istituto di credito, che spera così di recuperare i propri crediti in violazione della par condicio, o di porre al riparo da azioni revocatorie i pregressi rientri e la costituzione di diritti di prelazione. Il finanziamento potrebbe essere concesso al solo fine di ottenere il consolidamento di garanzie altrimenti revocabili in caso di tempestiva declaratoria d’insolvenza o, più genericamente per munire di garanzia un precedente credito chirografario con l’ulteriore conseguenza che il mutuo fondiario potrebbe essere accordato in modo distorto solo per ripianare debiti preesistenti. Invero, la concessione abusiva di credito ha confini labili, in quanto è anche vero che la banca potrebbe incorrere in responsabilità per brutale interruzione dell’erogazione del credito, in violazione del dovere di buona fede negoziale, rischiando così di essere attaccata su entrambi i fronti.
In tema di concessione abusiva del credito, in relazione alla condotta tenuta dall’istituto di credito occorre distinguere le situazioni in cui quest’ultimo concede fisiologicamente sostegno alle imprese in difficoltà, in vista di un potenziale risanamento, da quelle in cui il sostegno è fornito a imprese ormai insolventi, allo scopo di ottenere vantaggi a scapito degli altri creditori; è necessario provare che l’istituto di credito sapeva o poteva sapere (secondo la diligenza professionale) che il sovvenuto versava in uno stato di dissesto.
L’erogazione del credito qualificabile come abusiva, poiché effettuata a impresa senza concrete prospettive di superamento della crisi, integra un illecito del finanziatore, per essere venuto meno ai suoi doveri di prudente gestione, con conseguente obbligo di risarcimento del danno, ove ne discenda l’aggravamento del dissesto favorito dalla continuazione dell’attività.
La curatela è legittimata ad agire contro la banca responsabile di aver danneggiato il patrimonio della società fallita, in concorso con i suoi amministratori, avendo erogato credito in condizioni di accertata perdita del capitale sociale e in carenza di adeguata valutazione del merito creditizio e, a tal proposito, il curatore può allegare sia il danno diretto subìto dall’impresa a causa del finanziamento, sia il pregiudizio sofferto dall’intero ceto creditorio, senza la necessità che l’azione venga promossa congiuntamente contro l’istituto di credito e (se l’impresa era una società) gli amministratori.
Sussiste una responsabilità concorrente della banca, ai sensi dell’art. 2055 c.c., nella mala gestio degli amministratori per aver provocato l’aggravamento del dissesto per richiesta e concessione abusiva di credito (volta a soddisfare un interesse della banca a danno degli altri creditori), mentre non integra una ipotesi di responsabilità concorrente la concessione abusiva del credito in sé, causata da una inadeguata valutazione del rischio creditizio.
Al fine di stabilire se la perdita dell’esercizio abbia eroso il capitale sociale, riducendolo al di sotto di un terzo (con le conseguenze di cui all’art. 2446 c.c.), è necessario considerare la perdita eccedente le riserve esistenti in bilancio. Nello svolgere tale analisi, è necessario tener conto della c.d. gerarchia delle riserve: dapprima si ricorre alle riserve maggiormente disponibili sino ad arrivare alle riserve meno disponibili: 1) riserve facoltative e straordinarie; 2) riserve statutarie; 3) riserva da rivalutazione; 4) versamento in conto capitale da parte dei soci; 5) riserva legale; 6) capitale sociale.
Sulla prescrizione dell’azione di responsabilità esercitata dal curatore fallimentare ex art. 146 LF
L’azione di responsabilità esercitata dal curatore fallimentare ai sensi dell’art. 146 LF, salvo che risulti diversamente, assomma in sé quella sociale (art. 2393 c.c.) e quella dei creditori (art. 2394 c.c.) – ciascuna mantenendo le caratteristiche sue proprie – e di conseguenza il diritto al risarcimento può considerarsi estinto solo se è decorso il termine quinquennale per ambedue le azioni. A tal riguardo il diritto al risarcimento che spetta alla società verso gli amministratori si estingue dopo cinque anni dalla cessazione del mandato di gestione, mentre il diritto al risarcimento che spetta ai creditori si prescrive in cinque anni dall’evidenza dell’insufficienza patrimoniale colpevolmente provocata dagli organi sociali.
L’azione revocatoria non è soggetta alla competenza delle sezioni specializzate in materia di impresa
L’azione revocatoria ex art. 2901 c.c., in quanto volta a provocare soltanto l’inefficacia c.d. relativa di un atto di disposizione patrimoniale, non incide sull’assetto della società e sull’entità del suo patrimonio, sicchè la relativa controversia non va ricompresa tra quelle devolute alla competenza funzionale inderogabile della sezione specializzata, neppure tra quelle relative ai rapporti societari lato sensu intesi. Le sezioni specializzate non sono competenti a conoscere della suddetta azione, neppure per ragioni di connessione, ove detta azione sia esercitata cumulativamente a quella di responsabilità degli amministratori. Infatti, tra le due azioni sussistono elementi di mera connessione soggettiva e non anche di connessione oggettiva e/o qualificata di cui agli artt. 31, 32, 34 e 35 c.p.c.
In caso di fallimento di una società, la clausola compromissoria contenuta nello statuto della stessa non è applicabile all’azione di responsabilità proposta unitariamente dal curatore ai sensi dell’art. 146 l.fall. diretta alla reintegrazione del patrimonio sociale a garanzia sia dei soci che dei creditori sociali e nella quale confluiscono sia l’azione prevista dall’art. 2393 c.c., che quella di cui all’art. 2394 c.c., in riferimento alla quale la clausola compromissoria non può operare poiché i creditori sono terzi rispetto alla società.
Responsabilità di amministratori, sindaci e revisore per prosecuzione dell’attività a seguito di perdita di capitale
Compito essenziale del collegio sindacale ex art. 2403 c.c. è il controllo, secondo la diligenza professionale ex art. 1176, co. 2, c.c., del rispetto da parte dell’organo gestorio dei principi di corretta amministrazione, verificando in ogni tempo che gli amministratori compiano scelte nell’osservanza delle regole che disciplinano il corretto procedimento decisionale, alla stregua delle circostanze del caso concreto. Dunque, il controllo sindacale deve essere accurato e penetrante e deve esplicarsi anche nella richiesta agli amministratori di notizie sull’andamento delle operazioni sociali o su determinati affari, riguardando qualsiasi aspetto organizzativo, amministrativo e contabile. Si tratta di controllo non meramente formale, ma coinvolgente anche la legittimità sostanziale dell’intera attività sociale (non solo dell’operato degli amministratori), con verifica dell’osservanza della legge e dell’atto costitutivo , senza però estendersi all’esame dell’opportunità e della convenienza delle singole scelte gestorie, il cui apprezzamento è riservato alla competenza esclusiva degli amministratori (salvo il caso di scelte gestorie palesemente arbitrarie e irrazionali).
Le norme, sulla cui osservanza i sindaci sono tenuti a vigilare, sono poste, oltre che nell’interesse dei soci e della società, anche nell’interesse, concorrente o esclusivo, dei creditori sociali e a tutela di tali interessi ai sindaci sono riconosciuti dal legislatore numerosi strumenti di reazione e rimedi idonei ad evitare la prosecuzione di condotte gestorie dannose e impedire l’acuirsi del pregiudizio subito dalla società e dai creditori, quali la richiesta di informazioni o di ispezione ex art. 2403 bis c.c., la segnalazione all’assemblea delle irregolarità riscontrate, i solleciti alla revoca della deliberazione illegittima, l’impugnazione della deliberazione viziata ex artt. 2377 ss. c.c., la convocazione dell’assemblea ai sensi dell’art. 2406 c.c., il ricorso al tribunale per la riduzione del capitale per perdite ex artt. 2446-2447 c.c., il ricorso al tribunale per la nomina dei liquidatori ai sensi dell’art. 2487 c.c. e, ove siano riscontrabili gravi irregolarità gestionali, il ricorso al rimedio giurisdizionale di cui all’art 2409 c.c.
La responsabilità dei sindaci, in solido con gli amministratori, ai sensi dell’art 2407, co. 2, c.c., presuppone dunque non solo che i primi non abbiano ottemperato ai doveri di vigilanza inerenti alla loro carica, ma anche l’esistenza di un nesso di causalità tra le violazioni addebitate e il danno accertato, onde i sindaci possono essere chiamati a rispondere delle perdite patrimoniali della società solo nel caso e nella misura in cui queste ultime siano ad essi (e al loro mancato intervento) direttamente imputabili.
La clausola di arbitrato contenuta nello statuto sociale è opponibile al curatore che agisce ex art 146 l.fall. con riferimento alla sola azione ex art. 2393 c.c., trattandosi di azione sociale che colloca il curatore nella medesima posizione della società in bonis verso gli amministratori e i sindaci, mentre non è opponibile al curatore che agisca ex art 2394 c.c., essendo i creditori sociali estranei al rapporto che si instaura fra la società e i propri organi.
I consiglieri non operativi, in assenza di specifici indici di allarme, non risultano onerati da alcun generale obbligo di vigilare sull’operato dell’amministratore delegato e di acquisire informazioni ulteriori rispetto a quelle necessarie per gli atti di loro competenza, quali in primo luogo la redazione del bilancio. Poiché il compito relativo alla redazione del bilancio di esercizio non può essere oggetto di delega in favore di uno o più componenti del CdA e, secondo quanto disposto dall’art. 2423 c.c., gli amministratori sono collegialmente tenuti a redigere il bilancio secondo i principi ex lege previsti, consegue che tutti gli amministratori, anche quelli privi di deleghe, sono solidalmente responsabili quanto al rispetto degli obblighi di legge inerenti alla redazione del bilancio, fra i quali l’obbligo di attenersi ai principi di veridicità e chiarezza.
Ai sensi dell’art. 15 d. lgs. 39/2010, i revisori legali e la società di revisione legale rispondono, in solido tra loro e con gli amministratori, nei confronti della società che ha conferito l’incarico di revisione legale, dei suoi soci e dei terzi per i danni derivanti dall’inadempimento dei loro doveri. Trattasi di una fattispecie di responsabilità civile per fatto proprio colposo o doloso dei revisori commesso nell’esercizio dell’attività di controllo contabile loro demandato, ancorché solidale con quella degli amministratori e, in quanto tale, presuppone l’accertamento di: (i) l’inadempimento dei revisori ai loro doveri attraverso la violazione delle regole tecniche e dei principi internazionali di revisione, oltre che delle comuni regole di diligenza e prudenza nell’accertamento della corrispondenza alla realtà della rappresentazione contabile dei fatti di gestione; (ii) il pregiudizio economico arrecato dal mancato rilievo della discrepanza tra la situazione patrimoniale, economica e finanziaria reale della società e quella rappresentata nei bilanci attestati senza rilievi; (iii) il nesso causale tra la condotta inadempiente e il pregiudizio economico, in modo tale che quest’ultimo costituisca, ai sensi dell’art. 1223 c.c., conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento da parte dei revisori ai loro doveri. Affinché il danno lamentato sia imputabile alla società di revisione è indispensabile, dunque, la prova del nesso eziologico tra la violazione dei doveri di controllo ed il pregiudizio economico lamentato.
L’azione sociale di responsabilità è compromettibile in arbitri
La controversia promossa dalla società nei confronti degli amministratori per ottenere il risarcimento del danno derivante dalle loro condotte di mala gestio verte su un diritto patrimoniale disponibile, tant’è che può essere oggetto di rinuncia o transazione da parte della società, ai sensi dell’art. 2393, co. 6, c.c., sia pure con le limitazioni poste a tutela dell’iniziativa dei soci di minoranza. Tale facoltà è espressamente riconosciuta anche ai soci di minoranza che agiscano in legittimazione sostitutiva ai sensi dell’art. 2393 bis c.c., il quale prevede espressamente, al sesto comma, che i soci che hanno agito possono rinunciare all’azione o transigerla a vantaggio della società.
Le limitazioni al potere di transazione e rinuncia all’azione di responsabilità da parte dell’assemblea dei soci sono poste al fine di evitare la possibile vanificazione dell’azione risarcitoria proposta dai soci di minoranza a favore della società da parte dei soci di maggioranza, di cui normalmente gli amministratori sono espressione, nel preminente interesse della società alla reintegrazione del suo patrimonio compromesso dalla mala gestio. Si tratta, dunque, di limitazioni interne all’assemblea che non sono poste a tutela dell’interesse di terzi estranei alla compagine sociale. Conseguentemente, trattandosi di diritti disponibili, le relative controversie sono compromettibili in arbitri.
Responsabilità di amministratori e sindaci di s.p.a.
L’azione sociale di responsabilità, anche se esercitata dal curatore fallimentare, ha natura contrattuale, in quanto trova la sua fonte nell’inadempimento dei doveri imposti agli amministratori dalla legge o dall’atto costitutivo, ovvero nell’inadempimento dell’obbligo generale di vigilanza o dell’altrettanto generale obbligo di intervento preventivo e successivo. Ne consegue che, mentre sull’attore grava esclusivamente l’onere di dimostrare la sussistenza delle violazioni agli obblighi, il nesso di causalità tra queste e il danno verificatosi, incombe, per converso, sugli amministratori l’onere di dimostrare la non imputabilità a sé del fatto dannoso, fornendo la prova positiva, con riferimento agli addebiti contestati, dell’osservanza dei doveri e dell’adempimento degli obblighi loro imposti. In altre parole, l’inadempimento si presumerà colposo e, quindi, non spetterà al curatore fornire la prova della colpa degli amministratori, mentre spetterà al convenuto amministratore evidenziare di avere adempiuto il proprio compito con diligenza ed in assenza di conflitto di interessi con la società, ovvero che l’inadempimento è stato determinato da causa a lui non imputabile ex art. 1218 c.c., ovvero, ancora, che il danno è dipeso dal caso fortuito o dal fatto di un terzo.
Di contro, l’azione spettante ai creditori sociali ai sensi dell’art. 2394 c.c. costituisce conseguenza dell’inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale, la cui natura extracontrattuale presuppone l’assenza di un preesistente vincolo obbligatorio tra le parti e un comportamento dell’amministratore funzionale a una diminuzione del patrimonio sociale di entità tale da rendere lo stesso inidoneo per difetto ad assolvere la sua funzione di garanzia generica (art. 2740 c.c.), con conseguente diritto del creditore sociale di ottenere, a titolo di risarcimento, l’equivalente della prestazione che la società non è più in grado di compiere e ciò nei limiti della somma che, in assenza delle condotte di mala gestio commesse dagli amministratori, avrebbe ricevuto.
Al di fuori delle ipotesi di condotte dolosamente poste in essere a danno della società, non possono di regola essere considerate, come fonte di responsabilità contrattuale nei confronti della società, quelle scelte e quelle iniziative imprenditoriali o gestionali degli organi amministrativi, quand’anche risultate in concreto economicamente poco positive, che rientrino nell’ambito del normale esercizio della libertà imprenditoriale e nel rischio di impresa. I risultati negativi della gestione non determinano responsabilità in capo all’organo amministrativo, in quanto le scelte imprenditoriali presuppongono una valutazione di opportunità e di convenienza, che attiene all’ambito della discrezionalità e come tale è sottratta al giudizio del giudice.
Le scelte gestionali connotate da discrezionalità soggiacciono alla c.d. business judgement rule, secondo la quale è preclusa al giudice la valutazione del merito di quelle scelte ove queste siano state effettuate con la dovuta diligenza nell’apprezzamento dei loro presupposti, delle regole di scienza ed esperienza applicate e dei loro possibili risultati, essendo consentito al giudice soltanto di sanzionare le scelte negligenti o addirittura insensate, macroscopicamente ed evidentemente dannose ex ante. In particolare, la mancata o tardiva predisposizione dei bilanci da sottoporre all’approvazione dell’assemblea, pur costituendo indubbiamente una violazione dei doveri di diligenza dell’organo amministrativo, di carattere formale, non determina in re ipsa la responsabilità dell’amministratore nei confronti dei soci e della massa dei creditori, dovendosi allegare e comprovare che da tale omissione sia derivato un danno risarcibile.
Con riferimento ai sindaci, questi ultimi rispondono non per il fatto in sé che il danno sia stato dagli amministratori cagionato, ma solo in quanto sia configurabile, a loro carico, la violazione di un obbligo inerente alla loro funzione e, in particolare, dell’obbligo di vigilare sull’amministrazione della società con la diligenza richiesta dal primo comma dell’art. 2407 c.c., di denunziare le irregolarità riscontrate e di assumere le iniziative sostitutive o conseguenti. La responsabilità dei sindaci è, quindi, limitata ai danni derivanti da quegli illeciti che i sindaci avrebbero potuto o dovuto impedire esercitando, in maniera diligente, il loro controllo e, per converso, è esclusa per i danni, derivanti da comportamenti degli amministratori che i sindaci vigilando con professionalità e diligenza non avrebbero comunque in alcun modo potuto evitare.
L’esistenza di un debito contestato determina la necessità della formazione di un fondo rischi, in cui devono essere rappresentate le passività di natura determinata e di probabile esistenza, i cui valori deve essere stimati, trattandosi di passività potenziali connesse a situazioni già esistenti alla data di bilancio, ma caratterizzate da uno stato d’incertezza. La valutazione del rischio di effettiva sussistenza di passività non ancora determinate al momento di chiusura dell’esercizio consiste non nel rilievo di una vicenda gestoria oggettivamente già conclusa, ma nell’apprezzamento ex ante delle probabilità/possibilità di evoluzione di una situazione. La correttezza di tale apprezzamento, spettante in primis all’organo amministrativo quale redattore della bozza di bilancio e poi all’assemblea dei soci all’atto dell’approvazione del documento contabile, non è dunque ancorata a dati oggettivi, ma va rapportata ai canoni generali di prudenza e ragionevolezza sottesi alla redazione del bilancio, la cui violazione può, pertanto, portare a far ritenere scorretta la valutazione e, conseguentemente, inficiato il bilancio da carenze quanto all’appostazione di fondo rischi e, quindi, contrastante anche con il principio di verità.
È estensibile ad altri tipi di società di capitali il disposto di cui all’art. 2467 c.c. che, nelle s.r.l., prevede la postergazione del rimborso del finanziamento del socio concesso in situazioni che renderebbero necessario un conferimento, perché la ratio della norma consiste nel contrastare i fenomeni di sottocapitalizzazione nominale delle società chiuse. Tale disciplina deve trovare pertanto trovare applicazione anche al finanziamento del socio di una s.p.a., qualora le condizioni della società siano a quest’ultimo note, per lo specifico assetto dell’ente o per la posizione da lui concretamente rivestita, quando essa sia sostanzialmente equivalente a quella del socio di una s.r.l.