Art. 2403 c.c.
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Responsabilità di amministratori e sindaci di società consortile
La società consortile non ha una propria disciplina, dovendosi, per l’effetto, applicare di volta in volta le norme previste per il tipo di società scelto all’atto di relativa costituzione. Ne deriva che, linea di principio, ove i soci abbiano così costituito il consorzio sotto forma di società di persone o di capitali dovrà applicarsi la disciplina della corrispondente tipologia di compagine.
Dalla qualificazione della responsabilità degli amministratori ex art. 2476 c.c. in termini di responsabilità contrattuale (colposa) deriva che, mentre sulla società che agisce grava l’onere di dimostrare la sussistenza delle violazioni agli obblighi, i pregiudizi concretamente sofferti ed il nesso eziologico tra l’inadempimento ed il danno prospettato, per converso compete all’amministratore l’onere di dimostrare la non imputabilità a sé del fatto danno, ovvero di fornire la prova positiva, con riferimento agli addebiti contestati, dell’osservanza dei doveri e dell’adempimento degli obblighi posti a suo carico. Deve, infatti, ritenersi operante la presunzione di colpa di cui al generale disposto dell’art. 1218 c.c., con la conseguenza che la società che agisce con il rimedio di cui all’art. 2476 c.c. non è tenuta ad offrire la prova positiva del cennato elemento soggettivo. Il tutto, in ogni caso, nei limiti dell’art. 1223 c.c., con la conseguenza che all’amministratore di società di capitali legato ad essa da un rapporto di mandato che, pure, si sia reso responsabile di condotte illecite, non potrà imputarsi ogni effetto patrimoniale dannoso che la società sostenga di aver subìto ma, al contrario, soltanto quei pregiudizi che si pongano quale conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento ascrittogli.
Quanto ai doveri dei sindaci in generale, giova rammentare che il controllo del collegio sindacale non è circoscritto all’operato degli amministratori, estendendosi, invero, a tutta l’attività sociale, con funzione di tutela non solo dell’interesse dei soci, ma anche di quello, concorrente, dei creditori sociali.
I sindaci possono essere chiamati a rispondere dei danni sofferti dalla società ovvero dai creditori sociali sia nel caso in cui l’evento lesivo sia conseguenza del mancato o negligente adempimento dei doveri di verità e segretezza che la legge pone specificamente a carico dell’organo di controllo, sia nel caso in cui il pregiudizio lamentato sia conseguenza, anche ed innanzitutto, di un comportamento doloso o colposo degli amministratori, che i sindaci avrebbero potuto e dovuto prevenire nell’espletamento dei loro compiti. Originando quindi la responsabilità dei sindaci sia per fatto proprio che per omissione del controllo, è chiaro che, vigente il principio di colpevolezza, la responsabilità concorrente del collegio sindacale per i fatti dannosi ascrivibili agli amministratori sussisterà solo nel caso in cui ai sindaci potrà in ogni caso addebitarsi il mancato o negligente espletamento dei compiti di controllo. Segnatamente, i sindaci rispondono non per il fatto in sé degli amministratori foriero di danni, ma solo se ed in quanto, in relazione all’evento lesivo oggetto di doglianza, sia configurabile, a loro carico, la violazione dell’obbligo di esercitare il controllo sull’amministrazione della società con la diligenza richiesta dal comma primo dell’art. 2407 c.c., di denunciare le irregolarità riscontrate e di assumere, se necessario, le iniziative sostitutive dell’organo gestorio.
La responsabilità concorrente dei sindaci, pur trovando uno dei suoi presupposti nell’illegittimo comportamento degli amministratori, resta pur sempre una responsabilità per fatto proprio dei componenti dell’organo di controllo, postulando che i sindaci siano venuti meno al loro dovere di vigilare sugli amministratori e di impedire il compimento di attività illegittime ad opera di costoro; il tutto, peraltro, con l’importante conseguenza che detta responsabilità potrà essere affermata solo ove sia in concreto dimostrata anche l’esistenza di un nesso di causalità tra l’inosservanza dell’obbligo di controllo gravante sui sindaci ed il pregiudizio prodotto dall’illecito comportamento degli amministratori.
Responsabilità di amministratori e sindaci, la nozione di insolvenza
L’azione di responsabilità dei creditori sociali nei confronti degli amministratori di società ex art. 2394 c.c., pur quando promossa dal curatore fallimentare a norma dell’art. 146 l. fall., è soggetta a prescrizione quinquennale, che decorre dal momento dell’oggettiva percepibilità, da parte dei creditori, dell’insufficienza dell’attivo a soddisfare i debiti (e non anche dall’effettiva conoscenza di tale situazione), che, a sua volta, dipendendo dall’insufficienza della garanzia patrimoniale generica (art. 2740 c.c.), non corrisponde allo stato d’insolvenza di cui all’art. 5 l. fall., derivante, innanzitutto, dall’impossibilità di ottenere ulteriore credito; in ragione dell’onerosità della prova gravante sul curatore, sussiste una presunzione iuris tantum di coincidenza tra il dies a quo di decorrenza della prescrizione e la dichiarazione di fallimento, ricadendo sull’amministratore (o sugli altri organi societari), la prova contraria della diversa data anteriore d’insorgenza dello stato d’incapienza patrimoniale, con la deduzione di fatti sintomatici di assoluta evidenza, la cui valutazione spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se non per vizi motivazionali che la rendano del tutto illogica o lacunosa.
Ai fini dell’accertamento della responsabilità degli amministratori e dei sindaci, è necessario sia provare il danno, consistente nel deterioramento effettivo e materiale della situazione patrimoniale della società, sia la riconducibilità causale di detto danno alla condotta omissiva o commissiva degli amministratori e dei sindaci. In particolare, la concessione di prestiti fruttiferi, che, dunque, prevedono un ritorno per la società, a parti correlate, implica l’insorgenza di un danno e, dunque, la responsabilità di amministratori e sindaci, allorché si verifica l’inadempimento dell’obbligo di restituire le somme corrisposte; il danno, comunque, è necessariamente correlato alla mancata restituzione, per la somma non recuperata, e, se del caso, per i conseguenti danni per interessi corrisposti su indotto fabbisogno finanziario, e per eventuali sanzioni amministrative. A fronte di atti distrattivi, in quanto destinati a finalità estranee all’oggetto sociale, il danno va commisurato alla diminuzione patrimoniale subita dalla società per effetto dei prelevamenti.
Per essere esonerati da responsabilità i sindaci non devono limitarsi a vigilare e a denunciare nella relazione al bilancio le censure alla condotta dell’organo gestorio, ma è altresì necessario che si attivino al fine di porre in essere gli atti necessari, e a dare attuazione ad ogni loro potere di sollecitazione e denuncia. Deve, infatti, ritenersi che ricorre il nesso causale tra la condotta inerte antidoverosa dei sindaci di società e l’illecito perpetrato dagli amministratori ai fini della responsabilità dei primi, secondo la probabilità e non necessariamente la certezza causale, se, con ragionamento controfattuale ipotetico, l’attivazione degli stessi avrebbe ragionevolmente evitato l’illecito, tenuto conto di tutta la possibile gamma di iniziative che il sindaco può assumere, esercitando i poteri-doveri della carica.
L’art. 2, co. 1, lett. b), c.c.i.i. definisce lo stato d’insolvenza come lo stato del debitore che si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni. È da escludersi, pertanto, che sussista lo stato d’insolvenza in presenza di un passivo di bilancio, od allorché la difficoltà di adempimento delle obbligazioni sia momentanea, e non cronica, e riguardi non tutte le obbligazioni, ma solo poche obbligazioni in un lasso di tempo limitato. L’insolvenza, invero, dev’essere valutata dinamicamente, in relazione cioè al complesso delle operazioni economiche ascrivibili all’impresa: dunque a un elemento legato non all’incapienza in sé del patrimonio dell’imprenditore, ma a una vera impotenza patrimoniale definitiva e irreversibile, e non è, invece, ravvisabile in una mera temporanea impossibilità di regolare adempimento delle obbligazioni assunte.
Allorché sia sottoposta all’assemblea di una s.r.l. la richiesta, rivolta ai soci, di versare somme a titolo di finanziamento, la sua approvazione non fa sorgere di per sé, neppure in capo a chi abbia espresso voto favorevole, l’obbligo di eseguire il versamento, essendo all’uopo necessaria un’ulteriore, distinta manifestazione di volontà negoziale da parte di ciascun socio uti singulus, la cui prova non richiede forme particolari.
Il contenuto della delibera di azione di responsabilità contro gli amministratori; la responsabilità dei sindaci per culpa in vigilando
L’art. 2393 c.c. non richiede che la deliberazione con cui l’assemblea autorizza l’esercizio dell’azione sociale di responsabilità rechi una specifica motivazione volta ad illustrare le ragioni che giustificano tale scelta, tantomeno che rechi una individuazione specifica delle condotte degli amministratori asseritamene contrarie ai doveri imposti agli amministratori dalla legge o dallo statuto. Ne deriva che è da escludere che la delibera prevista dall’art. 2393 c.c. circoscriva l’esercizio dell’azione sociale di responsabilità solo agli atti di mala gestio eventualmente riportati nella relativa motivazione e che deve essere ritenuto senz’altro ammissibile, in sede di proposizione, fondare l’azione su fatti diversi da quelli specificamente esaminati dall’assemblea. A differenza di altre deliberazioni societarie, non è necessario che detta delibera sia motivata, né che individui in maniera specifica tutti gli addebiti, essendo sufficiente che emerga la volontà dei soci di ottenere per via giudiziaria il risarcimento del danno causato dalla mala gestio di determinati amministratori, poiché la delibera è soltanto una condizione dell’azione e non può predeterminarne il contenuto, che deve invece essere rimesso al vaglio degli amministratori attuali non in conflitto di interessi. L’azione di responsabilità, pertanto, non solo può essere concretamente esercitata nei confronti di alcuni soltanto degli amministratori indicati nella delibera assembleare, ma può anche essere fondata su fatti diversi da quelli specificatamente esaminati dall’assemblea in sede di delibera della relativa azione.
Per poter accertare la sussistenza della responsabilità dei sindaci in concorso omissivo con il fatto illecito degli amministratori o dei liquidatori, colui che propone l’azione ex art. 2407 c.c. ha l’onere di allegare specificamente quali doveri sono rimasti inadempiuti e quali poteri non sono stati esercitati dai sindaci, nonché di provare il danno e il nesso di causalità tra quelle omissioni e il danno, nesso che può ritenersi sussistente quando il danno non si sarebbe prodotto se essi avessero vigilato in conformità degli obblighi della loro carica (art. 2407, co. 2, c.c.), cioè quando, in base ad un ragionamento controfattuale ipotetico, l’attivazione diligente dei poteri che la legge accorda loro lo avrebbe ragionevolmente evitato o limitato. Ciò accade, in particolare, quando i sindaci non abbiano rilevato una macroscopica violazione o non abbiano in alcun modo reagito di fronte ad atti di dubbia legittimità e regolarità, specie se protratti per un lasso di tempo apprezzabile, poiché in tal caso il mantenimento di un comportamento inerte implica che non si sia vigilato adeguatamente sulla condotta degli amministratori (o dei liquidatori) pur nella esigibilità di un diligente sforzo per verificare la situazione anomala e porvi rimedio, col fine di prevenire eventuali danni.
Se lo statuto della società non stabilisce il diritto dell’amministratore al compenso, esso è determinato dall’assemblea ordinaria dei soci all’atto della nomina o successivamente. In mancanza di determinazione in seno allo statuto è pertanto necessaria, perché sorga in capo all’amministratore il diritto al compenso, un’esplicita delibera assembleare. Le medesime regole valgono anche con riferimento al liquidatore, al quale lo statuto dell’amministratore, mutatis mutandis, è applicabile (art. 2489 c.c.).
Sede appropriata per la verifica dei soci in ordine alla correttezza, da parte dell’organo amministrativo, della liquidazione dei propri compensi sulla base di criteri già stabiliti in apposita e previa sede assembleare ed assumere le relative determinazioni, ben può essere anche l’ approvazione del bilancio di esercizio, considerando che tale delibera è pur capace di esplicare limitati e condizionati effetti negoziali non già, come ovvio, nei rapporti della società con terzi, ma nei rapporti interni, non solo tra soci e tra soci e società (es.: vincolo, solo per i soci che lo abbiano approvato, del bilancio che reca un determinato regime dei loro finanziamenti), ma anche con riferimento ai rapporti interni tra organo amministrativo proponente il progetto di bilancio e società. Tuttavia, perché in sede di approvazione del bilancio possa dirsi formata un’effettiva volontà dei soci in ordine al riconoscimento / ratifica del compenso erogato all’organo gestorio, è necessario che la relativa appostazione sia chiara e specifica sia con riferimento all’attribuzione della somma pagata all’organo stesso a titolo di compenso, sia con riferimento al suo ammontare.
Il revisore è il soggetto preposto per legge al controllo dei conti delle società di capitali. L’attività del revisore consta di due diverse fasi: quella ispettivo-ricognitiva e quella valutativa. Il revisore, infatti, verifica periodicamente la regolare tenuta della contabilità sociale e la corretta rilevazione nelle scritture contabili dei fatti di gestione; a ciò segue la fase valutativa nella quale egli accerta se il bilancio di esercizio e, ove redatto, il bilancio consolidato corrispondano alle risultanze delle scritture contabili e siano stati redatti correttamente, esprimendo il relativo giudizio in apposita relazione (artt. 11 e 14 d.lgs. n. 39/2010). Il revisore contabile ha dunque prevalentemente doveri informativi che consistono specialmente nell’esprimere la valutazione sul bilancio di esercizio ma anche nel fornire tempestivamente al collegio sindacale informazioni rilevanti per l’espletamento dei rispettivi compiti ex art. 2409 septies c.c. La presentazione di dichiarazioni fiscali è un’attività di natura senz’altro gestoria ed esula dai poteri preventivi di controllo del revisore.
Doveri e poteri dei sindaci
Compito essenziale del collegio sindacale ex art. 2403 c.c. è il controllo, secondo la diligenza professionale ex art. 1176 c.c., del rispetto da parte dell’organo gestorio dei principi di corretta amministrazione, verificando in ogni tempo che gli amministratori compiano scelte nell’osservanza delle regole che disciplinano il corretto procedimento decisionale, alla stregua delle circostanze del caso concreto. Dunque, il controllo sindacale deve essere accurato e penetrante, e deve esplicarsi anche nella richiesta agli amministratori di notizie sull’andamento delle operazioni sociali o su determinati affari , riguardando qualsiasi aspetto organizzativo, amministrativo e contabile. Si tratta di un controllo non meramente formale, ma coinvolgente anche la legittimità sostanziale dell’attività sociale, con verifica dell’osservanza della legge e dell’atto costitutivo, senza però estendersi all’esame dell’opportunità e della convenienza delle singole scelte gestionali, il cui apprezzamento è riservato alla competenza esclusiva degli amministratori e dei soci. Le norme, sulla cui osservanza i sindaci sono tenuti a vigilare, sono poste, oltre che nell’interesse dei soci e della società, anche nell’interesse, concorrente o esclusivo, dei creditori sociali, disponendo i sindaci di numerosi strumenti di reazione e rimedi idonei ad evitare la prosecuzione di condotte gestorie dannose e impedire l’acuirsi del pregiudizio subito dalla società, quali: i) la richiesta di informazioni o di ispezione ex art. 2403-bis c.c., ii) la segnalazione all’assemblea delle irregolarità riscontrate, iii) i solleciti alla revoca della deliberazione illegittima, iv) l’impugnazione della deliberazione viziata ex artt. 2377 ss. c.c., v) la convocazione dell’assemblea ai sensi dell’art. 2406 c.c., vi) il ricorso al tribunale per la riduzione del capitale per perdite ex artt. 2446-2447 c.c., vii) il ricorso al tribunale per la nomina dei liquidatori ai sensi dell’art. 2487 c.c., e viii) ove siano riscontrabili gravi irregolarità gestionali, il ricorso al rimedio giurisdizionale di cui all’art 2409 c.c. La responsabilità dei sindaci, in solido con gli amministratori, ai sensi dell’art 2407, comma 2, c.c., presuppone dunque non solo che i primi non abbiano ottemperato ai doveri di vigilanza inerenti alla loro carica, ma anche l’esistenza di un nesso di causalità tra le violazioni addebitate e il danno accertato, onde i sindaci possono essere chiamati a rispondere delle perdite patrimoniali della società solo nel caso e nella misura in cui queste ultime siano ad essi (e al loro mancato intervento) direttamente imputabili.
Responsabilità di amministratori e sindaci: profili processuali dell’azione esercitata dal curatore fallimentare
La prescrizione quinquennale dell’azione ex art. 2394 c.c. decorre dal momento in cui l’insufficienza dell’attivo patrimoniale della società debitrice diviene oggettivamente percepibile da parte dei creditori, e quindi di soggetti non tenuti a, né capaci di, analisi ulteriori e diverse rispetto a quanto reso pubblico dalla debitrice nei propri bilanci e negli altri atti pubblicati nel registro delle imprese. Tale momento coincide presuntivamente con la dichiarazione di fallimento, a meno che gli amministratori e sindaci convenuti provino l’oggettiva e inequivoca emersione dell’incapienza patrimoniale prima di tale data (quale il deposito nel registro delle imprese di domanda concordataria o di accordo di ristrutturazione, ovvero di delibera di messa in liquidazione fondata sulla causa di scioglimento di cui all’art. 2484, co. 1, n. 4 c.c.). Per i fatti che integrano reati fallimentari, anche nella forma del concorso o della cooperazione colposa, la prescrizione decorre dalla dichiarazione di fallimento con applicazione ex art. 2947, co. 3 c.c. del termine sessennale previsto dalla disciplina penale.
L’autorizzazione a promuovere un’azione giudiziaria conferita dal giudice delegato al curatore copre tutte le possibili pretese ed istanze strumentalmente pertinenti al conseguimento del previsto obiettivo principale del giudizio cui l’autorizzazione si riferisce, col solo limite della necessità di munirsi di nuova autorizzazione per i gradi di giudizio successivi.
Per l’emissione di una sentenza di condanna risarcitoria generica ex art. 278 c.p.c., necessaria e sufficiente è l’esistenza dell’illecito (e quindi l’illegittimità delle condotte rimproverate agli ex componenti degli organi amministrativi e di controllo convenuti) e la sua portata dannosa, sommariamente accertate secondo valutazione probabilistica. La quantificazione della provvisionale presuppone invece la valutazione positiva del giudice di merito circa il raggiungimento della prova piena su quella certa quantità di danno che ne costituisca l’oggetto.
Azione di responsabilità esercitata dal curatore: onere della prova ed effetti della transazione pro quota
L’azione sociale di responsabilità ha natura contrattuale e dunque spetta al fallimento allegare l’inadempimento, ovvero indicare il singolo atto gestorio che si pone in violazione dei doveri degli amministratori e dei sindaci posti dalla legge o dallo statuto, e il danno derivante da tale inadempimento, mentre è onere dei convenuti contrastare lo specifico addebito, fornendo la prova dell’esatto adempimento.
Devono rispondere in concorso con gli amministratori i sindaci che, omettendo i doverosi controlli sull’attività amministrativa e sulla regolarità degli assetti organizzativi, amministrativi e contabili e quindi omettendo di assumere le doverose iniziative in tal senso connesse all’incarico assunto, hanno consentito che l’organo gestorio continuasse l’attività imprenditoriale intrapresa a fronte di una sempre più evidente situazione di dissesto e di irregolarità della prosecuzione dell’attività.
La disposizione di cui all’art. 1304, co. 1, c.c., secondo cui la transazione fatta dal creditore con uno dei debitori solidali giova agli altri che dichiarino di volerne profittare, si riferisce soltanto alla transazione stipulata per l’intero debito solidale e non è quindi applicabile quando la transazione è limitata al solo rapporto interno del debitore che la stipula.
La transazione pro quota è tesa a determinare lo scioglimento della solidarietà passiva rispetto al debitore che vi aderisce e, tenuto conto del fatto che essa non può né condurre a un incasso superiore rispetto all’ammontare complessivo del credito originario, né determinare un aggravamento della posizione dei condebitori rimasti a essa estranei, neppure in vista del successivo regresso nei rapporti interni, deve necessariamente pervenirsi alla conclusione che il debito residuo dei debitori non transigenti è destinato a ridursi in misura corrispondente all’ammontare di quanto pagato dal condebitore che ha transatto solo se costui ha versato una somma pari o superiore alla sua quota ideale di debito.
Non sussiste responsabilità degli amministratori per il deposito di una domanda di ammissione al concordato preventivo in presenza dei presupposti fissati dalla legge
Gli amministratori e gli organi sociali possono essere ritenuti responsabili con riguardo al pagamento di professionisti incaricati di verificare le condizioni di una richiesta concordataria nonché di redigere le relative relazioni tecniche soltanto laddove l’istanza di concordato risulti essere stata proposta abusivamente, cioè ex ante irrazionale e arbitraria, e dunque del tutto infondata, posto che la richiesta di una procedura concorsuale o di una procedura alternativa da parte di una società in crisi o insolvente è prevista dall’ordinamento, in astratto del tutto legittima ed anzi doverosa. L’arbitrarietà della domanda di concordato dev’essere misurata non sulla semplice declaratoria di inammissibilità ovvero sull’intervenuto rigetto da parte del Tribunale, occorrendo invero un quid pluris, in specie rappresentato dalla conoscenza ex ante dell’insussistenza dei presupposti per adire la procedura. In sintesi, la mala gestio e la negligenza poste in essere dall’organo gestorio sussistono in quanto la domanda sia appunto qualificabile in termini di abuso del diritto.
La domanda di concordato preventivo presentata dal debitore non per regolare la crisi dell’impresa attraverso un accordo con i suoi creditori, ma con il palese scopo di differire la dichiarazione di fallimento, è inammissibile in quanto integra gli estremi di un abuso del processo, che ricorre quando, con violazione dei canoni generali di correttezza e buona fede, nonché dei principi di lealtà processuale e del giusto processo, si utilizzano strumenti processuali per perseguire finalità eccedenti o deviate rispetto a quelle per le quali l’ordinamento li ha predisposti.
I poteri-doveri degli amministratori non delegati e dei sindaci ed i relativi profili di insorgenza di responsabilità sociale
Con riferimento alla responsabilità degli amministratori esecutivi e del direttore generale di una società per azioni, il richiamo al principio del business judgement rule (ovvero l’insindacabilità del merito delle scelte di gestione quale fonte di danno per la società) trova un limite nella valutazione di ragionevolezza delle stesse da compiersi sia ex ante, sia tenendo conto della mancata adozione delle cautele, delle verifiche e delle informazioni preventive, normalmente richieste per una scelta di quel tipo e della diligenza mostrata nell’apprezzare preventivamente i margini di rischio connessi all’operazione da intraprendere. Sussiste in altri termini la responsabilità degli amministratori, allorquando le operazioni poste in essere siano state quantomeno avventate e contrarie agli interessi della società; grava sugli amministratori l’onere della prova – con riferimento agli addebiti contestati – della osservanza dei doveri previsti dall’art. 2392 c.c., con la conseguenza che gli amministratori dotati di deleghe (c.d. operativi) – ferma l’applicazione della business judgement rule – rispondono non già con la diligenza del mandatario, come nel caso del vecchio testo dell’art. 2392 c.c. , ma in virtù della diligenza professionale esigibile ex art.1176 comma 2 c.c.
Per quanto riguarda, invece, gli amministratori non esecutivi, con la riforma del 2003 è stato abrogato il generico dovere di vigilanza ed è stato introdotto il dovere di agire informati, cioè di acquisire relativamente alla gestione della società quelle informazioni che sono necessarie per poter prendere decisioni meditate e consapevoli (art. 2381 cc.). E’ stata resa più rigorosa la diligenza esigibile dagli amministratori che è passata dalla generica diligenza del mandatario a quella professionale caratterizzata da una triplice articolazione, ovvero diligenza richiesta: i. dalla natura dell’incarico; ii. dalle competenze; iii. dal dovere degli amministratori di agire informati. Il sistema della responsabilità degli amministratori privi di deleghe posto dagli artt. 2381 e 2392 c.c., conforma l’obbligo di vigilanza dei medesimi non più come avente ad oggetto “il generale andamento della gestione” – quale controllo continuo ed integrale sull’attività dei delegati – ma richiedendo loro, secondo la diligenza esigibile sin dal momento dell’accettazione della carica, di informarsi ed essere informati, anche su propria sollecitazione, degli affari sociali, e di trarne le necessarie conseguenze. Il perdurante dovere di controllo in capo ai medesimi può precisarsi come obbligo di informazione attiva e passiva, nonché di conseguente attivazione, al fine di scongiurare le condotte dei delegati da cui possa derivare danno alla società. In tal senso, permane l’obbligo di attivarsi, qualora a conoscenza di fatti pregiudizievoli, per impedire il compimento o eliminare o attenuare le conseguenze dannose; rispondendo in caso di condotta inerte e di verificarsi del fatto pregiudizievole antidoveroso altrui a titolo di colpa.
Con riferimento ai membri del Collegio sindacale, si osserva che l’art. 2407 c.c. impone ai sindaci l’adempimento dei loro doveri con la professionalità e la diligenza richieste dalla natura dell’incarico e ne prevede la responsabilità solidale con gli amministratori per i fatti o le omissioni di questi quando il danno non si sarebbe prodotto se i sindaci avessero vigilato in conformità agli obblighi della loro carica. I doveri di controllo imposti ai sindaci ex artt. 2403 c.c. e ss. si estendono a tutta l’attività sociale, a tutela non solo dell’interesse dei soci, ma anche di quello dei creditori sociali: tali doveri non riguardano soltanto il controllo meramente formale sulla documentazione messa a disposizione dagli amministratori ma si estendono all’acquisizione di informazioni pregnanti sull’andamento generale dell’attività sociale così come su specifiche operazioni.
La responsabilità “concorrente” dei sindaci ha come presupposto di fatto l’inadempimento degli amministratori: ove l’organo gestorio abbia perpetrato un illecito, i componenti del collegio possono essere ritenuti solidalmente responsabili ove, attraverso il loro colpevole inadempimento, abbiano cooperato alla produzione dell’evento dannoso. Si tratta di una forma di responsabilità diretta per fatto proprio ricollegabile ad un comportamento commissivo od omissivo (doloso o colposo) dei sindaci. Per configurare la responsabilità dei membri del collegio sindacale per omessa vigilanza, non è necessaria la prova che gli stessi conoscessero in concreto l’attività illecita svolta dall’organo amministrativo, essendo per contro sufficiente la rappresentabilità ovvero la conoscenza potenziale di tali illeciti. In tal senso, il dovere di sorveglianza – posto a garanzia dei soci e dei creditori ed a tutela di una finalità preventiva (evitare evento o danno) o mitigatoria (ridurre le conseguenze) delle condotte illegittime gestorie – si concretizza nell’obbligo di: i. vigilare, non solo in funzione preventiva rispetto ad ipotetici atti di abuso di gestione da parte degli amministratori, ma anche in funzione del controllo di un corretto operato della società; ii. esercitare, ove necessario, gli ampi poteri di cui dispone il collegio sindacale di fronte alle iniziative anomale da parte dell’organo amministrativo (il cui mancato esercizio determina il concorso dei sindaci nell’illecito civile commesso dagli amministratori).
Il potere di controllo dei sindaci non si esplica soltanto sulla base delle informazioni offerte dagli amministratori, ma anche attraverso i poteri di indagine loro attribuiti, con la conseguenza che l’obbligo di vigilanza che la legge impone ai sindaci si concretizza in un monitoraggio concreto e costante della gestione e, pertanto, i Sindaci: i. in presenza di informazioni insufficienti o lacunose da parte degli amministratori devono attivarsi in proprio per acquisire gli elementi mancanti; ii. devono svolgere autonomamente ispezioni e controlli e chiedere al consiglio di amministrazione precisazioni e chiarimenti in relazione alle operazioni sociali, non limitandosi a ricevere passivamente le informazioni trasmesse ma assumendo con un ruolo attivo di ricerca dei necessari elementi di valutazione ed esercitando in modo tempestivo il potere-dovere ispettivo.
I poteri-doveri di controllo attribuiti ai sindaci non si esauriscono nella mera verifica contabile della documentazione messa a disposizione dagli amministratori ma, pur non investendo in forma diretta le scelte imprenditoriali, si estendono al contenuto della gestione sociale, a tutela non solo dell’interesse dei soci, ma anche di quello concorrente dei creditori sociali. Ricorre il nesso causale tra la condotta inerte antidoverosa dei sindaci di società e l’illecito perpetrato dagli amministratori ai fini della responsabilità dei primi – secondo la probabilità e non necessariamente la certezza causale – se, con ragionamento controfattuale ipotetico, l’attivazione lo avrebbe ragionevolmente evitato, tenuto conto di tutta la possibile gamma di iniziative che il sindaco può assumere, esercitando i poteri-doveri della carica (quali la richiesta di informazioni o di ispezione ex art. 2403-bis c.c., la segnalazione all’assemblea delle irregolarità riscontrate, i solleciti alla revoca della deliberazione illegittima, l’impugnazione della deliberazione viziata ex artt. 2377 ss. c.c., la convocazione dell’assemblea ai sensi dell’art. 2406 c.c., il ricorso al tribunale per la riduzione del capitale per perdite ex art. 2446-2447 c.c., il ricorso al tribunale per la nomina dei liquidatori ex art. 2487 c.c., la denunzia al tribunale ex art. 2409 c.c., ed ogni altra attività possibile ed utile). Ove i sindaci abbiano mantenuto un comportamento inerte, non vigilando adeguatamente sulla condotta illecita gestoria contraria alla corretta gestione dell’impresa, non è sufficiente ad esonerarli da responsabilità la dedotta circostanza di essere stati tenuti all’oscuro dagli amministratori o di avere essi assunto la carica dopo l’effettiva realizzazione di alcuni dei fatti dannosi, allorché, assunto l’incarico, fosse da essi esigibile lo sforzo diligente di verificare la situazione e di porvi rimedio, onde l’attivazione conformemente ai doveri della carica avrebbe potuto permettere di scoprire tali fatti e di reagire ad essi, prevenendo danni ulteriori.
Le dimissioni presentate non esonerano il sindaco da responsabilità, in quanto non integrano adeguata vigilanza sullo svolgimento dell’attività sociale, per la pregnanza degli obblighi assunti proprio nell’ambito della vigilanza sull’operato altrui e perché la diligenza impone, piuttosto, un comportamento alternativo, allora le dimissioni diventando anzi esemplari della condotta colposa tenuta dal sindaco, rimasto indifferente ed inerte nel rilevare una situazione di reiterata illegalità.
Eccezione d’inadempimento dei doveri del sindaco di s.r.l. nell’opposizione al decreto ingiuntivo
Nell’opposizione al decreto ingiuntivo che condanna la società al pagamento del compenso del sindaco, l’eccezione riconvenzionale di inadempimento dei suoi doveri, pur astrattamente ammissibile anche nel rapporto fra la società e i suoi organi, è infondata se dedotta con mero richiamo ad un parere legale ed in relazione a fatti non compiutamente dedotti nei termini: così formulata neppure pare conforme al canone della buona fede oggettiva richiamato dal capoverso dell’art. 1460 c.c. [nel caso di specie, tale parere era stato peraltro rilasciato solo in relazione ad un’azione di responsabilità autorizzata dall’assemblea della controllante dell’opponente e mai esercitata].
Responsabilità ex art. 2395 c.c. per informazioni decettive nel bilancio: la riserva di rivalutazione a seguito di scissione
L’azione ex art 2395 c.c. non è azione della massa e al relativo esercizio sono legittimati i creditori anche se la società è stata dichiarata fallita. In tema di azioni nei confronti dell’amministratore di società, a norma dell’art. 2395 c.c., il terzo (o il socio) è legittimato, anche dopo il fallimento della società, all’esperimento dell’azione, di natura aquiliana, per ottenere il risarcimento dei danni subiti nella propria sfera individuale, in conseguenza di atti dolosi o colposi compiuti dall’amministratore, solo se questi siano conseguenza immediata e diretta del comportamento denunciato e non il mero riflesso del pregiudizio che abbia colpito l’ente, ovvero il ceto creditorio per effetto della cattiva gestione, dovendosi proporre, altrimenti, l’azione, contrattuale, di cui all’art. 2394 c.c., esperibile, in caso di fallimento della società, dal curatore, ai sensi dell’art. 146 l. fall.
Gli amministratori sono responsabili della formazione dei bilanci portati all’approvazione dell’assemblea, ma nell’ambito della responsabilità ex art 2395 c.c. per informazioni decettive trasmesse con i bilanci occorre valutare in concreto la portata ingannatoria delle informazioni non veritiere dei dati di bilancio in rapporto alla capacità di lettura dei medesimi da parte di chi si assume ingannato.
In tema di obbligazioni derivanti da una pluralità di illeciti ascrivibili a differenti soggetti, qualora soltanto il fatto di un obbligato sia anche reato, mentre quelli degli altri costituiscano illeciti civili, la possibilità di invocare utilmente il più lungo termine di prescrizione stabilito dall’art. 2947, co. 3, c.c. per le azioni di risarcimento del danno se il fatto è previsto dalla legge come reato è limitata all’obbligazione nascente dal reato, né, a tal fine, assume rilievo la citazione nel processo penale, quale responsabile civile, del soggetto obbligato civilmente per una condotta distinta ed autonoma da quella penalmente illecita.
In tema di risarcimento del danno, l’impossibilità di far valere il diritto quale fatto impeditivo della decorrenza della prescrizione ex art. 2935 c.c. è solo quella che deriva da cause giuridiche che ne ostacolino l’esercizio e non comprende, quando il danno sia percepibile all’esterno e conoscibile da parte del danneggiato, gli impedimenti soggettivi o gli ostacoli di mero fatto, tra i quali l’ignoranza, da parte del titolare, del fatto generatore del suo diritto, o il dubbio soggettivo sulla esistenza di tale diritto od il ritardo indotto dalla necessità del suo accertamento.