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Art. 2473 bis c.c.
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Sulla sospensione della deliberazione di esclusione del socio di s.r.l.

L’art. 2378, co. 3, c.c., applicabile anche alle società a responsabilità limitata in forza del richiamo contenuto nell’art. 2479 ter, co. 4, c.c., configura una misura cautelare tipica, diretta a ottenere la sospensione dell’esecuzione della delibera assembleare impugnata, per la concessione della quale il giudice è tenuto a verificare la sussistenza del fumus boni juris e del periculum in mora, quest’ultimo da ravvisarsi, come precisato dall’art. 2378, co. 4, c.c., all’esito di una comparazione tra il pregiudizio che deriverebbe al ricorrente dall’esecuzione della delibera impugnata e quello che deriverebbe alla società dalla sospensione della delibera medesima.

La valutazione comparativa del pregiudizio che subirebbe il socio escluso dall’esecuzione della delibera e quello che subirebbe la società dalla sospensione dell’esecuzione della deliberazione ai sensi dell’art. 2378, co. 3, c.c. implica una comparazione di interessi di per sé autonoma rispetto all’apprezzamento del fumus, nel senso che, anche in presenza di fumus di fondatezza dell’impugnazione, laddove il pregiudizio della società convenuta risulti più grave di quello dell’impugnante, non dovrà essere accolta la richiesta cautelare di sospensione, la tutela della posizione dell’impugnante restando comunque affidata, in caso di irreversibilità dell’esecuzione della delibera, ai meccanismi risarcitori previsti dal sistema normativo, il quale nella materia in esame prevede altri casi in cui la tutela reale – rappresentata dall’annullamento della delibera – recede rispetto alla tutela risarcitoria.

L’esclusione del socio di s.r.l. è possibile solo nell’ipotesi – e all’esito del procedimento previsto per il caso – di renitenza del socio al versamento della quota di capitale da lui dovuta (ex art. 2466 c.c.), ovvero quando l’atto costitutivo lo consenta. Tuttavia, anche in tale secondo caso, per l’ovvia esigenza di consentire ai soci di evitare tale gravissima sanzione privata conoscendo preventivamente le condotte che potrebbero darvi causa, in ipotesi specifiche, espresse e tassative, che integrino, sotto il profilo contenutistico, una giusta causa di cessazione del vincolo sociale (ex art. 2473 bis c.c.).

4 Aprile 2024

Esclusione del socio di s.r.l.

L’art. 2473 bis c.c. introduce nella disciplina delle s.r.l. la possibilità di sancire ipotesi di estromissione dei singoli soci per giusta causa purché vi sia una previsione statutaria che consenta lo scioglimento del vincolo sociale. Tale autonomia statutaria deve esplicarsi nel rispetto dei requisiti minimi fissati dalla legge, che devono essere individuati nella specificità delle ipotesi di esclusione e nella giusta causa. Ne deriva la necessità di clausole tassative che confluiscono nello statuto a garanzia, nell’ottica della conoscibilità a priori delle fattispecie legittimanti l’esclusione, non solo dei soci, ma anche dei terzi e dei creditori sociali che hanno rapporti con la società. Lo strumento dell’esclusione è previsto in funzione di autotutela della continuità dell’attività sociale, in tutti quei casi in cui determinate condotte del socio o vicende che lo possono riguardare incidono direttamente e in modo irreversibile sulla prosecuzione dell’attività sociale. Ne consegue, quindi, il carattere strettamente organizzativo che assume l’esclusione per la rilevanza che involge sotto il profilo della stessa struttura organizzativa, oltre che per le ricadute sotto il profilo patrimoniale.

Il sindacato giurisdizionale nell’ambito del giudizio di opposizione alla delibera di esclusione è limitato ai profili di sola legittimità, dovendosi limitare il giudice a verificare la reale sussistenza delle ipotesi previste dalla legge o dall’atto costitutivo, non potendo estendersi tale sindacato all’opportunità del provvedimento espulsivo. Invero, il sindacato giudiziale, che non deve mai incorrere in un’indagine sull’opportunità della sanzione, deve materializzarsi in alcuni casi nella valutazione della riconducibilità in concreto dei comportamenti del socio escluso alla previsione statutaria che giustifica il provvedimento di esclusione, tenendo conto a tal fine, ogni qualvolta si imbatta in previsioni statutarie che si riferiscano a comportamenti solo genericamente o sinteticamente indicati come contrari all’interesse sociale, della rilevanza della lesione eventualmente inferta dal socio all’interesse della società, atteso che la regola negoziale contenuta nello statuto sottende un criterio di proporzionalità tra gli effetti del comportamento attribuito al socio e la risoluzione del rapporto sociale a lui facente capo.

Nell’ipotesi in cui il giudizio di opposizione si concluda con un provvedimento favorevole al socio, l’annullamento della delibera di esclusione avrà effetto retroattivo, comportando la piena reintegrazione del socio nelle posizioni giuridiche vantate prima della illegittima deliberazione, fatta salva in ogni caso la possibilità di esperire l’azione di risarcimento per il ristoro dei danni subiti.

21 Febbraio 2024

Esclusione del socio di s.r.l.: termine d’impugnazione, abuso dei diritti e periculum in mora per il socio escluso

Il legislatore, omettendo di dettare una disciplina del procedimento di esclusione del socio di s.r.l., ha ritenuto che i presidi generali della disciplina del tipo sociale siano sufficienti baluardi a tutela anche del socio escluso. L’art. 2479 ter c.c. disciplina le modalità di impugnazione delle delibere assembleari assegnando il termine di novanta giorni, salvi i casi di cui al terzo comma. Il termine di cui all’art. 2479 ter c.c. è termine a carattere processuale, e non solo perentorio – a garanzia della certezza dei fatti sociali – ma anche stabilito dal legislatore per assicurare agli interessati un congruo tempo per impugnare. La natura cogente del termine si individua anche in considerazione del principio generale stabilito dall’art. 2965 c.c.: una volta che il legislatore ritiene congruo per le impugnative in materia di decisioni (segnatamente assembleari) nelle s.r.l. il termine di novanta giorni, un termine minore deve ritenersi produttivo di eccessiva difficoltà nella tutela del diritto.

Nulla ostacola il socio escluso dall’impugnativa secondo le norme generali, poiché un rimedio volto a rimuovere una esclusione illegittima deve poter essere utilizzato da colui che di tale esclusione è vittima. Lo statuto non può derogare al termine di impugnazione di novanta giorni stabilito dalla legge all’art. 2479 ter c.c. per la impugnazione delle delibere delle s.r.l.; un eventuale termine previsto potrà ritenersi operante solo riguardo alla durata dell’effetto sospensivo automatico.

La ratio del disposto dell’art. 2378, co. 3, c.c. è quella di evitare che la materia della sospensiva sia trattata autonomamente da un processo destinato a decidere in modo definitivo sulla validità della delibera, mentre non vi è ragione che vieti di anticipare con una sospensiva gli effetti della sentenza, dopo che il merito è stato introdotto, all’interno dello stesso processo, e successivamente all’inizio di questo.

Il socio di s.r.l. che si giovi del suo diritto all’accesso documentale per procurarsi notizie che gli assicurino un vantaggio competitivo sul mercato a discapito della società, cagionandole danno grave, rappresenta un caso di abuso che costituisce un limite allo stesso diritto ispettivo del socio. Diversamente, l’utilizzo dei documenti a fini di difesa processuale non realizza abuso del diritto ispettivo, né sotto il profilo concorrenziale né sotto altro profilo, avendo i soci diritto all’accesso anche nell’interesse proprio, purché non confliggente con quello della società.

Al fine dell’individuazione del periculum in mora, i soci che si ritengono ingiustamente esclusi sono portatori di un interesse a conservare l’esercizio delle loro prerogative sociali, e ciò anche se la società è stata nel frattempo posta in liquidazione. Anzi, poiché la liquidazione è tendenzialmente destinata a portare la società a fine vita, la soddisfazione del loro interesse a potere esercitare il controllo della sua conduzione, nelle forme di legge, e a conseguire le eventuali spettanze economiche finali, appare non differibile.

12 Luglio 2023

Il rapporto tra SGR e partecipanti del fondo comune di investimento; in particolare, la revoca della SGR

La sostituzione della SGR nella gestione di un fondo comune di investimento è un fenomeno assimilabile al mutamento delle persone degli amministratori; i partecipanti al fondo – nel deliberare la revoca del gestore e l’esercizio dell’azione di responsabilità nei confronti di questi – assumono una posizione analoga a quella dei soci di società di capitali. Ne discende che la volontà di revoca espressa in sede assembleare non può che essere imputata al fondo medesimo, il quale – sotto il profilo della responsabilità e nella sua autonomia patrimoniale “bilaterale” perfetta ex art. 36, co. 4, t.u.f., ovvero sia rispetto al patrimonio del gestore, sia rispetto a quello dei partecipanti – può senz’altro legittimamente costituire un centro di imputazione di posizioni giuridiche soggettive attive e passive.

Deve escludersi che il rapporto intercorrente tra la società di gestione e i partecipanti al fondo sia propriamente riconducibile alle figure del mandato e della rappresentanza. Infatti, la volontà del mandante e quella del rappresentato sono rilevanti per il mandatario (art. 1711 c.c.) e per il rappresentante (art. 1388 c.c.), mentre la SGR è indipendente dai partecipanti al fondo. Inoltre, sia nel mandato, sia nella rappresentanza, la legittimazione sostanziale a disporre attribuita al gestore non sostituisce, ma si aggiunge a quella del dominus, che, pur con le dovute cautele, può continuare a compiere atti di disposizione del diritto (artt. 1716, co. 2, e 1729 c.c.). Il potere di disposizione non spetta invece ai partecipanti, ma, ex artt. 1, lett. k), e 36, co. 3, t.u.f., alla sola SGR in via esclusiva.

Né depone in senso contrario l’espressa attribuzione legislativa alla SGR dei doveri e delle responsabilità del mandatario (art. 36, co. 3, t.u.f.): trattasi, infatti, di situazioni giuridiche che non esauriscono il rapporto di mandato. E così la gestione nell’interesse dei partecipanti non è concepibile senza un riferimento unificante, che, come tale, esclude la loro rilevanza uti singuli. Peraltro, se si può ammettere che i partecipanti al fondo possano agire in responsabilità verso la SGR, l’oggetto di tale azione è la mala gestio del fondo ed il risarcimento è dovuto al fondo e non ai partecipanti agenti, analogamente a quanto accade per le società di capitali ex artt. 2393 bis e 2476, co. 3, c.c. Per quanto riguarda il fondo, non è dubbio che da esso non possano promanare istruzioni di gestione, sicché è escluso che la SGR possa esser soggetta ad esse, pur essendo le scelte di investimento del gestore limitate dal regolamento, rimanendone così esclusa la assimilabilità al mandato fiduciario. Il rapporto tra SGR e fondo è dunque specialmente regolato dalla legge e sono proprio la perfetta autonomia patrimoniale che lo caratterizza ex lege ed il potere gestorio altrettanto stabilito ex lege in capo alla SGR, con la mediazione del regolamento, che ben giustificano l’affermazione di una imputazione diretta in capo al fondo delle posizioni giuridiche attive e passive che di quella gestione sono il risultato effettuale, senza che uno sdoppiamento della proprietà tra “formale” e “sostanziale” – sostituita alla più tradizionale dicotomia proprietà / gestione – possa particolarmente giovare alla chiarezza e certezza del traffico giuridico.

La legittimazione attiva con riferimento alle azioni con le quali si facciano valere diritti inclusi in un fondo comune di investimento spetta alla SGR e non ai partecipanti.

L’assenza di una disciplina ad hoc prevista per il funzionamento dell’assemblea dei partecipanti al fondo comune di investimento e dei rimedi di impugnazione delle relative delibere (sebbene il suo oggetto sia normativamente limitato alla sola revoca della SGR ed all’esperimento dell’eventuale azione di responsabilità), conduce a individuare l’assetto societario più logicamente ricollegabile al funzionamento e alla struttura di un fondo nelle disposizioni specificamente rivolte alle società per azioni.

Nel diritto societario, le deliberazioni degli organi sociali soggette per legge all’obbligo di motivazione costituiscono un numero limitato (artt. 2391, 2391 bis, 2441, co. 5, 2497 ter c.c.). Accanto alle ipotesi in cui le deliberazioni societarie debbono essere motivate per esplicito dettato normativo, ve ne sono altre che possono essere individuate in via interpretativa. Tra di esse vi sono, sia pure con connotati fra loro parzialmente diversi, le deliberazioni di interruzione del rapporto sociale (artt. 2287, 2473 bis e 2533 c.c.), gestorio (artt. 2259, 2383 e 2409 duodecies c.c.) o sindacale (art. 2400 c.c.), dove la necessità di verificare la sussistenza della giusta causa, o della fattispecie statutaria, impone di motivare la deliberazione al momento in cui essa viene assunta. A tale riguardo, se è vero che il legislatore ha previsto un potere di recesso ex lege in capo alla società, tanto che la giusta causa non si pone come requisito di efficacia dell’atto, la condizione della sussistenza di ragioni integranti la medesima è, tuttavia, da verificare per impedire la nascita del diritto al risarcimento del danno.

Le ragioni di revoca, che devono presentare i caratteri di effettività ed essere riportate in modo adeguatamente specifico, debbono essere enunciate espressamente nella deliberazione e non restare meramente implicite; la deduzione in sede giudiziaria di ragioni ulteriori non è ammessa, restando esse ormai quelle indicate nella deliberazione.

Qualora, nel corso del processo in cui è controverso un diritto attinente a un fondo comune di investimento, si trasferiscano da una società di gestione all’altra – ai sensi dell’art. 36, co. 1, t.u.f. – i rapporti di gestione relativi al fondo, il processo prosegue tra le parti originarie. Conseguentemente, ai sensi dell’art. 111, co. 3 e 4, c.p.c., la società di gestione subentrata nella gestione può intervenire o essere chiamata nel processo e la società alienante può esserne estromessa. In ogni caso, la sentenza pronunciata nei confronti delle parti originarie spiega i suoi effetti anche nei confronti della società di gestione subentrata.

29 Maggio 2023

Il procedimento ex art. 2473, co. 3, c.c. per la determinazione del valore della partecipazione del socio escluso

Il riferimento all’art. 1349, co. 1, c.c., contenuto nell’art. 2473 c.c. esplicita l’intendimento del legislatore di rimettere la determinazione del valore della partecipazione societaria – nel caso in cui le parti non riescano a raggiungere un accordo – non già alla decisione del giudice, ma al contratto tra socio e società, avente ad oggetto la liquidazione della quota il cui contenuto viene stimato da un terzo (l’arbitratore), il quale, quindi, concorre alla formazione e all’integrazione del contenuto del negozio.

L’esperto deve procedere con equo apprezzamento e la vincolatività delle determinazioni dallo stesso raggiunte può essere esclusa solo ove se ne accerti la manifesta iniquità o erroneità. Solo nel caso di impugnazione ex art. 1349 c.c. per manifesta iniquità o erroneità della determinazione dell’arbitratore vi potrà essere l’intervento sostitutivo del giudice, chiamato, da un lato, all’accertamento della lamentata manifesta iniquità o erroneità della stima del terzo, e dall’altro, alla nuova determinazione, sostitutiva di quella dell’esperto-arbitratore.

La procedura di cui all’art. 2473, co. 3, c.c. ha natura esclusiva e non è consentito al socio escluso o receduto adire direttamente l’autorità giudiziaria mediante l’instaurazione di un ordinario processo di cognizione piena per la determinazione del “giusto valore di liquidazione” senza il rispetto delle procedure di cui al citato art. 2473 c.c.

11 Aprile 2023

Esclusione del socio di s.r.l. e presupposti per la sospensione dell’esecuzione della delibera assembleare

Pur nella indubbia ampiezza del rinvio operato all’autonomia privata, l’art. 2473 bis c.c. pone un duplice limite all’esercizio del potere di autoregolamentazione sociale in materia: l’indicazione specifica delle ipotesi di esclusione e la qualificabilità delle stesse in termini di gravità e di giustezza causale. Il primo limite vieta ai soci di prevedere l’adozione di clausole generiche ed indeterminate, imponendo di ancorare l’esclusione ad un parametro oggettivo preventivamente determinato. Il secondo funge da limite interno e deve essere inteso nel senso che l’esclusione debba trovare fondamento nella violazione di un interesse sociale meritevole di tutela. È proprio infatti la previsione della sussistenza di una giusta causa che mira ad escludere in radice ipotesi di abuso del diritto, impedendo che la decisione possa di volta in volta essere riempita con una valutazione eccessivamente discrezionale da parte della maggioranza, tutelando l’interesse del singolo socio di non essere vittima di abusi preconfezionati in clausole statutarie. È necessario, dunque, che la clausola di esclusione sia espressamente indicata come tale dai soci nell’atto costitutivo o nello statuto, che sia dotata del carattere della specificità e che consista in una regola organizzativa suscettibile di applicazione nei confronti di tutti i soci, senza, peraltro, potersi riferire individualmente ad un socio specificamente determinato.

Possono costituire giusta causa di esclusione, purché individuate in modo specifico e debitamente circoscritte, ipotesi attinenti: ad eventi che colpiscano direttamente la sfera soggettiva del singolo socio (incapacità sopravvenuta, condanna penale), ad eventi che incidano sul rapporto sociale sotto il profilo dell’inadempimento, anche non imputabile, degli obblighi contrattuali di gravità tale, comunque, da costituire un pregiudizio per l’efficiente svolgimento dell’attività sociale nonché la violazione dei doveri di fedeltà, lealtà, diligenza e correttezza che discendono dalla natura fiduciaria, comunque caratteristica, del rapporto sociale.

L’art. 2378 c.c., nel disciplinare il procedimento cautelare volto ad ottenere la sospensione della delibera assembleare, prescrive, ai commi 3 e 4, che il ricorso debba essere depositato contestualmente al deposito della citazione introduttiva del merito e che il procedimento cautelare debba essere assegnato al medesimo giudice designato per la trattazione della fase di merito. La ratio sottesa alla disposizione citata è quella di evitare gli effetti distorsivi di una eventuale azione di sospensione della delibera sociale disgiunta dall’azione di annullamento (o nullità) della stessa. Tale scelta risponde alla logica di certezza dei rapporti giuridici e, prima ancora, della stabilità degli effetti delle decisioni assunte, che permeano l’intera disciplina del diritto societario, in funzione delle esigenze di certezza e stabilità dei traffici economici. Il principio di contestualità e la previsione di un unico giudice designato vanno, quindi, letti in questa chiave: i due accertamenti, cautelare e di merito, devono coesistere, rimanendo inammissibile un giudizio cautelare tipico autonomo.

La disposizione ex art. 2378, co. 3, c.c., applicabile anche alle deliberazioni di assemblea di s.r.l. per effetto del rinvio contenuto nell’art. 2479 ter, co. 4, c.c. e, benché non espressamente richiamata dall’art. 2379, co. 4, c.c., alle delibere nulle, mira ad evitare che il ricorrente possa ricevere pregiudizio nelle more del processo volto all’invalidazione della delibera assembleare ex artt. 2377 e 2378 c.c.

Avendo natura cautelare, l’accoglimento dell’istanza di sospensione, presuppone, ai sensi e per effetto dell’art. 669 quaterdecies c.p.c., che sussistano i presupposti del fumus boni iuris, sebbene la norma non vi faccia espresso riferimento, e del periculum in mora, sia pure con le peculiarità previste dall’art. 2378, co. 4, c.c. sul giudizio comparativo ivi delineato. Invero, l’accertamento del periculum, ai sensi della citata disposizione, richiede che il pregiudizio, che in termini di irreparabilità della lesione potrebbe subire il ricorrente dalla permanente efficacia (o esecuzione) della deliberazione impugnata, non debba essere visto a sé stante ed in via esclusiva, ma debba essere valutato in concreto comparandolo con quello che viceversa potrebbe patire la società per effetto della sospensione di tale decisione. Quanto al fumus, invece, esso va inteso quale probabile esistenza, sulla base di una cognizione sommaria, di un vizio invalidante che comporterebbe l’annullabilità ovvero la nullità della decisione medesima.

Principi in materia di contratto sociale e responsabilità ex art. 1218 c.c. del socio per inadempimento degli obblighi nascenti dal rapporto societario

Il contratto sociale di cui all’art. 2247 c.c. è un contratto di natura associativa, caratterizzato dalla comunione di scopo e soggetto alla più generale disciplina codicistica in materia di obbligazioni e contratti, salvo laddove il legislatore abbia dettato una disciplina speciale, di carattere derogatorio, volta a regolare taluni aspetti più specifici del rapporto societario (come, ad esempio, in punto di domanda di risoluzione del contratto).  Al contratto di società si applica l’ordinaria disciplina in tema di adempimento, il quale deve essere perciò valutato alla stregua del parametro della diligenza di cui all’art. 1176 c.c.  In particolare, con la conclusione del contratto di società nascono, in capo al socio e nei confronti della controparte contrattuale, una serie di obblighi di fedeltà, lealtà, ma soprattutto, di diligenza e correttezza inerenti alla natura fiduciaria del rapporto societario.

Costituiscono gravi inadempienze al contratto sociale e, pertanto, fonte di responsabilità ex art. 1218 c.c., sia le condotte del socio che risultano idonee ad impedire il raggiungimento dello scopo sociale, sia quelle che abbiano inciso negativamente sulla situazione della società, tanto da rendere anche solo meno agevole il conseguimento delle finalità sociali.  Ad esempio, costituiscono gravi inadempimenti l’omissione di ogni collaborazione nella conduzione dell’esercizio sociale, il compimento di atti ostruzionistici alla normale gestione societaria e il porre in essere atti di concorrenza sleale nei confronti della società.

Il comportamento del socio che ponga in essere atti di concorrenza sleale e storno di dipendenti, oltre a costituire grave inadempimento al contratto sociale (e, quindi, assumere rilevanza sotto il profilo contrattuale), integra anche gli estremi, oggettivi e soggettivi, della responsabilità extracontrattuale, sia per violazione del generale principio del neminem laedere, sia a titolo di concorrenza sleale di cui all’art. 2598, nn. 2 e 3, c.c.

Le regole speciali dettate dal codice civile in materia di contratto di società precludono la possibilità di pronunciare, con riguardo a tale tipologia contrattuale, la risoluzione di cui agli artt. 1453 ss. c.c. in quanto le norme sull’esclusione del socio per gravi inadempienze, di cui agli artt. 2286 e 2287 c.c., hanno carattere speciale e sostitutivo del rimedio della risoluzione per inadempimento previsto dagli artt. 1453 ss. c.c., inapplicabile al contratto di società per essere quest’ultimo caratterizzato non già dalla corrispettività delle prestazioni dei soci, bensì dalla comunione di scopo. Pertanto, in caso di inadempimento del socio al contratto sociale, il rimedio tipico è quello della esclusione del socio inadempiente.

Nei contratti consociativi, quali quello di società, caratterizzati non dalla biunivocità dei rapporti e dalla corrispettività delle prestazioni, bensì dalla circolarità dei rapporti e dalla destinazione delle prestazioni al perseguimento dello scopo comune, non risultano utilizzabili i rimedi generali dettati in tema di inadempimento contrattuale (in particolare, risoluzione del contratto ed exceptio inadimpleti contractus) ma solo i diversi rimedi del recesso e dell’esclusione dei soci.

29 Dicembre 2022

Esclusione del socio di s.r.l. per giusta causa e abuso di potere in assemblea

È legittima l’introduzione a maggioranza assembleare di una clausola di esclusione del socio ai sensi dell’art. 2473 bis c.c. Pertanto, qualora la clausola rispetti i requisiti di sufficiente specificità e sia sorretta da giusta causa, la stessa può essere introdotta durante societate anche a maggioranza. È inammissibile una clausola generica di esclusione, in quanto è necessario determinare specificatamente nell’atto costitutivo le fattispecie che, incidendo sulla permanenza del vincolo societario, consentono di estromettere il socio dalla società, da cui la ritenuta illegittimità di tutte quelle clausole che, nei presupposti, evidenzino generiche “gravi inadempienze del socio” senza indicare specificatamente determinate tipologie di comportamento, dal momento che l’organo competente alla valutazione dei requisiti legittimanti l’esclusione del socio, sia esso amministrativo o assembleare, si vedrebbe assegnato un potere privo di adeguato controllo. Così come è illegittima una clausola che non concretizzi in maniera prevedibile e aprioristicamente valutabile quella giusta causa che il legislatore richiede come requisito fondamentale dell’esclusione. Infatti, quando il legislatore della riforma consente che lo statuto possa “prevedere specifiche ipotesi di esclusione per giusta causa del socio” non costringe all’elencazione di eventi che, se giudicati a posteriori, sarebbero qualificabili come casi di giusta causa, ma consente di introdurre nello statuto la previsione di eventi che da quella società sono a priori considerati, al fine dell’ordinato sviluppo della propria attività, elementi di grave turbativa, legittimanti per ciò l’allontanamento di uno dei membri di quella collettività, e quindi fattispecie di giusta causa. In sostanza, la giusta causa verificabile a posteriori non può non essere che un concetto valevole per l’ordinamento nel suo complesso e quindi per tutti i consociati che di quell’ordinamento sono parte; mentre la giusta causa specificata a priori è la giusta causa propria di quella data collettività che la definisce per sé, e che quindi potrebbe essere non generalizzabile al di fuori di quella collettività ove è stata definita e ove essa vige.

È legittimo individuare una giusta causa di esclusione ex art. 2473 bis c.c. nel fallimento del socio; con l’ovvia precisazione, tuttavia, che il compendio della liquidazione dovrà essere versato alla procedura e che, comunque, in tal caso occorrerà applicare il disposto dell’ultimo comma dell’art. 2471 c.c., che estende al fallimento la procedura di vendita prevista per il caso del pignoramento della quota di società a responsabilità limitata.

Costituisce una legittima causa di esclusione ex art. 2473 bis c.c. quella in forza della quale un socio può essere escluso dalla società qualora il medesimo sia a sua volta una società e, senza il consenso dei restanti soci della partecipata, muti per qualsiasi causa la propria compagine sociale, anche in esito a operazioni di scissione o fusione (c.d. changing control). Tale clausola può essere introdotta in statuto a maggioranza e ben può ritenersi legittima in quanto riferita ad evento capace di incidere sulla figura dei soci sì da minare alle radici il fondamento dell’unità di quella compagine sociale.

Costituisce una legittima causa di esclusione ex art. 2473 bis c.c. quella in forza della quale un socio può essere escluso dalla società qualora non adempia agli obblighi assunti nei confronti della società o di altri soci, quali obblighi funzionali al perseguimento dell’oggetto sociale in quanto necessari in vista del perseguimento delle competenze e dei mezzi, anche economici necessari all’attività della società, come previsti nell’atto costitutivo, in scrittura privata autenticata o non disconosciuta.

Posta l’astratta configurabilità della vicenda dell’abuso di potere anche rispetto ai voti espressi dai soci in seno all’assemblea, va precisato che, perché possa dirsi integrato un vizio della delibera, è necessario allegare e dimostrare che la stessa sia il portato di un esercizio fraudolento ovvero ingiustificato del potere di voto; e ciò in quanto l’abuso non può consistere nella mera valutazione discrezionale dei propri interessi ad opera dei soci, ma deve concretarsi nella intenzionalità specificatamente dannosa del voto, ovvero nella compressione degli altrui diritti in assenza di apprezzabile interesse del votante. L’abuso di potere è causa di annullamento delle deliberazioni assembleari quando la deliberazione: a) non trovi alcuna giustificazione nell’interesse della società; deve pertanto trattarsi di una deviazione dell’atto dallo scopo economico-pratico del contratto di società, per essere il voto ispirato al perseguimento, da parte dei soci di maggioranza, di un interesse personale antitetico rispetto a quello sociale; b) sia il risultato di una intenzionale attività fraudolenta dei soci di maggioranza, diretta a provocare la lesione dei diritti di partecipazione e degli altri diritti patrimoniali spettanti ai soci di minoranza uti singuli poiché rivolta al conseguimento di interessi extrasociali. I due requisiti testé evidenziati non sono richiesti congiuntamente, ma in alternativa. Ne deriva, in adesione ai principi ora enunciati, che l’esame del merito della delibera è ammesso solo in presenza di indici oggettivi da cui sia dato inferire la violazione di vincoli imposti dall’ordinamento alla maggioranza e desunti nei modi succitati. Della sussistenza e della prova di tali indizi è naturalmente onerata la parte che assume l’illegittimità della deliberazione; grava, cioè, sul socio di minoranza l’onere di provare che il socio di maggioranza abbia abusato del proprio diritto. È, poi, chiaro che la presenza del fine fraudolento – la cui prova può essere data anche induttivamente, dimostrando che lo scopo apparentemente perseguito dalla società è in realtà inesistente – costituisce non solo un sintomo del vizio della decisione impugnata, ma anche il limite alla tutela della minoranza. L’abuso di potere, infatti, è pur sempre un vizio di legittimità della delibera, riscontrabile solo nella misura in cui non comporti un controllo giudiziario sulle libere determinazioni dell’autonomia privata provenienti dagli organi della società, rispetto alle quali è preclusa qualsiasi valutazione di opportunità.

L’esigenza di consentire a ciascun socio, non soltanto di partecipare ai lavori assembleari in modo consapevole e informato sulle questioni che ivi saranno trattate, ma anche di veder tutelata la sua buona fede per il caso in cui non intenda prendervi parte, viene perseguita mediante la previsione dell’obbligo di indicare, nell’avviso di convocazione, l’elenco delle materie che dovranno essere oggetto di trattazione e decisione (c.d. ordine del giorno), con la conseguenza che, sia nel caso in cui l’avviso di convocazione non contenga affatto l’enunciazione dell’ordine del giorno, sia nelle ipotesi in cui le materie da trattare in assemblea siano indicate in maniera generica o ambigua, le deliberazioni così adottate divengono annullabili. Segnatamente, la deliberazione adottata sulla base di un ordine del giorno dal contenuto indeterminato deve considerarsi annullabile e non nulla, in quanto le norme concernenti le formalità di convocazione dell’assemblea mirano a tutelare esclusivamente l’interesse dei soci al regolare svolgimento dell’attività interna della società e non incidono sui presupposti essenziali di formazione della volontà sociale. Tuttavia, affinché possa adeguatamente assolvere alle funzioni sue proprie, l’ordine del giorno inserito nell’avviso di convocazione non deve necessariamente sostanziarsi in una indicazione particolareggiata delle materie da trattare o, addirittura, in una anticipata comunicazione del contenuto della decisione da assumere, dimostrandosi sufficiente un’indicazione sintetica delle questioni, purché perspicua ed non equivoca. Anzi, non par superfluo evidenziare che, fuori dalle ipotesi in cui lo stesso legislatore prescrive che l’avviso di convocazione sia circostanziato e dettagliato (come nel caso dell’art. 2445 c.c.), nella formulazione dell’ordine del giorno da inserire nell’avviso di convocazione occorre contemperare l’esigenza di fornire indicazioni puntuali circa gli argomenti da trattare in assemblea, con la contrapposta esigenza di preservare l’elasticità e la flessibilità dei lavori assembleari; invero, un ordine del giorno eccessivamente puntuale e dettagliato, talvolta, potrebbe condizionare la libertà di determinazione dell’assemblea, sminuendo il rilievo che, a tal fine, assume il dibattito e la discussione dei soci.

22 Dicembre 2022

Determinazione del valore di liquidazione della quota di srl

Data l’esistenza di uno strumento di tutela giudiziale specificamente previsto per risolvere la controversia in ordine alla valorizzazione della quota del socio escluso, vale a dire il procedimento prescritto dagli artt. 2473, comma 3, e 2473-bis del codice civile, non è consentito il ricorso ad altri e diversi, più generali strumenti di accertamento preventivo.