Art. 2409 c.c.
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Denuncia di gravi irregolarità e gestione di operazioni in conflitto di interessi
L’art 2391 c.c. definisce una serie di fasi che devono essere seguite nel caso sussista un interesse proprio o di terzi: in primo luogo, l’amministratore deve dare notizia agli altri amministratori di questa situazione di interesse per una determinata operazione; in secondo luogo, la notizia deve contenere la natura, i termini, l’origine e la portata del potenziale conflitto; in terzo luogo, la deliberazione del CdA deve adeguatamente motivare le ragioni e la convenienza per la società dell’operazione.
I presupposti per l’adozione dei provvedimenti previsti dall’art. 2409 c.c. sono: il compimento da parte degli amministratori, in violazione dei loro doveri, di gravi irregolarità nella gestione; il danno potenziale; l’attualità delle irregolarità. [Nel caso di specie il Tribunale ritiene sussistenti e attuali le gravi irregolarità richieste dalla norma, in ragione: a) dell’inosservanza della procedura prevista dall’art. 2391 c.c. in tema di conflitto di interessi con riferimento alla stipulazione di contratti di locazione; b) dell’assenza di valutazione in merito alla convenienza per la società di stipulare nuovamente i contratti con parti in conflitto di interessi, nonché dei forti dubbi sulla congruità dei nuovi canoni di locazione; c) dell’assenza di qualsivoglia concreta iniziativa da parte degli amministratori indipendenti per tutelare il patrimonio della società per gli ingenti danni subiti a causa di decenni di canoni notevolmente al di sotto dei valori di mercato.]
Inidoneità della mancanza delle scritture contabili a giustificare la condanna dell’amministratore
La mancanza di scritture contabili, ovvero la sommarietà di redazione di esse o la loro inintelligibilità, non è di per sé sufficiente a giustificare la condanna dell’amministratore in conseguenza dell’impedimento frapposto alla prova occorrente ai fini del nesso di causalità rispetto ai fatti causativi del dissesto. Essa presuppone, invece, per essere valorizzata in chiave risarcitoria nel contesto di una liquidazione equitativa, che sia comunque previamente assolto l’onere della prova, e prima ancora dell’allegazione, circa la l’esistenza di condotte per lo meno astrattamente causative di un danno patrimoniale. Il criterio del deficit fallimentare è applicabile soltanto come criterio equitativo per l’ipotesi di impossibilità di quantificare esattamente il danno, sussistendo però la prova almeno presuntiva di condotte tali da generare lo sbilancio fra attivo e passivo.
Le scritture contabili hanno la funzione di rappresentare dei fatti di gestione e la loro mancanza o la loro irregolare tenuta sono illeciti meramente formali che certamente sono suscettibili di essere valorizzati ad esempio ai fini della revoca dell’amministratore o della denuncia al tribunale ai sensi dell’art. 2409 c.c., ma che, ai fini della responsabilità dello stesso amministratore, non hanno di per sé soli una rilevanza tale da consentire di addebitare allo stesso sic et simpliciter la perdita.
Il risultato negativo di esercizio non è conseguenza immediata e diretta della mancata o dell’irregolare tenuta delle scritture contabili, ma del compimento da parte dell’amministratore di un atto di gestione contrario ai doveri di diligenza, prudenza, ragionevolezza e corretta gestione.
È onere di colui che afferma l’esistenza di una responsabilità dell’amministratore allegare specificamente l’atto o gli atti contrari ai doveri gravanti sull’amministratore, dimostrare l’esistenza di tale atto e del danno al patrimonio sociale. Soltanto una volta soddisfatti tali oneri, la mancanza delle scritture contabili rileva quale presupposto per l’utilizzo dei criteri equitativi differenziali. Il potere del giudice di liquidare equitativamente il danno ai sensi dell’art. 1226 c.c. presuppone pur sempre che vi sia la prova dell’esistenza del medesimo e del nesso di causalità ma che la quantificazione del danno non sia agevole; il potere, invece, non può essere esercitato né invocato dal danneggiato quale modalità per aggirare l’onere della prova relativamente agli elementi costitutivi dell’illecito.
Con riguardo alla responsabilità dell’amministratore per la violazione degli obblighi inerenti la conservazione dell’integrità del patrimonio sociale, la quale sia stata compromessa da prelievi di cassa o pagamenti in favore di terzi in assenza di causa, deve ritenersi dimostrata per presunzioni la distrazione del denaro sociale da parte dell’amministratore ove questi non provi la riferibilità alla società delle spese o la destinazione dei pagamenti all’estinzione di debiti sociali.
Responsabilità degli amministratori non esecutivi
Ai fini della decorrenza della prescrizione dell’azione sociale di responsabilità rileva non già il momento in cui il presupposto dell’azione prevista dall’art. 2394 c.c. è effettivamente conosciuto dai creditori sociali, ma il momento in cui il presupposto di quell’azione diviene da loro oggettivamente percepibile, con due precisazioni: in primo luogo, questo presupposto riguarda l’insufficienza della garanzia patrimoniale generica della società e non corrisponde perciò né allo stato d’insolvenza di cui all’art. 5 l.fall., né alla perdita integrale del capitale sociale; in secondo luogo, il momento in cui questo presupposto diviene oggettivamente conoscibile dai creditori sociali non coincide necessariamente con la dichiarazione di fallimento, ma può collocarsi tanto anteriormente quanto posteriormente ad essa.
L’insufficienza del patrimonio sociale al soddisfacimento dei crediti, rilevante ai fini del decorso della prescrizione quinquennale, può risultare dal bilancio sociale che costituisce, per la sua specifica funzione, il documento informativo principale sulla situazione della società non solo nei riguardi dei soci, ma anche dei creditori e dei terzi in genere. Sicché spetta al giudice di merito, con un apprezzamento in fatto insindacabile in cassazione, accertare se la relazione dei sindaci al bilancio che abbia evidenziato l’inadeguatezza della valutazione di alcune voci – a fronte della quale l’assemblea abbia comunque deliberato la distribuzione di utili ai soci, senza rilievi da parte degli organi di controllo -, sia idonea a integrare di per sé l’elemento della oggettiva percepibilità per i creditori circa la falsità dei risultati attestati dal bilancio sociale.
In tema di responsabilità degli amministratori, l’assenza di delega non esonera di per sé da responsabilità, poiché sugli amministratori grava l’obbligo di verificare e controllare il corretto esercizio della delega conferita ad altri. Di fatti, ai sensi dell’art. 2381, co. 3, c.c., i componenti del CdA deleganti sono comunque tenuti a valutare l’operato dei delegati, richiedere informazioni, impartire direttive, avocare a sé il compimento di atti, tutti doveri che si riflettono nella responsabilità solidale degli amministratori, prevista dall’art. 2392, co. 2, c.c. nel caso in cui pur essendo a conoscenza di fatti pregiudizievoli non hanno adottato le misure idonee a impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose.
La responsabilità dell’amministratore non esecutivo si configura come condotta omissiva colposa, laddove la colpa può consistere, in primo luogo, in un difetto di conoscenza, per non avere rilevato colposamente l’altrui illecita gestione: non è decisivo che nulla traspaia da formali relazioni del comitato esecutivo o degli amministratori delegati, né dalla loro presenza in consiglio, perché l’obbligo di vigilanza impone, ancor prima, la ricerca di adeguate informazioni, non essendo esonerato da responsabilità l’amministratore che abbia accolto il deficit informativo passivamente. Pertanto, si può parlare di colpa in capo all’amministratore nel non rilevare i cd. segnali d’allarme, individuabili anche nella soggezione all’altrui gestione personalistica.
L’amministratore non esecutivo non risponde in modo automatico per ogni fatto dannoso aziendale in ragione della mera posizione di garanzia, ma risponde per una propria condotta omissiva consistente nel mancato esercizio dei poteri impeditivi che l’ordinamento gli riconosce, quali, ad esempio, le richieste di convocazione del consiglio di amministrazione, i solleciti alla revoca della deliberazione illegittima o all’impugnazione della deliberazione viziata, l’attivazione ai fini all’avocazione dei poteri, gli inviti ai delegati di desistere dall’attività dannosa, la denunzia alla pubblica autorità, con informazione al p.m. ai fini della richiesta ex art. 2409 c.c., nella formulazione ante riforma.
Nel caso di responsabilità dell’amministratore per omesso versamento di imposte, il danno risarcibile non coincide con le imposte non versate, che, siccome dovute, rappresentano un debito titolato, che non diventa danno solo per il fatto di essere rimasto inadempiuto, ma è pari all’importo delle sanzioni, spese esecutive e aggi, che non sarebbero stati applicati se l’amministratore avesse ottemperato tempestivamente all’obbligo di versamento delle imposte.
In tema di responsabilità dei sindaci, la configurabilità dell’inosservanza del dovere di vigilanza imposto ai sindaci dall’art. 2407, co. 2, c.c. non richiede l’individuazione di specifici comportamenti che si pongano espressamente in contrasto con tale dovere, ma è sufficiente che essi non abbiano rilevato una macroscopica violazione o comunque non abbiano in alcun modo reagito di fronte ad atti di dubbia legittimità e regolarità, così da non assolvere l’incarico con diligenza, correttezza e buona fede, eventualmente anche segnalando all’assemblea le irregolarità di gestione riscontrate ovvero denunciandole al tribunale, ai sensi dell’art. 2409 c.c.
La responsabilità dei sindaci
Il collegio sindacale risponde, oltre che del danno arrecato dai suoi componenti alla società e al ceto creditorio a causa della violazione dei loro doveri o dal loro non diligente adempimento, anche – come espressamente previsto dall’art. 2407, co. 2, c.c. – in solido con gli amministratori per gli illeciti commessi da questi ultimi, quando il danno non si sarebbe prodotto se i sindaci avessero vigilato in conformità ai loro obblighi.
Il collegio sindacale, qualora rilevi, ai sensi dell’art. 2407 c.c., un abusivo ricorso alla procedura di concordato preventivo – per l’assenza di reali prospettive di riuscita di un piano di concordato –, è onerato di sollevare la questione all’interno della società e di adottare conseguenti iniziative, da ultimo il ricorso alla denuncia al tribunale ex art. 2409 c.c.; diversamente operando, risponde in solido con gli amministratori.
Il ricorso abusivo al concordato preventivo avviene quando esso è unicamente volto a posticipare fraudolentemente il fallimento o l’adempimento agli obblighi conseguenti al verificarsi di una causa di scioglimento. Tale abusività pertiene alla condotta e allo stato soggettivo dell’organo amministrativo, che tale concordato presenta. Il concorso omissivo dei sindaci nella prosecuzione abusiva dell’attività mantiene il suo carattere colposo: infatti l’omissione è concettualmente compatibile con il dolo nella sola forma del dolo eventuale. Il ricorso abusivo alla procedura non è tale da determinare un autonomo danno, rispetto a quello derivante dalla pura e semplice continuazione dell’attività. Tale abuso invece rileva quale circostanza che rende irrilevante il beneficio di cui all’art. 182 sexies l.fall. e la sospensione degli obblighi conseguenti alla perdita di capitale. Ove il ricorso all’istituto sia abusivo, infatti, i benefici formalmente assicurati dalla disciplina di esso non rilevano a sollevare gli amministratori dal mancato assolvimento a tali obblighi, in quanto tali benefici sono stati ottenuti contra legem.
L’obbligazione risarcitoria solidale degli amministratori e dei sindaci può soggiacere a fatti estintivi, che operano secondo le regole ordinarie. La transazione relativa alla sola quota di responsabilità dei soggetti transigenti (ad esempio, dei soli amministratori) scioglie la solidarietà limitatamente a tali soggetti, lasciando intatta la responsabilità degli altri; sia tale transazione novativa o non novativa, essa opera solo sulla quota.
La prescrizione quinquennale dell’azione sociale di responsabilità verso il collegio sindacale decorre dal momento in cui la società – i suoi amministratori – è stata posta a conoscenza o è stata in grado di conoscere o avrebbe dovuto conoscere, operando con diligenza, l’effetto lesivo dei singoli atti o delle omissioni dei sindaci, costituenti ad esempio il mancato controllo o la mancata reazione rispetto a condotte gestorie indebite degli amministratori.
Responsabilità di amministratori, sindaci e revisore
Gli elementi costitutivi della fattispecie integrante la responsabilità solidale degli amministratori non esecutivi sono, sotto il profilo oggettivo, la condotta d’inerzia, il fatto pregiudizievole anti doveroso altrui e il nesso causale tra i medesimi e, sotto il profilo soggettivo, almeno la colpa, i cui caratteri risultano indicati all’art. 2392 c.c. La norma stabilisce che la colpa può consistere o nell’inadeguata conoscenza del fatto di altri, il quale in concreto abbia cagionato il danno, o nel non essersi il soggetto con diligenza utilmente attivato al fine di evitare l’evento, aspetti entrambi ricompresi nel concetto di essere immuni da colpa. La regola della responsabilità solidale e presunta come paritaria in capo a tutti i componenti dell’organo gestorio viene meno, però, a fronte della prova della concreta insussistenza o ininfluenza della condotta di taluno nella causazione del danno. Permane ai sensi dell’art. 2381 c.c. il dovere di vigilare sul generale andamento della società rispetto al quale non ha alcun rilievo il difetto di delega, salva la prova che gli altri consiglieri, pur essendosi diligentemente attivati, non abbiano potuto in concreto esercitare detta vigilanza a causa del comportamento ostativo degli altri componenti del consiglio.
I presupposti della responsabilità dei sindaci, in concorso con quella degli amministratori, sono: la commissione, da parte degli amministratori, di un atto di mala gestio, la derivazione causale da tale atto di un danno a carico della società ex art. 2393 c.c., la derivazione di un danno dall’omessa o inadeguata vigilanza sull’operato degli amministratori da parte dei sindaci. Compito essenziale ex art. 2403 c.c. dell’organo di controllo è di verificare, secondo la diligenza professionale ex art. 1176 c.c., il rispetto dei principi di corretta amministrazione, controllando in ogni tempo che gli amministratori compiano la scelta gestoria nell’osservanza di tutte le regole che disciplinano il corretto procedimento decisionale, alla stregua delle circostanze del caso concreto. I doveri di controllo imposti ai sindaci sono contraddistinti da particolare ampiezza, si estendono a tutta l’attività sociale in funzione della tutela e dell’interesse dei soci e di quello concorrente dei creditori sociali. Il sindaco non risponde in modo automatico per ogni fatto dannoso aziendale in ragione della sua mera posizione di garanzia; si esige tuttavia, a fini dell’esonero dalla responsabilità, che egli abbia esercitato o tentato di esercitare l’intera gamma dei poteri istruttori e impeditivi affidatigli dalla legge.
L’esercizio del controllo da parte del revisore nelle società di capitali è finalizzato ad assicurare la verifica della corretta appostazione dei dati contabili nel bilancio della società e, di conseguenza, della corretta gestione contabile dell’ente, al fine di assicurare la conoscibilità, in capo ai terzi, delle effettive modalità di gestione contabile e dell’oggettività del patrimonio. Il revisore nello svolgimento della sua funzione deve necessariamente operare un controllo sulla correttezza e congruità di tutte le voci di bilancio. Proprio in funzione della peculiare ampiezza e incisività del controllo affidato al revisore contabile si prevede che esso risponda, in solido con gli amministratori, nei confronti della società che ha conferito l’incarico di revisione, dei suoi soci e dei terzi per i danni derivanti dall’inadempimento ai loro doveri. Non si tratta di un’ipotesi di responsabilità oggettiva, ma anche il revisore risponde in solido con l’organo gestorio nei limiti del contributo effettivamente dato al danno.
Nell’ipotesi di perdita del capitale e sua riduzione al di sotto del minimo di legge lo scioglimento della società si produce automaticamente e immediatamente, salvo il verificarsi della condizione risolutiva costituita dalla reintegrazione del capitale o della trasformazione regressiva della società, da deliberarsi con le maggioranze richieste per le modificazioni dell’atto costitutivo. Il danno derivante dall’inerzia dell’organo gestorio a fronte della perdita del capitale sociale è un danno per i creditori sociali ed è rappresentato dall’incremento dell’indebitamento ovvero dall’aggravamento della situazione patrimoniale della società (già in situazione di deficit) con conseguente detrimento della prospettiva di soddisfazione per i creditori.
Per quanto attiene alla conservazione del capitale sociale è evidente l’esigenza che per tutta la durata della società persista quell’ammontare di risorse investite dai soci su cui si localizza, in via primaria, il rischio di impresa. In mancanza, nell’ipotesi in cui i soci non abbiano più nulla da perdere, non si può consentire la prosecuzione di un’iniziativa che altrimenti proseguirebbe ad esclusivo rischio di creditori sociali. Occorre in altri termini assicurare in ogni momento della vita sociale che il potere di direzione dell’iniziativa sia controbilanciato dalla esposizione al rischio. Gli artt. 2446 e 2447 c.c. esprimono principi fondamentali della attività economica di impresa in forma sociale: la tempestiva rilevazione di una situazione di crisi, con l’attivazione di procedure idonee a prevenirne l’aggravamento e l’immediato blocco di nuove operazioni imprenditoriali quando non sussista più quel minimo di investimento che è il presupposto per il regime di responsabilità limitata dei soci.
Gravi irregolarità per mancata tenuta delle scritture contabili e mancata istituzione degli assetti ex art. 2086, co. 2, c.c.
Trasformazione da s.p.a. a s.r.l. nelle more del procedimento ex art. 2409 c.c. azionato dai sindaci
Stante la struttura del procedimento di denunzia al tribunale per fondato sospetto di gravi irregolarità nella gestione che potrebbero arrecare danno alla società, finalizzato esclusivamente alla tutela della società stessa, l’eventuale mutamento o cessazione dei componenti degli organi sociali non impatta in alcun modo sulla prosecuzione del procedimento stesso. È infatti la stessa norma a stabilire che il procedimento deve essere sospeso, ma non concluso, se l’assemblea sostituisce gli amministratori e i sindaci con soggetti di adeguata professionalità, che si attivano senza indugio per accertare se le violazioni sussistono e, in caso positivo, per eliminarle, riferendo al tribunale sugli accertamenti e sulle attività compiute (art. 2409, co. 3, c.c.) e che, se gli accertamenti e le attività compiute risultano insufficienti, il tribunale può disporre gli opportuni provvedimenti provvisori al fine di ripristinare la regolarità della gestione sociale, prevenire ulteriori irregolarità e, nei casi più gravi, revocare gli amministratori ed eventualmente anche i sindaci (art. 2409, co. 4, c.c.). La ratio della disposizione è nota: il legislatore ha voluto impedire che la maggioranza possa interrompere il procedimento semplicemente cambiando l’organo amministrativo o quello di controllo. Pertanto, la trasformazione della società da s.p.a. a s.r.l. non dotata di organo di controllo in corso di procedimento di denunzia al tribunale non è di ostacolo alla prosecuzione dello stesso procedimento.
L’utilizzibilità delle risultanze delle indagini preliminari in sede penale nel procedimento civile
Nell’ordinamento processuale vigente manca una norma di chiusura sulla tassatività dei mezzi di prova, sicché il giudice, potendo porre a base del proprio convincimento anche prove c.d. atipiche, è legittimato ad avvalersi delle risultanze derivanti dagli atti delle indagini preliminari svolte in sede penale, così come delle dichiarazioni verbalizzate dagli organi di polizia giudiziaria in sede di sommarie informazioni testimoniali.
Gravi irregolarità gestionali ex art. 2409 e adeguatezza degli assetti
Ai sensi dell’art. 2409 c.c., il fondato sospetto di gravi irregolarità gestionali compiute dagli amministratori è il requisito necessario affinché il Tribunale intervenga nell’attività delle società di capitali. Il procedimento è volto a realizzare il riassetto amministrativo, economico e contabile della società e, dunque, la ripresa della normale e corretta gestione sociale, nell’interesse dell’economia, della fede pubblica, dell’ordine economico, della collettività in genere e del regolare funzionamento delle società commerciali.
L’accertamento circa la sussistenza della gravità delle irregolarità è rimessa al prudente apprezzamento del Tribunale che in sede di volontaria giurisdizione, ove falliscano i rimedi endosocietari di cui al comma 3 della citata disposizione – sostituzione da parte dell’assemblea degli amministratori e sindaci con soggetti di adeguata professionalità, i quali si attivino senza indugio per accertare l’esistenza di violazioni per eliminarle – deve emettere tutti i provvedimenti precauzionali necessari per tutelare il patrimonio sociale, e ciò indipendentemente dai fatti espressamente denunciati che non vincolano il controllo del giudice, il quale può validamente estendere le sue indagini a qualsiasi irregolarità emersa successivamente alla denuncia medesima.
L’indizio di irregolarità deve essere serio, preciso e grave in quanto non è ammissibile un procedimento fondato su generici sospetti o su indimostrati rilievi critici di eventuali irregolarità, dovendo queste essere basate su specifici ed obiettivi riscontri da cui si possa desumere l’elevata probabilità che siano stati commessi atti irregolari.
L’adozione dei provvedimenti ex art. 2409 c.c. non può essere giustificata unicamente sulla base di valutazioni concernenti l’andamento economico dell’impresa sociale, poiché le gravi irregolarità non attengono a valutazioni di merito o di opportunità.
Gravi irregolarità gestionali, in violazione dei doveri, sono costituite da tutti quei comportamenti degli amministratori che nel caso specifico concretizzino un adempimento degli obblighi di legge e di statuto effettuato in modo inesatto ed inadeguato, ovvero da una grave inosservanza con un comportamento attivo o anche omissivo di uno o più doveri che gli amministratori avrebbero dovuto ottemperare, tale da arrecare (o anche solo poter arrecare) grave pregiudizio alla società, e sempre che l’impossibilità della condotta esatta e adeguata non sia determinata da un’impossibilità non imputabile, ex art.1218 c.c., agli organi societari.
È opinione pacifica che le gravi irregolarità possano integrare la violazione di obblighi e doveri a contenuto specifico previsti da norme civili, penali, tributarie e amministrative, ovvero riguardare anche violazioni di generici obblighi di gestione diligente, nell’interesse della società e senza conflitto di interessi. Le gravi irregolarità debbono essere attuali ed ancora in grado di produrre i loro effetti pregiudizievoli per la società.
La mancanza di un efficace sistema di gestione dei crediti commerciali costituisce una grave irregolarità, in quanto non consente la rilevazione tempestiva di eventuali sintomi di squilibrio economico-finanziario e della salvaguardia della continuità aziendale. L’assenza di un adeguato assetto organizzativo, contabile e amministrativo rappresenta una grave irregolarità, anche – anzi, soprattutto – in una impresa in situazione di equilibrio economico finanziario.
Denunzia al tribunale: il provvedimento di revoca dell’amministratore è limitato ai casi più gravi
Il provvedimento di revoca dell’amministratore di cui all’art. 2409, co. 4, c.c., è da riservarsi ai “casi più gravi”, cioè alle irregolarità gravissime. Il richiamo espresso solo ai “casi più gravi”, segna la latitudine oggettiva massima della fattispecie e, conseguentemente, consente, per i casi di irregolarità gravi ma non gravissime, una modulazione del provvedimento da adattare alla molteplicità e varietà delle situazioni che possono presentarsi.
Gli opportuni provvedimenti provvisori di cui all’art. 2409, co. 4, c.c. hanno per lo più natura inibitoria e quindi una portata non adeguata alle situazioni in cui non si tratta di inibire, ma di promuovere comportamenti corretti.
Il mutamento dell’organo amministrativo della società non comporta di per sé l’improcedibilità del ricorso ex art. 2409 c.c., atteso che l’attività di controllo giudiziario deve essere proseguita fino a quando non siano definitivamente dissipati i sospetti di gravi irregolarità.