Art. 2473 c.c.
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Durata della società di capitali e recesso ad nutum
E’ escluso il diritto di recesso ad nutum del socio di società per azioni nel caso in cui lo statuto preveda una prolungata durata della società , non potendo tale ipotesi essere assimilata a quella, prevista dall’art. 2437, comma 3, c.c., della società costituita per un tempo indeterminato, stante la necessaria interpretazione restrittiva delle cause che legittimano la fuoriuscita del socio dalla società. Si deve altresì escludere l’estensione della disciplina prevista dall’art. 2285 c.c. per le società di persone (nelle quali prevale l’intuitus personae), ostandovi le esigenze di certezza e di tutela dell’interesse dei creditori delle società per azioni al mantenimento dell’integrità del patrimonio sociale, potendo essi fare affidamento solo sulla garanzia generica da quest’ultimo offerta, a differenza dei creditori delle società di persone, che invece possono contare anche sui patrimoni personali dei soci illimitatamente responsabili.
Acquiescenza del socio escluso alla decisione dell’assemblea sul valore della sua partecipazione
Valore della quota di liquidazione e impugnazione della valutazione del terzo arbitratore
In caso di recesso del socio da S.r.l. la determinazione del valore della quota di liquidazione da parte del terzo arbitratore, compiuta ai sensi dell’art. 1349, co. 1, c.c. richiamato dall’art. 2473, co. 3, c.c., integra il contenuto del negozio con il quale il socio e la società si accordano in ordine alla liquidazione della quota a seguito del recesso del socio che deve essere effettuata tenendo conto del valore di mercato al momento della dichiarazione di recesso; l’arbitratore stima il valore della partecipazione societaria e detta valutazione è immediatamente vincolante per le parti ed è suscettibile di impugnazione esclusivamente laddove manifestamente iniqua e/o erronea: difatti, con la determinazione operata dal terzo, il contratto si perfeziona in tutti i suoi elementi e diviene vincolante tra le parti, salva l’impugnazione prevista dall’art. 1349, co. 1, c.c.
La valutazione di “erroneità” o meno della determinazione dell’esperto nominato dal tribunale, trattandosi di determinazione operata da un professionista dotato di specifiche competenze nel settore della valutazione di imprese e vincolata a criteri oggettivi quali quelli indicati dal secondo comma dell’art. 2437 ter c.c. volti ad una valorizzazione in sostanza adeguata ai valori di mercato, criteri dunque destinati di per sé a delimitare “l’equo apprezzamento” predicato dall’art. 1349 c.c., dovrà essere condotta in relazione alle regole tecniche sottese all’operato dell’esperto e non in riferimento a nozioni di comune esperienza.
Qualora venga sostanzialmente accolta la richiesta quantificazione del socio della quota di liquidazione della propria partecipazione, la società può essere condannata al pagamento delle spese sostenute per la procedura di nomina dell’esperto.
Insussistenza del diritto di recesso ad nutum del socio di una s.r.l. costituita a tempo determinato, pur lontano nel tempo
Il socio di s.r.l. ha diritto di recedere ad nutum solo nel caso in cui la società sia contratta a tempo indeterminato e non anche a tempo determinato, sia pure lontano nel tempo, in quanto deve essere valorizzato il dato testuale della disciplina del recesso ex art. 2473 c.c. e poiché prevale, sull’interesse del socio al disinvestimento, l’interesse della società a proseguire la gestione del progetto imprenditoriale e dei terzi alla stabilità dell’organizzazione e all’integrità della garanzia patrimoniale, offerta esclusivamente dal patrimonio sociale.
L’oggetto della delibera, coincidente con il contenuto concreto della manifestazione di volontà espressa dall’assemblea, è illecito o impossibile quando il contenuto risulti contrario a norme di legge poste a tutela di interessi trascendenti quelli del singolo socio, o la cui violazione determini una deviazione dallo scopo economico-pratico del contratto di società.
L’art. 2383, co. 3, c.c., dettato in tema di s.p.a. ma applicabile in via analogica anche alle s.r.l., prevede che gli amministratori siano sempre revocabili dall’assemblea, salvo diritto al risarcimento dei danni nel caso in cui la revoca dovesse avvenire in assenza di giusta causa. Di conseguenza, detta giusta causa non costituisce una condizione di validità e di efficacia della deliberata revoca, ma solo una causa di esclusione del risarcimento del danno sofferto dall’amministratore ingiustamente ed arbitrariamente revocato. Il danno risarcibile/indennizzabile viene generalmente parametrato, in via equitativa, all’emolumento che l’amministratore avrebbe conseguito dallo svolgimento della prestazione gestoria nell’arco di sei mesi, quale lasso di tempo ragionevolmente idoneo a consentire all’amministratore revocato di trovare nuovi incarichi o analoghe prestazioni e compensi.
Le ragioni che integrano la c.d. giusta causa devono essere specificamente enunciate nella delibera assembleare senza che sia possibile una successiva deduzione in sede giudiziaria di ragioni ulteriori. In tale ambito spetta alla società l’onere di dimostrare la sussistenza di una giusta causa di revoca, trattandosi di un fatto costitutivo della facoltà di recedere senza conseguenze risarcitorie.
Determinazione del valore di liquidazione della quota di srl
Data l’esistenza di uno strumento di tutela giudiziale specificamente previsto per risolvere la controversia in ordine alla valorizzazione della quota del socio escluso, vale a dire il procedimento prescritto dagli artt. 2473, comma 3, e 2473-bis del codice civile, non è consentito il ricorso ad altri e diversi, più generali strumenti di accertamento preventivo.
Diritto di recesso del socio di s.r.l. per mutamento dell’oggetto sociale in via di fatto e azione individuale di responsabilità
Il mutamento dell’oggetto sociale idoneo a legittimare il recesso del socio può verificarsi in via di fatto se in concomitanza con atti gestori che, pur non incidendo sul dato formale relativo all’oggetto sociale determinato dallo statuto, ne comportano una modifica sostanziale, tale da legittimare l’esercizio del diritto di recesso da parte del socio dissenziente. Il cambiamento rilevante dell’oggetto sociale che comporti una modificazione radicale dell’attività tale da rendere l’oggetto dell’impresa effettivamente diverso da quello precedente è quello in cui la mutatio si traduca in un’attività sensibilmente difforme da quella precedentemente esercitata [nel caso di specie, una holding avente come oggetto sociale l’assunzione di partecipazioni in altre società, e il compimento di operazioni immobiliari solo in via strumentale e comunque non prevalente, aveva ceduto l’unico asset, costituito dalla totalità del capitale sociale di s.p.a., conservando solo i beni immobili di proprietà di quest’ultima].
L’azione individuale di responsabilità nei confronti degli amministratori ex art. 2476 c.c. non è esperibile quando il danno lamentato costituisca solo il riflesso del pregiudizio al patrimonio sociale [nel caso di specie, il danno oggetto di domanda risarcitoria sarebbe derivato dalla cessione delle quote della società partecipata a condizioni che, ad opinione dell’attrice, sarebbero state ingiustificatamente peggiori rispetto a quelle offerte da precedenti potenziali acquirenti].
Revoca della delibera di trasformazione e diritto di recesso
Anche a seguito dell’iscrizione della delibera di trasformazione nel Registro delle Imprese deve ritenersi legittima l’adozione di una delibera che disponga, nell’ambito dell’art 2437 bis c.c. o art. 2473 c.c., la trasformazione uguale e contraria a quella che ha suscitato l’esercizio del diritto di recesso del socio. Ciò preclude ex lege l’esercizio del diritto di recesso, ovvero lo rende inefficace se già esercitato, venendo meno il presupposto legittimante ovverosia la modificazione del contratto sociale che consente al socio che non vi ha prestato il consenso di uscire dalla compagine sociale.
L’art. 2437 bis c.c. concede alla società novanta giorni dall’emanazione della delibera che legittima il recesso del socio per revocarla. Non è consentito limitare questo spatium deliberandi invocando l’interferenza di una norma, l’art. 2500 bis c.c., che ha natura affatto differente e meramente processuale, impedendo la caducazione di un atto invalido di trasformazione e prevedendo, a fronte di un atto di trasformazione eventualmente invalido, una tutela non reale, ma solo risarcitoria.
La facoltà per la società di revoca della delibera che ha legittimato il recesso del socio non incontra limiti nelle disposizioni normative se adottata con le forme necessarie e si applica anche alla delibera di trasformazione nel senso che la società può sempre nuovamente trasformarsi nel tipo precedentemente abbandonato e, se ciò avviene nel termine di 90 giorni di cui all’art 2437 bis, co. 3, c.c., determina ex lege l’inefficacia sopravvenuta del recesso, il quale, seppur legittimamente esercitato, diviene inefficace.
Presupposti per la concessione del sequestro conservativo; estensione della clausola compromissoria alle controversie relative al recesso
Ai sensi dell’art. 671 c.p.c., il giudice, su istanza del creditore che ha fondato timore di perdere la garanzia del proprio credito, può autorizzare il sequestro conservativo di beni mobili o immobili del debitore o delle somme e cose a lui dovute, nei limiti in cui la legge ne permette il pignoramento. Per la concessione dell’invocato provvedimento cautelare è richiesta la coesistenza dei due requisiti del fumus boni juris e del periculum in mora, intesi, il primo, come dimostrazione della verosimile esistenza del credito per cui si agisce, essendo infatti sufficiente, in base ad un giudizio necessariamente sommario e prognostico, la probabile fondatezza della pretesa creditoria e, il secondo, come timore di perdere la garanzia costituita dal patrimonio del debitore. L’onere della prova della sussistenza di entrambi i requisiti del sequestro conservativo spetta al ricorrente. Nel vaglio della domanda di concessione della misura del sequestro conservativo non risultano, pertanto, ammissibili presunzioni iuris tantum, ma solo analisi strettamente ancorate alla condotta dei possibili destinatari della misura.
Il requisito del periculum in mora è desumibile sia da elementi oggettivi, riguardanti la capacità patrimoniale del debitore in rapporto all’entità del credito, sia da elementi soggettivi, rappresentati invece da comportamenti del debitore che lascino presumere che, al fine di sottrarsi all’adempimento, possa porre in essere atti dispositivi idonei a provocare l’eventuale depauperamento del suo patrimonio. Ai fini dell’accoglimento di una domanda di sequestro preventivo, è necessaria la rigorosa prova da parte del ricorrente della sussistenza di entrambi i presupposti soggettivi ed oggettivi di insufficienza o possibile depauperamento del patrimonio del debitore. Al giudice non è consentito desumere l’esistenza del periculum dalla mera sproporzione tra l’entità del credito e il valore attuale del patrimonio di cui dispone il debitore; neppure è sufficiente il mero sospetto circa l’intenzione del debitore di sottrarre alla garanzia del credito tutti o alcuni dei suoi beni. Il periculum in mora deve essere oggetto di una valutazione complessiva tanto degli elementi oggettivi quanto soggettivi, ossia cumulativamente e non isolatamente, attraverso un’analisi da compiere caso per caso; invero, l’eventuale insufficienza del patrimonio del debitore in relazione all’entità della pretesa fatta valere dal creditore non è da sola sufficiente a far sorgere il fondato timore di perdere la garanzia del credito vantato. Solo la valutazione cumulativa dei requisiti oggettivo e soggettivo sottesi al periculum in mora consente di contemperare in maniera adeguata le opposte esigenze, ossia, da un lato, le ragioni di chi agisce per tutelare con la misura conservativa il proprio diritto e, dall’altro, le rilevanti conseguenze che la misura del sequestro apporta ai patrimoni dei soggetti colpiti e che necessita, ai fini della concessione della misura, di condotte distrattive da allegare e provare. L’inadeguatezza del patrimonio del debitore rispetto all’ammontare complessivo dei debiti non basta, dunque, a integrare gli estremi del “pericolo nel ritardo”, alla cui ricorrenza la legge subordina l’autorizzazione del sequestro conservativo.
La clausola compromissoria contenuta nello statuto societario che prevede la devoluzione ad arbitri delle controversie relative al rapporto sociale deve ritenersi estesa a quelle riguardanti il recesso del socio dalla società. In particolare, dato che l’esercizio del diritto di recesso coinvolge al contempo sia lo status di socio che il diritto (di natura patrimoniale) ad esso conseguente alla liquidazione del valore della propria partecipazione, la clausola compromissoria si estende anche alla controversia – qualificabile come controversia relativa al rapporto sociale – in cui sia contestato il solo valore della quota ai fini della sua liquidazione.
Necessità di motivazione dell’esclusione di un socio di una s.r.l.
La delibera di esclusione del socio di una società di capitali deve essere accompagnata da un atto che espliciti le ragioni dell’esclusione dalla compagine sociale, al fine di consentire al socio idonea ed adeguata difesa. Infatti, ogni qualvolta sia adottato nei confronti di un socio un provvedimento di carattere ablativo o sanzionatorio (sia esso la revoca dall’amministrazione ovvero l’esclusione dalla società), la relativa decisione deve contenere in sé le ragioni poste a suo fondamento, nel contenuto necessario e sufficiente a farle comprendere al suo destinatario e a consentirgli di articolare le proprie difese permettendogliene l’impugnazione.
Diritto di recesso del socio di s.p.a., (in)applicabilità transtipica dell’art. 2473 c.c. e modifica dell’oggetto sociale
Ove la fusione inversa determini, per i soci della società incorporata, la conseguenza di essere astretti a un oggetto sociale diverso da quello della società cui partecipavano anteriormente alla fusione, si realizza una modifica della clausola dell’oggetto sociale; tale modifica va, dunque, valutata, ai fini del recesso, ai sensi dell’art. 2437, lett. a), c.c. Perché sia integrata la fattispecie ivi prevista, occorre che il mutamento della clausola relativa all’oggetto sociale comporti una modificazione “significativa” dello stesso. Tale deve intendersi una modificazione che incida in modo rilevante sul profilo di rischio dell’investitore, che – e questo è lo scopo della norma che ammette il recesso solo in caso di mutamento “significativo” – non può rimanere astretto a un nuovo oggetto sociale, il quale stravolga i presupposti sui quali egli ha operato le sue valutazioni di investimento. Al riguardo, non occorre che il nuovo oggetto sociale esponga la società e il socio ad un “depauperamento”, essendo sufficiente che alteri significativamente – ampliandolo, riducendolo o modificandolo – il rischio dell’investimento. Rileva, ai fini della norma, la modificazione dell’oggetto come tale, mentre non rileva la circostanza che alla modifica non sia (finora) seguito anche il mutamento in concreto dell’attività, dal momento che la modificazione apre comunque alla possibilità che la società svolga le nuove attività previste.
L’art. 2437, lett. d), c.c. si riferisce unicamente alla revoca da parte dell’assemblea dello stato di liquidazione inteso in senso tecnico giuridico ex art. 2484 c.c., quale accertato dagli amministratori, deliberato dall’assemblea o accertato giudizialmente, e non al mutamento dell’orientamento della maggioranza circa le scelte di proseguire o meno nell’attività sociale; tale orientamento, infatti, non assume rilevanza fino a che non si traduca in una delibera assembleare di scioglimento (2484, n. 6, c.c.) o in altre circostanze previste dallo statuto (art. 2484, n. 7, c.c.).
Le ipotesi di recesso previste dall’art. 2497 quater c.c. sono dettate a tutela del socio della società assoggettata alla direzione e coordinamento e non si prestano a essere applicate al socio della società che esercita direzione e coordinamento.
In via generale, sia per le s.p.a. che per le s.r.l., la delibera di scissione non produce i suoi effetti in termini di modificazioni sociali fino a che non sia eseguita, tanto è che l’art. 2503 c.c., richiamato per le scissioni dall’art. 2506 ter, ultimo comma, c.c., regola i casi in cui la delibera può essere immediatamente – o meno – “attuata” mediante l’atto (notarile). Ove la delibera di scissione dia diritto al recesso – come è per le s.r.l. –, esso comunque diviene inefficace se la delibera viene successivamente revocata. La revoca, dunque, opera non già come fattore di “modificazione” del regolamento sociale, ma come fattore di annullamento di una modificazione ancora tutta “da attuare”. Non può farsi equivalere, agli effetti del recesso, una delibera di revoca di una scissione non attuata a una delibera di scissione. È bensì evidente dall’ultimo comma dell’art. 2473 c.c. (e anche dell’art. 2437 bis, ultimo comma, c.c.) che il legislatore correla il diritto di recesso alla delibera di fusione o scissione e non alla sua esecuzione; ma è anche vero che la revoca della delibera può rendere addirittura inefficace il recesso già operato. Né, una volta che la delibera sia revocata oltre il termine nel quale essa renderebbe inefficace il recesso, essa diviene per ciò solo operativa: lo spazio fra delibera ed esecuzione della scissione (e lo stesso per la fusione) è proprio quello nel quale si esercitano i diritti di opposizione, con effetti anche preclusivi della esecuzione.
Quanto alla casistica determinante il diritto di recesso, il legislatore ha dettato due distinte e ben chiare discipline rispettivamente per le s.p.a. e le s.r.l. La ragione della distinzione delle due discipline risiede in una precisa scelta del legislatore, che con riferimento alle s.r.l. ha voluto, da un lato, semplificare la gestione e l’esercizio dell’impresa e, dall’altro, tutelare i soci di minoranza favorendo l’accessibilità al recesso come contropartita delle ampie facoltà attribuite al controllo da parte dei soci di maggioranza. In relazione, dunque, alla difformità delle fattispecie di recesso previste dagli artt. 2473 e 2437 c.c., non si tratta di riempire un vuoto normativo, né di valutare se una disciplina prevista per un tipo sociale possa applicarsi anche all’altro in ragione del fatto che esprime principi generali. Pertanto, nelle s.p.a. non compete il diritto di recesso ai soci che non hanno consentito alla fusione o scissione della società.
Il recesso del socio da una società è un negozio unilaterale recettizio, destinato a perfezionarsi e a produrre i propri effetti sin dal momento in cui la dichiarazione che lo esprime sia pervenuta nella sfera di conoscenza della società destinataria; ciò, naturalmente, quando ne sussistano i presupposti. Il recesso, essendo immediatamente efficace, non dà alcun diritto al socio a continuare a partecipare alla vita sociale. Con il legittimo recesso, infatti, il socio non è più abilitato all’esercizio dei diritti sociali e conserva il diritto ad ottenere la liquidazione della sua quota o azione.
La determinazione dell’importo della liquidazione della quota cui ha diritto il socio che ha esercitato il diritto di recesso è riservata, per disposizione di legge, al regolamento negoziale: in tal senso è chiaro il disposto dell’art. 2437 ter c.c. nelle sue varie disposizioni, culminanti nella previsione – in caso di disaccordo fra socio e società sul valore della quota azionaria – di uno strumento giudiziale, non contenzioso, volto alla nomina di un esperto, il cui parere è aggredibile con causa contenziosa solo nei limiti dell’art. 1349 c.c. È da ritenere che questo regolamento normativo della materia, da un lato, risenta della oggettiva difficoltà di determinare il “valore di mercato” delle partecipazioni (si nota che lo stesso regime vale per le s.r.l., tipicamente società chiuse) e, dall’altro, miri a ridurre al massimo il contenzioso e i tempi di attesa del socio rispetto alla liquidazione della quota e insieme (e correlativamente) a deformalizzare le operazioni, rendendo accessibile all’esperto la documentazione occorrente senza limitazioni. Rispetto a un tale sistema è pertanto aliena la pretesa di ottenere la liquidazione secondo le regole del processo ordinario, caratterizzato da preclusioni e oneri probatori.