hai cercato articoli in
Art. 2395 c.c.
182 risultati
1 Giugno 2022

Differenze tra la responsabilità dell’amministratore verso i creditori sociali e verso il singolo socio o creditore

L’azione proposta ex art. 2395 c.c. ha natura extracontrattuale e ne ricorrono i presupposti quando vi è la prova di una condotta dolosa o colposa posta in essere in violazione degli obblighi previsti dalla legge o dallo statuto, di un pregiudizio diretto ed immediato al patrimonio individuale del socio o del terzo e della sussistenza di un nesso di causalità tra condotte e pregiudizio.

L’azione di responsabilità dei creditori sociali ex art. 2394 c.c. si propone di tutelare l’integrità del patrimonio sociale, in relazione all’obbligo della sua conservazione; essa riveste natura di azione aquiliana ex art. 2043 c.c. in cui il danno ingiusto è integrato dalla lesione dell’aspettativa di prestazione dei creditori sociali, a garanzia della quale è posto il patrimonio della società, trovando così fondamento nel principio generale della tutela extracontrattuale del credito di cui agli artt. 2740 e 2043 c.c.

Tra gli obblighi esistenti in capo all’amministratore vi sono sicuramente quelli di tutelare il patrimonio sociale e conservare, con esso, la garanzia di soddisfazione dei creditori. Affinché vi possa essere risarcimento per comportamento illegittimo dell’amministratore, occorre tuttavia che sia provata non solo l’illiceità del comportamento, ma anche la conseguenza dannosa che da questa discende, in modo causalmente connesso.

17 Maggio 2022

Trasformazione in s.p.a. di UBI e limitazione del rimborso delle azioni del socio receduto

In ossequio all’art. 28, co. 2 ter, t.u.b., la Banca d’Italia ha adottato nella Circolare n. 285 del 2013 (come successivamente modificata) le disposizioni di attuazione della riforma di cui al c.d. decreto di riforma delle banche popolari (d.l. 24 gennaio 2015, n. 3 convertito in l. 24 marzo 2015, n. 33), che ha imposto l’obbligo di trasformazione a tutte le banche popolari di maggiori dimensioni. Con tali disposizioni, la Banca d’Italia ha previsto che: (i) le banche, costituite in forma di società cooperativa, muniscano i propri statuti sociali di un’apposita clausola, la quale attribuisca all’organo avente funzione di gestione, sentito l’organo con funzione di controllo, la facoltà di limitare o rinviare, in tutto o in parte senza limiti di tempo, il rimborso delle azioni del socio receduto; (ii) la decisione sull’estensione del rinvio o sulla misura della limitazione vada assunta con criterio prudenziale tenuto conto della situazione della banca, valutando in particolare, da una parte, la complessiva situazione finanziaria, di liquidità e di solvibilità della banca o del gruppo bancario e, dall’altra, l’importo del capitale primario di classe e del capitale totale, unitamente ai requisiti specifici di fondi propri e al requisito combinato di riserva di capitale; (iii) il rimborso effettivo sia comunque subordinato all’autorizzazione dell’autorità competente, ai sensi di quanto previsto dall’art. 77 del Regolamento UE 575/2013 e dal Regolamento Delegato UE 241/2014. Alla luce della normativa richiamata, la banca popolare, al momento della trasformazione in s.p.a., ha la facoltà di limitare il diritto di rimborso delle azioni recedute – attraverso il rinvio, anche in toto e sine die, del pagamento del controvalore attribuito alle azioni, oppure attraverso la sua limitazione quantitativa, totale o parziale – qualora, a seguito della valutazione dei parametri indicati dall’autorità di vigilanza, risulti funzionale al mantenimento della stabilità patrimoniale e finanziaria dell’istituto bancario.

L’organo amministrativo è chiamato a tale valutazione disponendo di un margine di discrezionalità tecnica, giacché i citati criteri che debbono orientare ex lege la sua scelta sono costituiti non solo da indici numerici fissi, ma anche da criteri mobili, volutamente elastici, costituiti dalla complessiva situazione finanziaria, di liquidità, di disponibilità della banca o del gruppo bancario. Inoltre, i criteri previsti ex lege non hanno portata esaustiva, potendo infatti la banca ricorrere ad ulteriori canoni di valutazione per orientare le proprie scelte. Ciò si deduce dal tenore dell’art. 10, par. 3, del Regolamento Delegato n. 241/2014, ove è previsto che l’entità della limitazione al rimborso debba essere determinata tenendo conto “in particolare, ma non esclusivamente” dei criteri poi indicati, nonché della norma interna che, attraverso la locuzione “in particolare”, richiama un’elencazione meramente esemplificativa dei canoni soggetti al vaglio dell’organo amministrativo. In tale prospettiva, è corretto valutare l’incidenza del costo del recesso sull’equilibrio patrimoniale della banca e dell’intero gruppo di appartenenza anche in una visione prospettica oltreché attuale, attribuendo rilievo a margini prudenziali supplementari rispetto ai requisiti minimi di patrimonializzazione. La scelta di adottare un tale più ampio margine prudenziale, anche in ossequio al principio di buona fede nello svolgimento del rapporto sociale, va ad ogni modo congruamente motivata esplicitando le ragioni, nonché gli indici patrimoniali e di bilancio che hanno portato ad una tale determinazione. Trovano, così, tutela sia l’interesse del singolo azionista a vedere remunerato il proprio investimento, sia l’interesse dell’istituto di credito alla propria stabilità patrimoniale e finanziaria, sia gli interessi generali di cui è espressione, quali la tutela del risparmio e del mercato.

Il sindacato dell’autorità giudiziaria ha natura estrinseca in quanto non può spingersi a valutare, nel merito, le singole scelte discrezionali che hanno portato la banca a limitare il diritto di rimborso, dovendosi, invece, limitare a vagliare se tali scelte siano motivate, rispondenti ai criteri di legge, non irragionevoli. Il vaglio rimesso al giudice ordinario deve consentire, quindi, di verificare che i limiti di rimborso decisi nell’esercizio di tale facoltà non eccedano quanto necessario, tenuto conto della situazione prudenziale di dette banche, al fine di garantire che gli strumenti di capitale da essi emessi siano considerati strumenti del capitale primario di classe 1, alla luce, in particolare, degli elementi di cui all’art. 10, par. 3, del regolamento delegato n. 241/2014, circostanza che spetta al giudice verificare.

La disciplina generale del diritto di recesso nelle società di capitali riconosce al socio che abbia manifestato la volontà di recesso il pieno diritto di contestare il valore di liquidazione della partecipazione proposto dagli amministratori, ai sensi dell’art. 2437 ter, co. 6, c.c., senza alcuna necessità della preventiva impugnazione per l’annullamento della delibera che lo ha stabilito.

Le regole di comportamento che presidiano la funzione amministrativa, tra le quali quelle di cui agli artt. 2381, co. 6, e 2392, co. 1, c.c. raggiungono un’intensità massima in presenza di beni e/o interessi pubblicistici, come nel caso di amministratori di banche quotate sul mercato azionario. Tra gli obblighi degli amministratori, assumono particolare rilievo quelli di rendere puntuale e completa informativa ai soci sull’andamento dello stato patrimoniale e finanziario della società, cui, simmetricamente, corrisponde il diritto soggettivo del socio o del creditore di essere informato. Tale posizione soggettiva attiva si declina – nell’ipotesi di exit – nel diritto di conoscere il valore di liquidazione delle azioni ex art. 2437 ter, co. 5, c.c., come determinato dagli amministratori. L’obbligo di adeguata informazione è, inoltre, specificato nella Circolare n. 285/2013 di Banca D’Italia, che imponeva alla banca e al suo management di rendere nota ai soci ogni informazione utile al fine di consentire loro un esercizio il più possibile consapevole del diritto di recesso.

16 Maggio 2022

Responsabilità degli amministratori di società nei confronti dei terzi

L’inadempimento contrattuale di una società di capitali può sia determinare la responsabilità dell’amministratore nei confronti dei terzi (ex art. 2395 c.c. nelle S.p.A. e art. 2476 co. 7 c.c. nelle S.r.l.), sia integrare gli estremi di un illecito extracontrattuale imputabile ai suoi amministratori in danno dell’altro contraente, riconducibile all’alveo dell’art. 2043 c.c. Infatti, la responsabilità ex articoli 2395 e 2476 c.c. si qualifica come di natura extracontrattuale e richiede, pertanto, la prova di una condotta dolosa o colposa degli amministratori medesimi, del danno e del nesso causale tra questa e il danno patito dal terzo contraente.

L’azione individuale di responsabilità, ai sensi dell’art. 2395 c.c., esige che il comportamento doloso o colposo dell’amministratore, posto in essere tanto nell’esercizio dell’ufficio quanto al di fuori delle correlate incombenze, abbia determinato un danno direttamente sul patrimonio del socio o del terzo, restando irrilevante che il comportamento dell’amministratore sia stato conforme agli interessi della società o a vantaggio di questa.

In tema di risarcimento del danno per fatto illecito, quanto più le conseguenze della condotta altrui sono suscettibili di essere previste e superate attraverso l’adozione – da parte dello stesso danneggiato –  delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze del caso concreto, tanto più incidente deve considerarsi l’efficienza causale del suo comportamento imprudente nella produzione del danno, fino al punto da interrompere il nesso eziologico tra condotta e danno quando lo stesso comportamento sia da escludere come evenienza ragionevole o accettabile secondo un criterio probabilistico di regolarità causale.

11 Maggio 2022

Arbitrabilità delle controversie societarie. Sospensione dell’esecuzione della delibera impugnata in sede arbitrale

In tema di controversie societarie, la definizione della competenza del tribunale ordinario ovvero del collegio arbitrale dipende dalla natura disponibile o indisponibile del diritto oggetto di controversia. A seguito dell’ammissione da parte del legislatore dell’arbitrabilità delle controversie societarie, l’art. 806 c.p.c. perimetra le controversie arbitrabili in negativo, ponendo come limite al ricorso dell’arbitrato l’indisponibilità del diritto, salvo espresso divieto di legge per le controversie aventi ad oggetto diritti disponibili.

L’area dell’indisponibilità è più ristretta di quella degli interessi genericamente superindividuali, in quanto la natura sociale o collettiva dell’interesse denota soltanto che esso è sottratto alla volontà individuale dei singoli soci, ma non implica che egual conseguenza si determini anche rispetto alla volontà collettiva espressa dalla società secondo le regole della rispettiva organizzazione interna, la cui finalità è proprio quella di assicurare la realizzazione più soddisfacente dell’interesse comune dei partecipanti. Sul punto, si richiama l’azione sociale di responsabilità nei confronti degli amministratori che, a differenza di quella prevista dall’art. 2395 c.c., è posta a tutela di un interesse collettivo, ma la cui transigibilità e rinunziabilità sono riconosciute espressamente dall’art. 2393, co. 6, c.c. e, come tali, sono disponibili da parte dei rispettivi titolari. Affinché l’interesse sotteso alla delibera possa essere qualificato come indisponibile è necessario, quindi, che la sua protezione sia assicurata da norme inderogabili, la cui violazione determina una reazione dell’ordinamento svincolata da ogni iniziativa di parte, come, ad esempio, le norme dirette a garantire la chiarezza e la precisione del bilancio di esercizio, la cui inosservanza rende la delibera di approvazione illecita e, quindi, nulla.

Il discrimen tra diritto disponibile e diritto indisponibile guarda alla protezione accordata dall’ordinamento mediante la predisposizione di una norma dispositiva o imperativa. Nel primo caso, prevale l’interesse del singolo ad affermare il suo diritto di autodeterminazione ex art 2 cost., potendo così derogare la norma dispositiva, posta a tutela di un interesse anche superindividuale, ma non indisponibile e, quindi, non prevalente. Nel secondo caso, l’interesse del singolo soccombe dinanzi all’interesse di ordine pubblico, protetto dalla norma imperativa che rende indisponibile il diritto da essa tutelato.

Per determinare l’arbitrabilità delle controversie insorte tra soci e società, occorre esaminare se gli interessi coinvolti riguardano i soci come singoli oppure si riferiscono unicamente alla società, tutelata dalla legge in quanto tale. Nella prima ipotesi, la controversia è liberamente arbitrabile, sulla base del presupposto che ogni socio può disporre liberamente dei diritti oggetto della disputa, in quanto il ricorrente agisce uti singulus. Nella seconda ipotesi, l’arbitrabilità è fermamente negata a causa dell’indisponibilità del diritto coinvolto. L’azione, in questo caso, è proposta dal socio uti socius, nell’interesse sociale che corrisponde non alla sommatoria, ma alla sintesi di tutti individuali connessi dal vincolo sociale identificabile nell’unicità dello scopo dal quale trae origine la compagine stessa.

La sospensione cautelare del provvedimento impugnato in sede arbitrale può essere richiesta al Tribunale secondo le norme ordinarie con ruolo vicario e suppletivo, tutte le volte in cui, in concreto, gli arbitri non abbiano la possibilità di intervenire efficacemente con l’esercizio del potere cautelare (ad esempio per la mancata instaurazione del procedimento arbitrale o a causa dei tempi tecnici di costituzione dell’organo), al fine di garantire agli interessati la piena e concreta fruizione del diritto di agire in giudizio ex art. 24 cost. (norma di cui l’effettività della tutela cautelare costituisce componente essenziale ed immanente al fine di evitare che la durata del processo si risolva in un danno della parte che ha ragione).

In tema di sospensione dell’esecuzione delle delibere assunte dall’assemblea di una società consortile a responsabilità limitata trova applicazione il disposto di cui all’art. 2378, co. 3, c.c. (richiamato dall’art. 2479 ter, co. 4, c.c.), che prevede, quale rimedio tipico destinato a ottenere un provvedimento cautelare, che l’istanza di sospensione di una deliberazione assembleare deve essere necessariamente proposta in corso di causa o, quanto meno, contestualmente alla proposizione della domanda di merito con la quale si chiede di dichiarare la nullità o annullare la deliberazione assunta. L’esistenza di un rimedio tipico, previsto dall’art. 2378, co. 3, c.c., esclude in radice l’esperibilità del rimedio dell’art. 700 c.p.c. Quest’ultima disposizione corrisponde ad un principio generale dell’ordinamento secondo cui, non potendo restare una situazione giuridica del tutto priva di tutela cautelare, in mancanza di una disciplina espressa del procedimento cautelare, deve ritenersi applicabile la tutela apprestata dall’art. 700 c.p.c., correttamente definita come norma di chiusura del sistema.

9 Maggio 2022

Sulla cancellazione di una società con contestuale costituzione di una NewCo

È elusiva (e comporta quindi responsabilità dell’amministratore) l’operazione societaria di scioglimento, liquidazione e cancellazione dal Registro delle Imprese di una società, con contestuale costituzione di una NewCo con denominazione, oggetto sociale, partecipazioni e amministrazione analoghi, all’unico scopo di non adempiere con il patrimonio sociale a un debito della stessa (nella specie, il pagamento delle spese processuali quale soccombente in un precedente contenzioso).

L’ingiustizia del danno risiede nella lesione di un interesse giuridicamente rilevante qual è il diritto di credito, in assenza di una legittima causa di giustificazione: la liquidazione della società e la sua successiva cancellazione dal Registro delle Imprese costituisce nel caso di specie l’evento di danno, condizione per la successiva impossibilità di recuperare il credito, che costituisce il  danno risarcibile.

14 Aprile 2022

Azione personale del socio nei confronti dell’amministratore di una società di capitali

L’azione individuale del socio nei confronti dell’amministratore di una società di capitali non è esperibile quando il danno lamentato costituisca solo il riflesso del pregiudizio al patrimonio sociale, giacché l’art. 2395 c.c., in tema di s.p.a., e l’art. 2476, co. 7, c.c., in tema di s.r.l., esigono che il singolo socio sia stato danneggiato direttamente dagli atti colposi o dolosi dell’amministratore, mentre il diritto alla conservazione del patrimonio sociale appartiene unicamente alla società. La mancata percezione degli utili e la diminuzione di valore della quota di partecipazione non costituiscono danno diretto del singolo socio, poiché gli utili fanno parte del patrimonio sociale fino all’eventuale delibera assembleare di distribuzione e la quota di partecipazione è un bene distinto dal patrimonio sociale la cui diminuzione di valore è conseguenza soltanto indiretta ed eventuale della condotta dell’amministratore.

5 Aprile 2022

Legittimazione attiva del curatore fallimentare per l’esercizio dell’azione dei creditori sociali

Dopo il fallimento della società debitrice l’azione di cui all’art. 2394 c.c. è esperibile in via esclusiva dal curatore del fallimento della stessa, con la legittimazione del quale non può concorrere quella dei creditori sociali per l’azione di loro spettanza, essendo quest’ultima assorbita, in costanza della procedura fallimentare, dall’azione di massa e non potendo, quindi, finché dura il fallimento, ad essa sopravvivere, ancorché il curatore rimanga inerte. Rimane in capo al singolo creditore della società fallita la diversa azione individuale del terzo di cui all’art. 2395 c.c., che presuppone un “danno diretto” al patrimonio del terzo-creditore, derivante dall’azione dolosa o colposa degli amministratori della fallita.

30 Marzo 2022

Responsabilità dell’amministratore per danno diretto e responsabilità solidale del socio di s.r.l.

La norma di cui all’art. 2476, co. 7, c.c., nel prevedere il diritto al risarcimento dei danni spettante ai singoli soci che si assumano direttamente danneggiati da atti colposi o dolosi degli amministratori, regola, al pari di quella di cui all’art. 2395 c.c., una specie della fattispecie generale di responsabilità extracontrattuale prevista dall’art. 2043 c.c. e dell’obbligo ivi fatto al danneggiante di risarcire i danni causati contra ius a terzi con atti e fatti non iure dati. Ciò in quanto mentre il rapporto che si forma tra la società di capitali e l’amministratore ha la sua fonte in un atto di nomina e di accettazione che instaura tra le parti un vero e proprio contratto avente ad oggetto la diligente gestione – secondo statuto e legge – della società, tale per cui il dovere dell’organo amministrativo di conservare e investire al meglio il patrimonio sociale ha natura contrattuale e il suo inadempimento – anche sotto il profilo degli oneri processuali di prova – è regolati dagli artt. 1218 e 1176 c.c., per quanto concerne il rapporto tra il socio e la società il diaframma della persona giuridica è tale da rendere i soci, nei rapporti con l’amministratore, terzi sia pur qualificati privi di un diretto e vincolante rapporto obbligatorio con il gestore del patrimonio sociale. Ne consegue che, ove i soci alleghino che determinati atti gestori abbiano inferto un danno diretto alla propria sfera giuridico-patrimoniale, incombe pienamente loro la prova piena della condotta illecita – anche sotto il suo profilo soggettivo di colpevolezza – nonché del danno e del nesso di causalità, pure diretta, tra i due termini della fattispecie risarcitoria.

L’azione individuale di responsabilità in materia societaria esige che il comportamento doloso o colposo dell’amministratore, posto in essere tanto nell’esercizio dell’ufficio, quanto al di fuori delle incombenze ad esso correlate, abbia determinato un danno che incida direttamente sul patrimonio del socio o del terzo. È, invece, irrilevante che il danno sia stato arrecato dagli amministratori nell’esercizio del loro ufficio o al di fuori di tali incombenze, ovvero che tale danno sia ricollegabile ad un inadempimento della società, né, infine, che l’atto lesivo sia stato eventualmente compiuto dagli amministratori nell’interesse della società e a suo vantaggio. Infatti, dalla formulazione dell’art. 2395 c.c. emerge chiaramente come l’unico dato significativo ai fini della sua applicazione sia costituito dall’incidenza del danno. La sussistenza di una condotta dolosa o colposa degli amministratori medesimi, del danno e del nesso causale tra questa e il danno patito dal terzo contraente si pongono come elementi tanto necessari, quanto sufficienti al riguardo.

La responsabilità solidale del socio di s.r.l. di cui all’art 2476 co 8 c.c. prevede tre presupposti per il riconoscimento della responsabilità: l’alterità soggettiva del socio rispetto agli amministratori, il compimento da parte dell’amministratore di un atto dannoso e la qualità di socio del soggetto che decide od autorizza (intenzionalmente) il compimento dell’atto dannoso.

La responsabilità viene in rilievo non già per una semplice assenza di controllo e neppure, in ipotesi di effettiva esistenza dell’atto dannoso, per la mera riconducibilità di tale atto al socio, ma solo in caso di intenzionale decisione o autorizzazione, da parte del socio, di quegli specifici atti dannosi da intendersi quale piena coscienza di compiere quell’atto decisionale o autorizzatorio potenzialmente dannoso e perciò deve indicare la riferibilità psicologica dell’atto al socio. Per tale ragione, la responsabilità del socio è solidale con quella degli amministratori. Il socio per integrare la fattispecie di cui all’art. 2476, co. 8, c.c. deve aver compiuto atti o comportamenti tali da supportare intenzionalmente l’azione illegittima e dannosa poi posta in essere dagli amministratori: è sufficiente che vi sia la consapevolezza, frutto di conoscenza o di esigibile conoscibilità, da parte del socio dell’antigiuridicità dell’atto e che, nonostante ciò, costui partecipi alla fase decisionale finalizzata al successivo compimento di quell’atto da parte dell’amministratore. L’intenzionalità, in questa prospettiva, è costituita dalla piena coscienza di compiere quell’atto decisionale o autorizzatorio potenzialmente dannoso e, in definitiva, dalla riferibilità psicologica dell’atto al socio.

14 Marzo 2022

L’insanabilità dell’azione di responsabilità per l’errata indicazione dei legittimati passivi

Il giudizio ex art. 2395 c.c. instaurato nei confronti della società verso la quale non sono state formulate domande, e priva della citazione dei soggetti – componenti il Consiglio di Amministrazione – nei cui confronti le domande sono state proposte, è causa di rigetto della domanda.
Non può pertanto essere accolta la richiesta di integrazione del contraddittorio nei confronti del terzo consigliere, in quanto la domanda, per come proposta, sconta un vizio di fondo costituito dalla citazione in giudizio di un unico soggetto (la società) che non è il legittimato passivo dell’azione; bensì, poteva essere, in caso di domanda formulata ex art. 2476 c.c. (caso diverso dal presente), il litisconsorte necessario dal lato attivo. L’ordine di integrazione del contraddittorio – richiesto ma disatteso dal giudice istruttore – ha infatti la funzione di garantire la regolarità del processo, ma non può sanare l’errata individuazione dei soggetti legittimati passivi della domanda, che attiene al merito del giudizio.