Art. 2475 ter c.c.
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Conflitto di interesse degli amministratori di s.r.l. e difetto di rappresentanza
Ai fini dell’applicabilità del rimedio di cui all’art. 2475 ter c.c., dettato in tema di conflitto di interesse degli amministratori di una società a responsabilità limitata, è necessario che: (i) il conflitto di interessi sorga nel momento genetico-negoziale di un determinato atto, quando cioè l’amministratore, in relazione a una specifica operazione, si faccia concretamente portatore di un interesse personale, contrapposto e inconciliabile con quello della società, o comunque idoneo a cagionarle un pregiudizio tale per cui la creazione dell’utile per il primo si ottiene mediante il sacrificio della seconda; (ii) sia riscontrato un pregiudizio all’interesse sociale; (iii) la situazione di conflitto sia conosciuta o conoscibile da parte del terzo, contraente con la società.
In assenza di una partecipazione dolosa del terzo, determinato dall’esigenza di danneggiare la società avvalendosi della limitazione stabilita dall’art. 2475 bis c.c., l’inopponibilità ai terzi delle limitazioni convenzionali ai poteri degli amministratori, ancorché pubblicate, determina come conseguenza il fatto che l’eventuale inosservanza di dette limitazioni non potrà incidere sulla validità e l’efficacia degli atti compiuti, essendo questi inattaccabili e incontestabili nei rapporti con i terzi, ma potrà rilevare unicamente nei rapporti interni per esporre l’amministratore a responsabilità verso la società.
Sulla validità degli atti posti in essere dall’amministratore invalidamente nominato in caso di annullamento della delibera di nomina
Gli atti compiuti dagli amministratori illegittimamente nominati sopravvivono anche all’eventuale annullamento della nomina stessa, dovendo la regola della retroattività giuridica della sentenza di annullamento di una delibera essere necessariamente temperata dalla limitata possibilità di ripristinazione della situazione giuridica preesistente in senso materiale. Dunque, la retroattività degli effetti delle sentenze di annullamento non è assoluta, ma incontra dei limiti, anche al fine di garantire la certezza dei rapporti medio tempore sorti. Con specifico riferimento al tema della legittimità degli atti posti in essere in esecuzione di delibera assembleare annullabile, cui attiene l’istituto della sospensione ai sensi dell’art. 2378 c.c., deve ritenersi che la sospensione dell’esecuzione della deliberazione, disposta dal giudice, rende illegittimi gli atti di esecuzione che vengano ciononostante posti in essere. Al contrario, la mancanza di un provvedimento di sospensione comporta la legittimità degli atti esecutivi, ancorché relativi a una delibera annullabile, e tale legittimità resiste al sopravvenire dell’annullamento, non travolgendo gli atti di gestione posti in essere medio tempore.
Ciò non comporta che i singoli atti, aventi contenuto negoziale, non possano essere rimossi su iniziativa dalla società, ma ciò è possibile, atto per atto, se ricorrano i presupposti dell’art. 2475 ter c.c., ossia l’ipotesi della conclusione di contratti da parte di amministratore in conflitto di interessi con la società.
L’annullabilità di una delibera di aumento del capitale sociale, laddove non ne sia stata disposta la sospensione dell’esecuzione ai sensi dell’art. 2378, co. 3, c.c., non incide – ancorché ne possa derivare una modifica della composizione della maggioranza allorquando non sia stata seguita dall’integrale esercizio del diritto di opzione da parte dei vecchi soci – sulla validità delle successive deliberazioni adottate con la nuova maggioranza, poiché l’omessa adozione del provvedimento di sospensione rende legittimi gli atti esecutivi della prima deliberazione, resistendo, peraltro, tale legittimità anche al sopravvenire del suo annullamento, la cui efficacia, sebbene in linea di principio retroattiva, è pur sempre regolata dalla legge ed operante nei soli limiti da essa sanciti, tanto rivelandosi affatto coerente con le esigenze di certezza e stabilità sottese alla disciplina delle società commerciali.
Annullamento del contratto posto in essere dall’amministratore di s.r.l. in conflitto d’interessi
L’applicazione del disposto dell’art. 2475-ter c.c. richiede, su un piano oggettivo, che sussista un interesse dell’amministratore nell’affare, che può essere di qualunque natura e, quindi, patrimoniale o meno. Non è invece richiesto che vi sia una assoluta incompatibilità tra la realizzazione dell’interesse sociale – anche solo potenzialmente leso dal negozio – e quello personale dell’amministratore. Dal punto di vista soggettivo, invece, è necessario e sufficiente che la situazione di conflitto di interessi appaia riconoscibile al terzo contraente.
Inoltre, l’art. 2475-ter c.c. presuppone che l’amministratore, portatore di un interesse in conflitto con la società, abbia avuto la possibilità di influire sul contenuto negoziale dell’atto. Al contrario, ove egli si sia limitato a recepire all’interno del contenuto negoziale la volontà dei soci cristallizzatasi in una decisione della società, verrebbe meno la ratio che giustifica l’applicazione della norma: tale soluzione appare d’altra parte coerente con la norma di ordine generale di cui all’art. 1395 c.c. che esclude l’annullabilità del contratto con se stesso in caso di predeterminazione del contenuto del contratto da parte dello stesso rappresentato.
Nomina del curatore speciale nell’azione di responsabilità contro l’amministratore di s.r.l.
Spetta al giudice, anche in corso di causa, il potere di verificare la legittimazione ad agire e a contraddire delle parti ed eventualmente di porvi rimedio. Con la nomina del curatore speciale ex art. 78 c.p.c. – ferma restando la titolarità del diritto in capo alla società – viene conferita ad un curatore estraneo all’ente sia la legittimazione processuale a stare in giudizio, con la funzione di gestire provvisoriamente gli interessi processuali della società, sia la rappresentanza sostanziale della società nel processo.
Il debito risarcitorio ex art. 2393 c.c. ha natura di debito di valore – come tale sensibile al fenomeno della svalutazione monetaria fino al momento della sua liquidazione – ancorché il danno consista nella perdita di una somma di denaro, costituendo questo, in siffatta particolare ipotesi, solo un elemento per la commisurazione dell’ammontare del danno, privo di incidenza rispetto alla natura del vincolo. Conseguentemente, spetta anche (art.1223 c.c.) il ristoro per il mancato godimento delle somme liquidate, da calcolare, applicando sulla somma accertata, rivalutata annualmente (fino alla data della sentenza) in base agli indici ISTAT su base nazionale, gli interessi al tasso legale.
Presupposti per l’annullamento del contratto stipulato dall’amministratore in conflitto di interessi ex art. 2475 ter c.c.
La norma di cui all’art. 2475 ter c.c. disciplina l’applicazione nel diritto societario del generale principio sancito, per i contratti, all’art. 1394 c.c. (e di cui pure costituisce ipotesi applicativa specifica il contratto concluso dal rappresentante con sé stesso, ex art. 1395 c.c.), secondo cui la volontà di concludere il contratto è viziata – con conseguente annullabilità del negozio – nel caso in cui il rappresentante lo abbia stipulato in conflitto con gli interessi del rappresentato, se il conflitto era conosciuto o quantomeno conoscibile dal terzo contraente. Tale rimedio caducatorio si applica agli amministratori unici, agli amministratori delegati con poteri rappresentativi e anche gestori (rientranti nella delega loro conferita), agli amministratori muniti di poteri di rappresentanza, ma privi dei corrispondenti poteri di gestione, nonché agli amministratori rappresentanti in regime di amministrazione disgiuntiva. Quanto agli elementi necessari per l’annullamento del contratto, la norma richiede, su di un piano oggettivo, che sussista un interesse dell’amministratore nell’affare, che può essere di qualunque natura e, quindi, patrimoniale o meno. Non è invece richiesto che vi sia una assoluta incompatibilità tra la realizzazione dell’interesse sociale – anche solo potenzialmente leso dal negozio – e quello personale dell’amministratore. Dal punto di vista soggettivo, è necessario e sufficiente che la situazione di conflitto di interessi appaia riconoscibile al terzo contraente.
Gli elementi integranti la fattispecie di cui all’art. 2475 ter c.c. debbono essere interpretati nel senso che, affinché ricorra la situazione di conflitto di interessi, è necessario un rapporto di incompatibilità tra le esigenze del rappresentato e quelle personali del rappresentante (o di un terzo che egli a sua volta rappresenti) e tale rapporto – da riscontrare non in termini astratti ed ipotetici, ma con riferimento specifico al singolo atto, e che costituisce causa d’annullabilità per vizio della volontà negoziale (sempre che detta situazione sia conosciuta o conoscibile dall’altro contraente) – è ravvisabile rispetto al contratto le cui intrinseche caratteristiche consentano l’utile di un soggetto solo passando attraverso il sacrificio dell’altro.
L’art. 2475 ter c.c. presuppone che l’amministratore, portatore di un interesse in conflitto con la società, abbia avuto la possibilità di influire sul contenuto negoziale dell’atto. Al contrario, ove egli si sia per ipotesi limitato a recepire all’interno del contenuto negoziale la volontà dei soci cristallizzatasi in una decisione della società, verrebbe meno la ratio che giustifica l’applicazione della norma: tale soluzione appare coerente con la norma di ordine generale di cui all’art. 1395 c.c., che esclude l’annullabilità del contratto con sé stesso in caso di predeterminazione del contenuto del contratto da parte dello stesso rappresentato.
L’esistenza di un conflitto d’interessi tra la società parte del contratto che si assume viziato ed il suo amministratore non può farsi discendere genericamente dalla mera coincidenza nella stessa persona dei ruoli di amministratore delle due società contraenti, ma deve essere accertata in concreto, sulla base di una comprovata relazione antagonistica di incompatibilità degli interessi di cui siano portatori, rispettivamente, la società – che sostiene di aver stipulato il contratto contro la propria volontà – e il suo amministratore e della riconoscibilità della stessa da parte dell’altro contraente.
Azione di impugnazione della delibera del consiglio di amministrazione di s.r.l.
L’art. 2388 c.c., applicabile anche alle delibere assunte dal consiglio di amministrazione delle s.r.l., contiene un principio generale di sindacabilità – ad iniziativa degli amministratori assenti o dissenzienti ovvero dei soci i cui diritti siano stati direttamente incisi – che si realizza mediante applicazione delle regole contenute nell’art. 2377 c.c., a sua volta espressivo di un principio generale di sindacabilità delle deliberazioni di tutti gli organi sociali per contrarietà alla legge o all’atto costitutivo, in conformità ad un orientamento giurisprudenziale che, nonostante la letterale limitazione dell’impugnabilità delle delibere del consiglio di amministrazione, sia della s.p.a. sia della s.r.l., viziate dal voto determinante di amministratori versanti in conflitto di interesse, ne ha fatto applicazione superando la predetta limitazione.
Tale impugnabilità va circoscritta negli stessi limiti previsti dalla disposizione in materia di s.p.a., limiti che sono preordinati ad accentuare il regime di stabilità delle deliberazioni dell’organo gestorio rispetto a quello proprio delle deliberazioni dell’organo assembleare, in particolare la disciplina ex art. 2388 c.c. sotto il titolo di “validità delle deliberazioni del consiglio”, non operando per le prime (a differenza di quanto previsto per le seconde dagli artt. 2377 e 2378 c.c.) alcuna distinzione tra ipotesi di c.d. “annullabilità” e “nullità”, consente l’impugnabilità delle delibere del consiglio di amministrazione in ogni caso solo ai soggetti specificatamente indicati ed entro il termine di decadenza previsto, e ciò a prescindere dalla “gravità” del vizio denunciato, salva l’ipotesi estrema di delibera inesistente, vale a dire di delibera non riconducibile in alcun modo a una manifestazione di volontà – sia pure irrituale – di organo gestorio.
L’art. 2388 c.c. attribuisce la legittimazione ad agire all’azione di impugnazione della delibera del consiglio di amministrazione all’amministratore assente o dissenziente, ponendo la qualifica di amministratore quale condizione dell’azione. La legittimazione ad agire e l’interesse ad agire costituiscono condizioni dell’azione che devono sussistere fino al momento della decisione e la cui carenza è rilevabile anche d’ufficio. L’amministratore cessato difetta di interesse ad agire, che è collegato alla funzione di amministratore.
Incompatibilità necessaria al fine di annullare un contratto concluso dall’amministratore di s.r.l. in conflitto di interessi
Il conflitto di interessi disciplinato dall’art. 1394 c.c., e di cui l’art. 2475 ter c.c. costituisce una specifica riproduzione e applicazione, postula la sussistenza di un rapporto di incompatibilità tra le esigenze del rappresentato e quelle personali del rappresentante o di un terzo che egli a sua volta rappresenti.
Il conflitto di interessi tra rappresentante e rappresentato che, se conosciuto o conoscibile dal terzo, rende annullabile il contratto concluso dal rappresentante, ai sensi dell’art. 1394 c.c. (applicabile anche ai casi di rappresentanza organica di una persona giuridica), ricorre allorquando il primo sia portatore di interessi incompatibili con quelli del secondo, cossiché la salvaguardia dei detti interessi gli impedisce di tutelare adeguatamente l’interesse del “dominus“, con la conseguenza che non ha rilevanza, di per sé, che l’atto compiuto sia vantaggioso o svantaggioso per il rappresentato e che non è necessario provare di aver subito un concreto pregiudizio, perché il rappresentato possa domandare o eccepire l’annullabilità del negozio. A tal fine, i vincoli di solidarietà e la comunanza d’interessi fra rappresentate e terzo sono indizi che consentono al giudice del merito di ritenere, secondo l’ “id quod plerumque accidit” ed in concorso con altri elementi (come l’inesistenza di qualsiasi interesse al contratto ovvero la sussistenza di un pregiudizio non correlato ad alcun vantaggio), sia il proposito del rappresentante di favorire il terzo, sia la conoscenza effettiva o quanto meno la conoscibilità di tale situazione da parte del terzo.
Dunque, non sembra potersi configurare in modo giuridicamente fondato un’effettiva situazione di incompatibilità e, quindi, di conflitto di interessi invalidante il negozio, allorché non siano in discussione il rapporto negoziale e la sua utilità per il rappresentato.
L’annullabilità del contratto per abuso di potere rappresentativo nelle S.r.l.
L’art. 2475-ter c.c. riproduce per le S.r.l. la regola generale sancita dall’art. 1394 c.c., prevedendo l’annullabilità, su domanda della società, dei contratti conclusi dagli amministratori che ne hanno la rappresentanza, quando questi hanno agito in conflitto di interessi, per conto proprio o di terzi, se il conflitto era conosciuto o riconoscibile dal terzo.
Affinché sussista un conflitto di interessi idoneo ad annullare il contratto, è necessario che il rappresentante persegua interessi incompatibili con quelli del rappresentato, di talché la salvaguardia dei primi impedisce al rappresentante di tutelare adeguatamente quelli facenti capo al dominus. Tale valutazione va condotta non in termini ipotetici o astratti, ma con riferimento alle caratteristiche concrete del negozio, al fine di verificare se la creazione dell’utile per una parte implichi il sacrificio dell’altra.
L’esistenza di un conflitto d’interessi tra la società e il proprio amministratore non può essere fatta discendere da un’aprioristica considerazione della soggettiva coincidenza dei ruoli di amministratore delle due società contraenti, ma dev’essere accertata in concreto, sulla base di una comprovata relazione antagonistica di incompatibilità degli interessi di cui sono portatori, rispettivamente, la società e il suo amministratore.
Responsabilità da direzione unitaria, conflitto di interessi di amministratori di s.r.l.
L’art. 2497 c.c. disciplina la responsabilità delle società o enti che esercitano attività di direzione e coordinamento di altre società. È in quest’ambito, dunque, che si colloca la previsione di cui al secondo comma secondo il quale “risponde in solido chi abbia comunque preso parte al fatto lesivo e, nei limiti del vantaggio conseguito, chi ne abbia consapevolmente tratto beneficio”. Ne discende, dunque, che la norma è da ascrivere al fenomeno dei gruppi societari, presupponendo l’esistenza di un’attività di direzione e coordinamento quale attività di fatto, giuridicamente rilevante, che si esplica come influenza dominante sulle scelte e determinazioni gestorie degli amministratori della società eterodiretta che ne sono i naturali referenti e destinatari. Il fatto lesivo cui fa riferimento il secondo comma, infatti, non è qualunque evento dannoso per la società, ma esclusivamente quello individuato dal primo comma e cioè il danno cagionato dalle “società o gli enti che, esercitando attività di direzione e coordinamento di società, agiscono nell’interesse imprenditoriale proprio o altrui in violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale delle società medesime”.
L’art. 2475-ter c.c. introduce, all’interno del diritto delle società, una norma rispondente al principio generale sancito dall’art. 1394 c.c. in materia contrattuale. In tema di conflitto di interessi degli amministratori di s.r.l. il legislatore non ha ritenuto opportuno introdurre una disciplina generale in ordine agli obblighi degli amministratori in conflitto di informazione preventiva o di astensione e ciò a differenza non solo del regime previgente alla riforma del diritto societario, ma anche della disciplina dettata per le società per azioni. Affinché possa discorrersi di conflitto di interessi del rappresentante rispetto a quello del rappresentato, deve essere provata l’esistenza di un rapporto di incompatibilità tra i due centri di interessi, da dimostrare in modo non astratto o ipotetico, ma tenendo conto dell’idoneità del singolo atto o negozio alla creazione dell’utile di un soggetto mediante il sacrificio dell’altro.
Mancato assolvimento dell’onere probatorio nell’azione sociale di responsabilità e disciplina del conflitto di interessi nella s.r.l.
L’azione sociale di responsabilità ha natura contrattuale, in quanto trova la sua fonte nell’inadempimento dei dover imposti agli amministratori dalla legge o dall’atto costitutivo. Pertanto, l’attore ha l’onere di fornire la prova dell’esistenza di un danno attuale e concreto (ossia il depauperamento del patrimonio sociale) e la riconducibilità del pregiudizio al fatto lesivo dell’amministratore. Spetta, invece, all’amministratore provare l’inesistenza del danno, o altrimenti la non imputabilità a sé dell’evento lesivo, fornendo elementi positivi a smentita degli addebiti contestati, dimostrando la propria osservanza dei doveri, nonché il corretto adempimento degli obblighi impostigli dalla legge o dallo statuto.
L’art. 2475 ter c.c. prevede una disciplina del conflitto di interessi degli amministratori di s.r.l. autonoma e diversificata rispetto a quella prevista per le s.p.a. Infatti, in primo luogo, nell’ambito delle s.r.l. rilevano i soli interessi dell’amministratore che siano in contrasto con l’interesse sociale, mentre per le s.p.a. l’art. 2391 c.c. prende in considerazione ogni interesse che l’amministratore possa avere in una determinata operazione; in secondo luogo, nella s.r.l. manca una disciplina concernente obblighi di comunicazione, motivazione ed astensione diretti a prevenire l’abuso da parte degli amministratori in conflitto; infine, i rimedi previsti nella s.r.l. per reagire all’assunzione di una decisione o al compimento di un atto viziato da conflitto di interessi hanno carattere successivo ed invalidatorio, diversamente dalla disciplina prevista per le s.p.a. caratterizzata dall’impostazione, in via preventiva, di obblighi comportamentali gravanti sugli amministratori. In particolare, nelle s.r.l. sussiste un conflitto di interessi tra amministratore e società quando, in relazione a una determinata decisione, a un vantaggio anche potenziale dell’amministratore fa fronte uno svantaggio della società, o viceversa (potendo anche accadere che l’amministratore, per evitare un danno, pregiudichi le ragioni della società). Premesso, quindi, che non vi è una specifica disciplina concernente gli obblighi di informazione dell’amministratore potenzialmente in conflitto di interessi, ai fini dell’affermazione della responsabilità dell’amministratore per conflitto di interessi è richiesto il positivo accertamento, in concreto, di un effettivo pregiudizio per la società. Ciò emerge tanto dall’art. 2476 c.c., a norma del quale la responsabilità dell’amministratore insorge solo a fronte di un danno per la società, quanto dal disposto dello stesso art. 2475 ter c.c., laddove indica che le decisioni assunte dall’organo amministrativo in conflitto di interessi possono essere impugnate qualora cagionino un danno patrimoniale alla società.
La mancata percezione di utili e la diminuzione di valore della quota di partecipazione non costituiscono danno diretto del singolo socio (necessario ai fini dell’affermazione della responsabilità nei confronti del singolo socio ai sensi dell’art. 2476, co. 6 [ora 7], c.c.), poiché gli utili fanno parte del patrimonio sociale fino all’eventuale delibera assembleare di distribuzione e la quota di partecipazione è un bene distinto dal patrimonio sociale, la cui diminuzione di valore è conseguenza soltanto indiretta ed eventuale della condotta dell’amministratore.