Art. 2395 c.c.
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La legge applicabile all’azione di responsabilità promossa ex art. 2395 c.c. nei confronti dell’amministratore di società costituite e aventi sede all’estero
L’azione di responsabilità promossa ex art. 2395 c.c. dal socio nei confronti dell’amministratore di società controllate costituite e aventi sede all’estero può essere proposta davanti al giudice italiano ai sensi dell’art. 7, n. 2, del Regolamento UE n. 1215/2012, ove secondo la prospettazione dell’attrice, l’evento dannoso abbia avuto luogo nel territorio italiano.
L’azione di responsabilità ai sensi dell’art. 2395 c.c. promossa nei confronti di un amministratore di società controllate straniere è regolata dalla lex societatis ai sensi dell’art. 25 della legge n. 218/1995 deve essere regolata dalla legge straniera ai sensi dell’art. 25 comma 1, lett. i), della legge n. 218/1995. Tale conclusione appare condivisibile, poiché l’art. 2395 c.c., pur costituendo un’applicazione dell’art. 2043 c.c., presenta rispetto a quest’ultima azione due peculiarità in punto di decorrenza del termine di prescrizione e di limitazione del danno risarcibile e si colloca a chiusura di un sistema speciale di responsabilità dettato dal legislatore con riferimento all’amministratore di una società proprio in ragione della carica ricoperta, nel quale le dinamiche endosocietarie influenzano l’applicazione dei principi generali in tema di responsabilità. L’azione ex art. 2395 c.c., infatti, non è applicabile a qualsiasi condotta dell’amministratore, ma solo alle azioni o alle omissioni che egli pone in essere nell’esercizio o in occasione del suo ufficio, cosicché vi è comunque un riferimento alla materia societaria che giustifica l’applicazione della norma di conflitto di cui all’art. 25 della legge n. 218/1995.
Società di persone: usufrutto di quote, venir meno della pluralità dei soci e applicazione analogica dell’art. 2395 cod. civ.
Non v’è incompatibilità fra accettazione con beneficio di inventario e subentro dell’erede nella qualità di socio illimitatamente responsabile in società di persone, e ciò sia nel caso in cui l’acquisto della qualità di socio sia intervenuto in forza di una clausola statutaria c.d. di continuazione automatica, sia nel caso in cui il subentro fosse stato convenuto tra gli eredi e i soci superstiti con un accordo ad hoc.
L’usufrutto della quota di una società di persone è ammissibile, poiché la quota può formare oggetto di diritti ai sensi dell’art. 810 cod. civ. e rientrare nel concetto di beni mobili immateriali ex art. 812, comma 3, cod. civ., ma la qualità di socio non viene però acquistata dall’usufruttuario ma permane in capo al nudo proprietario. L’assetto dei poteri, diritti e facoltà attribuibili al titolare di un diritto parziario quale l’usufruttuario non discende dalla qualificazione giuridica eventualmente utilizzata dalle parti per individuare il titolare del diritto costituito o trasferito, ma discende dalla tipologia di diritto sulla quota che è stato in concreto costituito o traferito; in altri termini, la volontà delle parti non può spingersi sino a modificare il contenuto del diritto reale di usufrutto in senso contrario a quanto voluto dal legislatore e a far acquisire la qualità di socio a colui che non può essere considerato tale per scelta dell’ordinamento.
Nelle società di persone l’incarico gestorio può essere affidato ad un soggetto non socio.
La mancata ricostituzione entro sei mesi della pluralità dei soci non determina affatto la cessazione o l’estinzione automatica della società di persone, ma soltanto che la stessa si scioglie ex lege ai sensi dell’art. 2272, n. 4, cod. civ. e entra automaticamente in stato di liquidazione; il socio rimasto, dopo aver lasciato trascorrere il semestre, potrebbe proseguire l’attività d’impresa utilizzando il complesso dei beni sociali senza dare inizio alla fase di liquidazione e pertanto la società potrebbe proseguire con un unico socio, sostanzialmente come una società unipersonale a tempo indeterminato assoggettata ad un particolare regime di responsabilità per le obbligazioni sociali, esposta al rischio di liquidazione derivanti da azioni esecutive promosse dal creditore particolare del socio superstite e di cancellazione d’ufficio da parte del registro delle imprese.
L’art. 3 d.p.r. 247/2004 non prevede affatto un’estinzione automatica della società di persone al verificarsi di una causa di scioglimento, ma soltanto che, laddove risulti una di tali cause, l’ufficio del registro delle imprese debba invitare gli amministratori a comunicare l’avvenuto scioglimento o a fornire elementi idonei a dimostrare la persistenza dell’attività sociale e che, decorso un termine di trenta (in caso di ricevimento dell’invito) o quarantacinque giorni (in caso di irreperibilità) senza che gli amministratori abbiano fornito riscontro, l’ufficio provveda a trasmettere gli atti al Presidente del Tribunale, il quale potrà nominare d’ufficio il liquidatore oppure – se non lo ritiene necessario – trasmettere direttamente gli atti al giudice del registro per l’adozione delle iniziative necessarie a disporre la cancellazione della società.
Il socio che richiede il pagamento della sua parte degli utili è tenuto a dimostrare l’avvenuta approvazione del rendiconto annuale da parte dei soci, in quanto presupposto indefettibile per la distribuzione degli utili.
L’art. 2395 cod. civ. si ritiene applicabile analogicamente anche alle società di persone così come il principio – affermato sulla base del dato testuale di tale disposizione, che peraltro risponde ai principi generali sul risarcimento del danno aquiliano – secondo cui l’azione individuale del socio non è esperibile quando il danno lamentato costituisca solo il riflesso del pregiudizio al patrimonio sociale, giacché l’art. 2395 cod. civ. esige che il singolo socio sia stato danneggiato direttamente dagli atti colposi o dolosi dell’amministratore, mentre il diritto alla conservazione del patrimonio sociale appartiene unicamente alla società.
L’applicazione analogica dell’art. 2395 cod. civ. anche alle società di persone si giustifica sulla base del fatto che ancorché prive di personalità giuridica, dette società costituiscono comunque un centro di imputazione di situazioni giuridiche distinte da quelle dei singoli soci.
Nell’ambito delle azioni di risarcimento per danno da c.d. mancata distribuzione degli utili occorre distinguere: (i) l’ipotesi in cui il socio lamenti la mancata approvazione del rendiconto – unico adempimento necessario nelle società di persone, a differenza delle società di capitali ove invece è necessaria una delibera che ne autorizzi la distribuzione – nella quale si è al cospetto di un danno che può essere fatto valere ai sensi dell’art. 2395 cod. civ. e che può essere riconosciuto sempre a condizione che sia dimostrata la presenza di utili distribuibili; (ii) l’ipotesi in cui il socio faccia valere in giudizio la mancata percezione degli utili come derivante da diversi comportamenti di gestione tenuti dall’amministratore, quali ad esempio atti distrattivi, nella quale si è al cospetto di un danno meramente indiretto non risarcibile ai sensi dell’art. 2395 cod. civ., posto che le condotte dell’amministratore ledono in via primaria il patrimonio sociale e solo di riflesso quello del socio.
L’azione di arricchimento è proponibile ove la diversa azione, fondata sul contratto, sulla legge o su clausole generali, si rilevi carente ab origine del titolo giustificativo, mentre resta preclusa nel caso in cui il rigetto della domanda alternativa derivi da prescrizione o decadenza del diritto azionato, ovvero nel caso in cui discenda dalla carenza di prova circa l’esistenza del pregiudizio subito, ovvero in caso di nullità del titolo contrattuale, ove la nullità derivi dall’illiceità del contratto per contrasto con norme imperative o con l’ordine pubblico.
Responsabilità dell’amministratore per l’inadempimento della società. L’amministratore di fatto
L’inadempimento contrattuale di una società di capitali non può, di per sé, implicare responsabilità degli amministratori per danni diretti nei confronti dell’altro contraente, atteso che tale responsabilità, di natura extracontrattuale, postula fatti illeciti direttamente imputabili a comportamento colposo o doloso degli amministratori medesimi; laddove ne ricorrano tutti gli estremi può, peraltro, configurarsi un concorso tra l’inadempimento della società e l’illecito dell’amministratore.
La persona che, benché priva della corrispondente investitura formale, si accerti essersi inserita nella gestione della società stessa, impartendo direttive e condizionandone le scelte operative, va considerata amministratore di fatto ove tale ingerenza, lungi dall’esaurirsi nel compimento di atti eterogenei ed occasionali, riveli avere caratteri di sistematicità e completezza. È quindi necessario dimostrare che l’amministratore di fatto svolge, in via sistematica e continua, le attività tipiche dell’amministratore, quali ad esempio la gestione di rapporti continui con i clienti e fornitori, la direzione del personale, l’assunzione di un potere decisionale tale da condizionare le scelte operative e organizzative della società, la gestione dei rapporti con il ceto bancario o la facoltà di operare sul conto corrente.
Responsabilità extracontrattuale degli amministratori per inadempimento contrattuale della società
Se la società è inadempiente per non avere rispettato gli obblighi ad essa derivanti da un rapporto contrattuale stipulato con un terzo, di questi danni risponde la società e soltanto la società; se viceversa, accanto a questo inadempimento sociale, vengono dedotti specifici comportamenti degli amministratori, dolosi o colposi, che di per se stessi abbiano cagionato ai terzi un danno diretto, di questo risponderanno gli amministratori, la cui responsabilità, di natura extra-contrattuale (con ciò che ne consegue circa il regime probatorio) potrà eventualmente aggiungersi – senza sostituirla o sopprimerla – a quella della società per l’inadempimento. Peraltro, la responsabilità ex art. 2395 c.c. dell’amministratore di società, data la sua natura extracontrattuale, non si estende al danno derivato all’altro contraente dall’inadempimento del contratto stipulato all’esito dell’attività suindicata del quale risponde la società, a titolo di responsabilità contrattuale, ma concerne solo il danno direttamente ricollegabile, con nesso di causalità immediata, ai predetti fatti illeciti dell’amministratore, unicamente di questi ultimi potendosi far carico al medesimo, ai fini del risarcimento del danno all’altro contraente danneggiato.
Responsabilità degli amministratori e dei sindaci di s.p.a.
La sospensione necessaria del processo civile ai sensi degli articoli 295 c.p.c., 654 c.p.c. e 211 disposizioni attuazione c.p.p., in attesa del giudicato penale, può essere disposta solo se una norma di diritto sostanziale ricolleghi alla commissione del reato un effetto sul diritto oggetto del giudizio civile ed a condizione che la sentenza penale possa avere, nel caso concreto, valore di giudicato nel processo civile. Perché si verifichi tale condizione di dipendenza tecnica della decisione civile dalla definizione del giudizio penale, non basta che nei due processi rilevino gli stessi fatti, ma occorre che l’effetto giuridico dedotto in ambito civile sia collegato normativamente alla commissione del reato che è oggetto dell’imputazione penale.
L’identificazione dell’oggetto della domanda va peraltro operata avendo riguardo all’insieme delle indicazioni contenute nell’atto di citazione e dei documenti ad esso allegati, producendosi la nullità solo quando, all’esito del predetto scrutinio, l’oggetto risulti “assolutamente” incerto.
Nel giudizio promosso dal curatore per il recupero di un credito del fallito il convenuto può eccepire in compensazione, in via riconvenzionale, l’esistenza di un proprio controcredito verso il fallimento, atteso che tale eccezione è diretta esclusivamente a neutralizzare la domanda attrice ottenendone il rigetto totale o parziale, mentre il rito speciale per l’accertamento del passivo previsto dagli artt. 93 e ss. l. fall. trova applicazione nel caso di domanda riconvenzionale, tesa ad una pronuncia a sé favorevole idonea al giudicato, di accertamento o di condanna al pagamento dell’importo spettante alla medesima parte una volta operata la compensazione (cfr. Cass. civ., 14 maggio 2024, n. 13345).
I provvedimenti resi sulla denuncia di irregolarità nella gestione di una società, ai sensi dell’art. 2409 cod. civ., ancorché comportino la nomina di un ispettore o di un amministratore con la revoca di quello prescelto dall’assemblea, ovvero decidano questioni inerenti alla regolarità del relativo procedimento, sono privi di decisorietà, in quanto, nell’ambito di attribuzioni di volontaria giurisdizione rivolte alla tutela di interessi anche generali ed esercitate senza un vero e proprio contraddittorio, si risolvono in misure cautelari e provvisorie, e, pur coinvolgendo diritti soggettivi, non statuiscono su di essi a definizione di un conflitto tra parti contrapposte, nè hanno attitudine ad acquistare autorità di giudicato sostanziale.
In caso di decadenza del sindaco, è necessario anche ai fini dell’applicabilità del meccanismo di sostituzione previsto dall’art. 2401 c.c. e, ulteriormente, ai fini dell’iscrizione nel Registro delle Imprese della cessazione della carica e della nomina del nuovo del sindaco, una deliberazione formale risulta un passaggio inevitabile per consentire che l’avvenuta decadenza sia resa conoscibile alla società ed ai terzi, nei confronti dei quali la decadenza sarà opponibile solo in seguito a tale iscrizione.
Posto che è lo stesso art. 2938 c.c. a stabilire espressamente la non rilevabilità d’ufficio della prescrizione – è pacifico nella giurisprudenza di legittimità che l’eccezione di prescrizione costituisce eccezione in senso proprio e che, come tale, deve essere tempestivamente sollevata dalla parte.
A norma dell’art. 50 c.p.c., se la riassunzione della causa — disposta a seguito di una pronuncia dichiarativa di incompetenza — davanti al giudice dichiarato competente avviene nel termine fissato, il processo continua davanti al nuovo giudice mantenendo una struttura unitaria e, perciò, conservando tutti gli effetti sostanziali e processuali di quello svoltosi davanti al giudice incompetente, poiché la riassunzione non comporta l’instaurazione di un nuovo processo, bensì costituisce la prosecuzione di quello originario.
Le azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori e sindaci di una società di capitali previste dagli artt. 2393 e 2394 c.c., pur essendo tra loro distinte – in caso di fallimento – confluiscono nell’unica azione di responsabilità esercitabile da parte del curatore ai sensi dell’art. 146 L.F., la quale – assumendo contenuto inscindibile e connotazione autonoma rispetto alle prime, attesa la ratio ad essa sottostante identificabile nella destinazione di strumento di reintegrazione del patrimonio sociale unitariamente considerato a garanzia sia dei soci che dei creditori sociali – implica una modifica della legittimazione attiva di quelle azioni, ma non ne immuta i presupposti.
Le due azioni, anche se esercitate cumulativamente ai sensi dell’art. 146 L.F., debbono considerarsi distinte, perché basate su presupposti differenti e soggette a diverso regime giuridico, con particolare riferimento al calcolo dei termini per la prescrizione.
Con riguardo all’azione sociale, in applicazione del principio generale di cui all’art. 2935 c.c., il termine prescrizionale decorre dal momento in cui il danno diventi oggettivamente percepibile all’esterno e cioè si sia manifestato nella sfera patrimoniale della società – non rilevando a tal fine che l’azione di responsabilità abbia natura contrattuale ex art. 2392 c.c., in virtù del rapporto fiduciario intercorrente con l’amministratore – ferma restando, però, la sospensione del termine fino a quando l’amministratore sia in carica (art. 2941 n. 7 c.c.).
L’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori ex art. 2394 c.c., esercitata dal curatore fallimentare a norma dell’art. 146 l. fall., è soggetta a prescrizione quinquennale che decorre dal momento dell’oggettiva percepibilità, da parte dei creditori, dell’insufficienza dell’attivo a soddisfare i debiti; pertanto, in ragione dell’onerosità della prova gravante sul curatore, sussiste una presunzione “iuris tantum” di coincidenza tra il “dies a quo” di decorrenza della prescrizione e la dichiarazione di fallimento, ricadendo sull’amministratore la prova contraria della diversa data, anteriore, di insorgenza e percepibilità dello stato di incapienza patrimoniale, con la deduzione di fatti sintomatici di assoluta evidenza, la cui valutazione spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità, se non nei limiti di cui all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c. (cfr. Cass. civ., 14 giugno 2014, n. 13378; Cass. civ., 4 dicembre 2015, n. 24715; da ultimo, Cass. civ., 6 febbraio 2023, n. 3552).
Secondo la giurisprudenza di legittimità, l’insufficienza del patrimonio sociale al soddisfacimento dei crediti, dalla quale decorre la prescrizione dell’azione dei creditori, ex art. 2395 c.c., proposta nei confronti degli amministratori e dei sindaci per mala gestio, consiste nella eccedenza delle passività sulle attività: non corrisponde alla perdita integrale del capitale sociale (che può verificarsi anche in presenza di un pareggio tra attivo e passivo) né allo stato di insolvenza, trattandosi di uno squilibrio patrimoniale più grave e definitivo che può essere sia anteriore che posteriore alla dichiarazione di fallimento (ex multis, cfr. Cass. civ. n. 25977/2008; Cass. civ. n. 24175/15).
In tema di responsabilità dell’amministratore di una società di capitali per i danni cagionati alla società amministrata, l’insindacabilità del merito delle sue scelte di gestione (c.d. “business judgement rule”) trova un limite nella valutazione di ragionevolezza delle stesse, da compiersi sia “ex ante”, secondo i parametri della diligenza del mandatario, alla luce dell’art. 2392 c.c., sia tenendo conto della mancata adozione delle cautele, delle verifiche e delle informazioni preventive, normalmente richieste per una scelta di quel tipo e della diligenza mostrata nell’apprezzare preventivamente i margini di rischio connessi all’operazione da intraprendere (cfr. Cass. civ., , 22 giugno 2017, n. 15470).
L’azione di responsabilità sociale promossa contro amministratori e sindaci di società di capitali ha natura contrattuale, dovendo di conseguenza l’attore provare la sussistenza delle violazioni contestate e il nesso di causalità tra queste e il danno verificatosi, mentre sul convenuto incombe l’onere di dimostrare la non imputabilità del fatto dannoso alla sua condotta, fornendo la prova positiva dell’osservanza dei doveri e dell’adempimento degli obblighi imposti (cfr. Cass. civ., 11 novembre 2010, n. 22911; Cass. civ., 7 febbraio 2020, n. 2975).
Tralasciando i profili di responsabilità propria dei sindaci, la responsabilità degli organi di controllo delle società di capitali può derivare anche da un comportamento doloso o colposo degli amministratori che i sindaci avrebbero potuto e dovuto prevenire od impedire nell’espletamento della loro funzione di vigilanza: si parla, con riferimento a tali ipotesi, di responsabilità dei sindaci concorrente con quella degli amministratori.
Come si vede, la responsabilità dei sindaci, anche nell’ipotesi in cui essa sia concorrente rispetto a quella degli amministratori, non costituisce una responsabilità indiretta, ma una responsabilità per fatto proprio consistente nella violazione del dovere di vigilare diligentemente sull’operato degli amministratori: si tratta, all’evidenza, di una responsabilità per culpa in vigilando. Il dovere di vigilanza e di controllo imposto ai sindaci delle società per azioni dall’art. 2403 c.c. concerne l’operato degli amministratori e tutta l’attività sociale, al fine di assicurare che la stessa venga svolta nel rispetto della legge e dell’atto costitutivo.
Integra violazione dei doveri di controllo, posti dall’art. 2407 c.c., l’omessa vigilanza circa il compimento da parte dell’organo amministrativo di irregolarità di gestione per operazioni non riportate nella contabilità e per finanziamenti a società collegate divenuti causa del dissesto finanziario della società poi dichiarata fallita (cfr. Cass. Civ., 6 settembre 2007, n. 18728).
I sindaci non esauriscono l’adempimento dei proprio compiti con il mero e burocratico espletamento delle attività specificamente indicate dalla legge avendo, piuttosto, l’obbligo di adottare (ed, anzi, di ricercare lo strumento di volta in volta più consono ed opportuno di reazione, vale a dire) ogni altro atto (del quale il sindaco deve fornire la dimostrazione) in relazione alle circostanze del caso (ed, in particolare, degli atti o delle omissioni degli amministratori che, in ipotesi, non siano stati rispettosi della legge, dello statuto o dei principi di corretta amministrazione) fosse utile e necessario ai fini di un’effettiva ed efficace (e non meramente formale) vigilanza sull’amministrazione della società e le relative operazioni gestorie” (cfr. Cass. civ., n.3459/2024).
L’accertamento, da parte dell’amministratore unico ovvero da parte del consiglio di amministrazione, del verificarsi di una causa di scioglimento della società non ha carattere, né effetto costitutivo dello stato di scioglimento, ma puramente e semplicemente dichiarativo del medesimo. Conseguentemente, il divieto di compiere atti non conservativi sorge per il solo verificarsi della causa di scioglimento, anche prima ed indipendentemente dal fatto che l’assemblea ne prenda o ne abbia preso atto.
Le condizioni della azione di risarcimento danni nei confronti degli amministratori, riconducibile all’attività da essi posta in essere dopo il verificarsi di una causa di scioglimento, sono il compimento, dopo tale evento, di atti di gestione non aventi una finalità meramente conservativa del patrimonio sociale (liquidatoria), il danno ed il nesso di causalità tra condotta e danno….la parte che agisce in giudizio (la curatela) ha l’onere di allegare e provare l’esistenza dei fatti costitutivi della domanda, cioè la ricorrenza delle condizioni per lo scioglimento della società e il successivo compimento di atti negoziali da parte degli amministratori, ma non è tenuta, invece, a dimostrare che tali atti siano anche espressione della normale attività d’impresa e non abbiano una finalità liquidatoria. Spetta, infatti, agli amministratori convenuti di dimostrare che tali atti, benché effettuati in epoca successiva allo scioglimento, non comportino un nuovo rischio d’impresa (come tale idoneo a pregiudicare il diritto dei creditori e dei soci) e siano giustificati dalla finalità liquidatoria o necessari. Di fronte all’allegazione della curatela relativa al compimento, da parte dell’amministratore, successivamente al verificarsi della causa di scioglimento della società, di atti produttivi di nuovi debiti è onere dell’amministratore provare che gli atti in oggetto non fossero espressione della normale attività di impresa, ma avessero una natura meramente liquidatoria” (Cass. civ., 5 gennaio 2022, n. 198).
Nell’azione di responsabilità promossa dal curatore a norma dell’art. 146, comma 2, l.fall., la mancata o irregolare tenuta delle scritture contabili, pur se addebitabile all’amministratore convenuto, non giustifica che il danno risarcibile sia determinato e liquidato nella misura corrispondente alla differenza tra il passivo accertato e l’attivo liquidato in sede fallimentare, potendo tale criterio essere utilizzato solo quale parametro per una liquidazione equitativa ove ne sussistano le condizioni, purché l’attore abbia allegato un inadempimento dell’amministratore almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno lamentato, indicando le ragioni che gli hanno impedito l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore medesimo (cfr. Cass. civ., 17maggio 2021, n. 13220; Cass. civ., 12 maggio 2022, n. 15245).
In tema di responsabilità degli amministratori di società di capitali per il compimento di atti gestori non conservativi dopo il verificarsi di una causa di scioglimento, i criteri di liquidazione del danno previsti dall’art. 2486, comma 3, c.c., come modificato dall’art. 378, comma 2, del d.lgs. n. 14 del 2019, costituiti dalla differenza dei netti patrimoniali e dal deficit patrimoniale, attengono ad una valutazione equitativa del danno ai sensi dell’art. 1226 c.c. e sono applicabili – a meno che in causa non siano dedotti e individuati elementi di fatto legittimanti l’uso di un diverso criterio liquidatorio più aderente alla realtà del caso concreto – anche ai giudizi in corso al momento della entrata in vigore della citata norma (cfr. Cass. civ., 25 marzo 2024, n. 8069).
In materia di responsabilità degli organi sociali, la configurabilità dell’inosservanza del dovere di vigilanza imposto ai sindaci (art. 2407, comma 2, c.c.), non richiede l’individuazione di specifici comportamenti che si pongano in contrasto con tale dovere, ma è sufficiente che essi non abbiano rilevato una evidente violazione, ovvero, non abbiano reagito di fronte ad atti di dubbia legittimità e regolarità, così da non adempiere l’incarico con diligenza, correttezza e buona fede, eventualmente anche segnalando all’assemblea le irregolarità di gestione riscontrate o denunciando i fatti al Pubblico Ministero. Pertanto ai fini della configurabilità della responsabilità dei sindaci, non è richiesto che un particolare comportamento, sia espressamente previsto dalla legge. Sussiste, infatti, un obbligo di attivazione e di immediata reazione dei sindaci tutte le volte in cui gli organi amministrativi abbiano compiuto atti di mala gestio (cfr. Cass. civ., 19 febbraio 2024, n. 4315).
La responsabilità degli amministratori per danni diretti
Il principale elemento di diversità dell’azione individuale di responsabilità rispetto all’azione sociale e a quella dei creditori è rappresentato dall’incidenza diretta del danno sul patrimonio del socio o del terzo. Mentre l’azione sociale è finalizzata al risarcimento del danno al patrimonio sociale, che incide soltanto indirettamente sul patrimonio dei soci per la perdita di valore delle loro azioni e l’azione dei creditori sociali mira al pagamento dell’equivalente del credito insoddisfatto a causa dell’insufficienza patrimoniale cagionata dall’illegittima condotta degli amministratori, e quindi ancora riguarda un danno che costituisce il riflesso della perdita patrimoniale subita dalla società, l’azione di responsabilità per danni diretti postula la lesione di un diritto soggettivo patrimoniale del socio o del terzo che non sia conseguenza del depauperamento del patrimonio della società.
Il criterio del danno diretto non serve dunque a delimitare l’ambito applicativo delle conseguenze risarcibili ex art. 1223 c.c. (ossia il quantum), ma le condizioni dell’azione ex art. 2395 c.c. (an debeatur), per distinguerla dalle azioni pertinenti ai pregiudizi che, riguardando indistintamente i soci e il ceto creditorio, sono assoggettate al diverso regime ex artt. 2393 e 2394 c.c. L’avverbio “direttamente” delimita l’ambito di esperibilità dell’azione ex art. 2395 c.c. rispetto alle fattispecie disciplinate dagli artt. 2393 e 2394 c.c., rendendo palese che il discrimine tra le stesse non va individuato nei presupposti stabiliti dalla legge per il sorgere di tali forme di responsabilità – che consistono pur sempre nella violazione, dolosa o colposa, dei doveri a essi imposti dalla legge o dall’atto costitutivo –, ma nelle conseguenze che il comportamento illegittimo ha determinato nel patrimonio del socio o del terzo. Se il danno allegato costituisce solo il riflesso di quello cagionato al patrimonio sociale si è al di fuori dell’ambito di applicazione dell’art. 2395 c.c., in quanto tale norma richiede che il danno abbia investito direttamente il patrimonio del socio o del terzo.
L’insufficienza patrimoniale di cui agli artt. 2394 e 2476, co. 6, c.c. è una condizione di squilibrio patrimoniale più grave e definitiva della semplice insolvenza e cioè l’obiettiva insufficienza del patrimonio sociale a soddisfare integralmente i creditori e non la pura e semplice incapacità di adempiere regolarmente, cioè alla scadenza e con mezzi normali, e deve risultare da fatti sintomatici di assoluta evidenza, oggettivamente percepibili dai creditori, quali, ad esempio, la chiusura della sede, l’approvazione di bilanci fortemente passivi, o l’assenza di cespiti suscettibili di espropriazione forzata.
L’azione del socio nei confronti dell’amministratore nelle società di persone
Anche nelle società di persone, pur in assenza di apposita disposizione, è configurabile una responsabilità degli amministratori nei confronti dei singoli soci, oltre che verso la società, in termini sostanzialmente analoghi a quanto prevede, in materia di società per azioni, l’art. 2395 c.c. Tuttavia, essendo la natura extracontrattuale e individuale dell’azione del socio fondata sull’art. 2043 c.c., l’applicazione dell’art. 2395 c.c. deve essere letta in combinato disposto alla sopracitata norma generale in tema di responsabilità extracontrattuale. Ciò implica che il pregiudizio recato non deve essere il mero riflesso dei danni eventualmente prodotti al patrimonio sociale, ma i danni devono essere stati direttamente causati al socio come conseguenza immediata del comportamento degli amministratori.
Per rendiconto deve intendersi la situazione contabile che equivale, quanto ai criteri fondamentali di valutazione, a quella di un bilancio, che è la sintesi contabile della situazione patrimoniale della società.
Presupposti per la responsabilità per mala gestio degli amministratori ex art. 2476, comma 6 e comma 7 c.c.
La responsabilità degli amministratori di s.r.l. ex art 2476, co. 7, c.c. (o ex art 2395 c.c. in caso di amministratore di s.p.a.) verso i terzi che abbiano stipulato un contratto con la società, per consolidata giurisprudenza, non discende automaticamente ex se da detta loro qualità, né ex se dall’inadempimento sociale ad obblighi discendenti dal contratto. Invero secondo consolidato orientamento giurisprudenziale se la società è inadempiente per non aver rispettato gli obblighi discendenti dal contratto (quale l’obbligo di pagare il corrispettivo di una fornitura) di questi danni risponde la società e soltanto la società: ciò in forza del rapporto di immedesimazione organica tra la società e gli amministratori che per essa agiscono (sicché l’atto dell’amministratore non è atto compiuto per conto della società, ma è atto “della” società) necessitando dunque per potersi configurare la responsabilità dell’amministratore un quid pluris.
La responsabilità personale dell’amministratore verso il terzo contraente ai sensi dell’art. 2476, co. 7, c.c. (a differenza della responsabilità ex art. 2476, co. 6, c.c.) è una responsabilità per danno “diretto” e non dunque responsabilità per un danno integrato dalla insoddisfazione della pretesa creditoria discende dalla insufficienza patrimoniale determinata da mala gestio; necessita pertanto non solo la allegazione e prova di condotta dolosa o colposa degli amministratori medesimi integrante mala gestio, ma altresì la allegazione di fatti che consentano di far ritenere che detta mala gestio abbia determinato un danno incidente direttamente nella sfera patrimoniale del creditore e non dunque meramente derivato dalla perdita della “garanzia patrimoniale generica” integrata dalla riduzione del patrimonio sociale idoneo a soddisfare il suo credito, danno che rientra invece nel perimetro del danno “riflesso” azionabile ex art. 2476, co. 6, c.c.; ancora necessita la allegazione del nesso di causalità tale per cui il danno non solo sia diretto ma sia altresì legato da nesso di causalità immediata con la mala gestio e ciò sia conseguenza “immediata e diretta” della suddetta condotta illecita secondo i principi generali (v. art 1223 c.c. richiamato quanto alla responsabilità extracontrattuale dall’art 2056 c.c.).
La responsabilità per danni diretti ex art. 2395 c.c. e onere probatorio
L’art. 2395 c.c. costituisce la norma di chiusura del sistema codicistico della responsabilità civile degli amministratori di società di capitali, la cui applicazione richiede la verifica in ordine alla sussistenza di fatti illeciti imputabili agli amministratori stessi, vale a dire di comportamenti dolosi o colposi cui siano riconducibili in via immediata i danni derivati direttamente nel patrimonio del socio o del terzo, secondo le regole in tema di responsabilità extracontrattuale. In specie, l’azione individuale prevista dalla norma in commento postula la lesione di un diritto soggettivo patrimoniale del socio o del terzo che non sia conseguenza del depauperamento del patrimonio della società. Orbene, la responsabilità dell’amministratore nei confronti del terzo non scaturisce dal mero inadempimento contrattuale posto in essere nella gestione della società e ad essa imputabile, bensì deve concretizzarsi in un’ulteriore azione degli amministratori costituente illecito extracontrattuale, direttamente lesiva di un diritto soggettivo patrimoniale del terzo. Costituisce, dunque, illecito rilevante ai sensi dell’art. 2395 c.c. ogni fatto, doloso o colposo, commesso dagli amministratori in occasione dell’esercizio delle loro funzioni gestorie, che rechi al terzo un danno ingiusto tale da riverberarsi direttamente nel suo patrimonio.
Trattandosi di responsabilità aquiliana, il terzo danneggiato è onerato della prova dei presupposti, soggettivi e oggettivi, di tale responsabilità. Tanto premesso, l’accoglimento dell’azione risarcitoria proposta a norma dell’art. 2395 c.c. richiede l’accertamento non solo della condotta contra legem ma anche, al pari di ogni altra azione risarcitoria, l’allegazione e prova del danno lamentato e del nesso causale intercorrente tra questo e la condotta stessa.
Tra le condotte contra legem suscettibili di generare responsabilità in capo agli amministratori e alla società vi è la propalazione di informazioni false o incomplete o comunque decettive in ordine alla situazione economico-patrimoniale della società stessa, informazioni in base alle quali il socio o il terzo abbiano determinato proprie scelte di investimento, o disinvestimento, relative alla società stessa, quali acquisti di partecipazioni da altri soci, vendite di partecipazioni, sottoscrizioni di aumenti di capitale, ecc.
In presenza di una domanda risarcitoria ex art. 2395 c.c., incombe sul terzo danneggiato l’onere di provare, sulla scorta del principio del “più probabile che non”, la ricorrenza delle falsità e l’idoneità della prospettazione non veritiera a trarre in inganno il contraente, di fatto determinando la conclusione del contratto. In particolare, incombe sull’acquirente l’onere di allegare e dimostrare che per effetto della rappresentazione illegittima della situazione patrimoniale ed economica contenuta nel bilancio, egli abbia acquistato le azioni di quella società.
L’autorizzazione assembleare all’azione di responsabilità è una condizione dell’azione attinente alla legittimazione processuale sanabile ex tunc
La responsabilità dell’amministratore nei confronti della società ha natura contrattuale, che trova la sua fonte nel rapporto sociale che si instaura tra la società e il soggetto chiamato a ricoprire una carica sociale, dalla quale deriva l’obbligo di rispetto dei doveri previsti dalla legge e dallo statuto, che ha lo scopo di reintegrare il patrimonio sociale leso da condotte poste in essere dagli amministratori in violazioni di tali doveri. Quanto all’onere della prova, è necessario e sufficiente che la società alleghi l’inadempimento, indicando gli specifici obblighi di legge o di statuto violati dall’amministratore, nonché che indichi e fornisca la prova del danno subito e del nesso di causalità tra il comportamento illecito e il pregiudizio dallo stesso derivante. Incombe, invece, sul convenuto l’onere della prova della non imputabilità a sé del fatto dannoso, fornendo la prova positiva, con riferimento agli addebiti contestati, dell’osservanza dei doveri e dell’adempimento degli obblighi loro imposti.
L’azione di cui agli artt. 2395, per le s.p.a., e 2476, co. 6, c.c., per le s.r.l., è esercitabile a vantaggio del singolo socio o creditore, direttamente danneggiato da un comportamento illecito di amministratori o sindaci, nella propria sfera giuridico patrimoniale. L’azione diretta non può essere esercitata per il ristoro del danno subito dal singolo socio o creditore per effetto della diminuzione del patrimonio sociale causata dal comportamento illecito, perché si tratta in tal caso di un danno solo riflesso, cioè derivante indirettamente dagli effetti della diminuzione del patrimonio della società a causa dell’illecito sul valore delle quote sociali o sulle possibilità di soddisfacimento dei creditori. Dovrà, dunque, trattarsi di un comportamento illecito posto in essere direttamente dagli amministratori, pur sempre in violazione dei doveri connessi alla carica rivestita, contro il singolo soggetto, socio o creditore, che dunque ne sarà il solo e diretto danneggiato e, pertanto, l’unico legittimato a tale azione.
In tema di azione sociale di responsabilità, il giudice deve preliminarmente verificare l’esistenza della deliberazione assembleare che ne approvi l’esercizio, poiché tale deliberazione costituisce un presupposto, suscettibile di regolarizzazione ex tunc, che attiene alla legittimazione processuale della parte attrice, la cui assenza, incidendo sulla regolare costituzione del rapporto processuale, può essere rilevata d’ufficio in ogni stato e grado del processo, anche in sede di legittimità, salvo il giudicato interno che, però, si forma solo quando la decisione impugnata sia stata adottata dopo che la specifica questione abbia formato oggetto di discussione nel contraddittorio delle parti. È sufficiente che tale autorizzazione sussista nel momento della pronuncia della sentenza che definisce il giudizio.