Art. 2475 ter c.c.
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Responsabilità dell’amministratore per il compimento in conflitto di interessi di un atto dannoso per la società
Azione sociale di responsabilità e atti compiuti dall’amministratore di S.r.l. in conflitto di interessi
La violazione del divieto per l’amministratore di S.r.l. di compiere, in conflitto di interessi, atti dannosi per la società, anche se non espressamente prevista dall’art. 2475-ter c.c. come fonte di responsabilità, è riconducibile alla violazione dell’obbligo generale di tutela dell’integrità del patrimonio sociale gravante sull’amministratore ai sensi dell’art. 2476 c.c.
Legittimazione del socio ad impugnare le delibere consiliari di s.r.l.
La mancanza, nella disciplina dettata per le s.r.l., di una previsione analoga a quella di cui all’art. 2388 co. 2 c.c. – che legittima all’azione anche i soci e a prescindere dalla configurabilità di un conflitto di interessi in capo agli amministratori – rappresenta una evidente lacuna legislativa, colmabile con il richiamo alle norme dettate per le s.p.a. in tema di impugnabilità di tali decisioni. La ratio sottesa a tale disposizione è infatti espressione di un principio generale di sindacabilità – ad iniziativa degli amministratori assenti o dissenzienti ovvero dei soci i cui interessi siano stati direttamente incisi – delle decisioni dell’organo amministrativo di società di capitali contrarie alla legge o allo statuto. Dunque, sebbene la norma di cui all’art. 2475 ter c.c. preveda solo l’impugnazione, ad opera degli amministratori, delle decisioni adottate dal consiglio di amministrazione con il voto determinante dell’amministratore in conflitto di interesse con la società, ciò non implica alcuna limitazione in ordine alla facoltà di impugnazione del socio che, con la stessa, abbia subito la violazione di un proprio diritto, trovando, pertanto, estensione analogica la previsione di cui all’art. 2388 co. 2 c.c.
La responsabilità civile degli amministratori è circoscritta ai soli danni che siano ricollegabili con un nesso di causalità immediata alla attività dell’amministratore ed è onere di chi agisce fornire la prova rigorosa del danno patito e del nesso di causalità tra comportamento e danno. L’adozione di una delibera consiliare illegittima non comporta l’automatica produzione di un danno alla società.
Sequestro giudiziario del compendio aziendale in pendenza del processo vertente sull’annullamento di contratti di affitto d’azienda asseritamente stipulati in conflitto di interessi
Il sequestro giudiziario può essere concesso sulla valutazione di due presupposti: da un lato, l’esistenza di una controversia suscettibile di incidere sulla situazione “possessoria”, inteso il termine in senso lato ed esteso alla situazione di detenzione dipendente da un titolo che si vuole, nel giudizio di merito, invalidare; dall’altro, l’opportunità di custodia e gestione temporanea, sottratta al possessore/detentore. Tale opportunità è certamente qualcosa di meno del periculum in mora che è richiesto per la maggioranza delle misure cautelari. L’apprezzamento del fondamento della pretesa fatta valere dal soggetto che agisce cautelarmente non va fatto secondo le regole che presiedono al ravvisamento del fumus boni iuris, ma nell’ottica della verifica della non pretestuosità o abnormità della pretesa.
In tema di conflitto di interessi degli amministratori, nelle s.p.a. sono previsti meccanismi di obbligo di preventiva esplicitazione del conflitto, di obbligo motivazionale delle delibere di CdA, nonché la possibilità di impugnativa della delibera; ma non esplicitamente la annullabilità del contratto eventualmente risultante, possibile ex art. 1394 c.c. secondo le regole generali, come si evince dal richiamo normativo ai “terzi di buona fede”. L’art. 2475 ter c.c., relativo alle s.r.l., invece, non prevede i meccanismi di previa denuncia del conflitto, né di obbligo di motivazione da parte dell’organo amministrativo, stabiliti dalla disciplina delle società per azioni. Esso, nei suoi due commi, dapprima stabilisce l’annullabilità del contratto concluso in conflitto di interessi, in conformità alla regola generale dell’art. 1394 c.c. (l’azione è ritenuta esercitabile nel quinquennio come per regola generale) e successivamente stabilisce la regola della impugnabilità delle delibere di CdA approvate con il voto determinante del componente in conflitto di interessi, entro i 90 giorni. Si tratta di due rimedi ben distinti, con legittimazione attiva diversa. Nessuna espressione autorizza a ritenere che quando il contratto stipulato in conflitto sia conforme ad un deliberato del CdA, la mancata impugnazione della delibera nel termine breve impedisca alla società di impugnare il contratto nel quinquennio.
Azione di responsabilità e conflitto di interessi dell’amministratore nelle s.r.l.
L’azione di responsabilità verso l’amministratore esercitata dal socio di s.r.l. in sostituzione della società ha natura contrattuale, ed è fondata sul rapporto assimilabile al mandato che lega l’amministratore alla società. A fronte dell’allegazione di specifici addebiti relativi all’inadempimento degli obblighi di sana e prudente gestione della società assunti dall’amministratore in forza dell’incarico ricevuto, è onere del convenuto dar prova dell’adempimento ai propri obblighi e della non imputabilità a sé dei fatti dannosi.
L’art. 2475-ter c.c. con riguardo alle s.r.l. prevede il vaglio delle delibere e dei contratti stipulati da un amministratore quando l’altra parte contraente o il soggetto beneficiario della delibera sia lo stesso amministratore, per sé stesso o per conto di terzi. Tale vaglio va attivato mediante l’impugnazione dell’atto che si ritiene adottato in conflitto di interessi, qualora ne sia derivato un danno alla società. Non è prevista, dunque, una generale incompatibilità a rivestire incarichi in più società, per un conflitto solo potenziale, ma l’impugnazione di singoli atti per risolvere un conflitto di interessi, venuto in concreta evidenza.
Impugnazione di delibere assembleari e consiliari di s.r.l.
E’ legittimato ad impugnare la delibera assembleare in relazione all’attribuzione delle deleghe agli amministratori di s.r.l. il socio amministratore che, avendo votato in assemblea a favore della proposta alternativa a quella in seguito approvata, non ha espresso voto favorevole alla deliberazione impugnata ed è quindi socio dissenziente giusto il disposto dell’art. 2479-ter, co. 1 c.c.
Stante l’incompatibilità ex art. 18 lett. c), l. n. 247/2012, se un avvocato viene nominato amministratore unico o amministratore delegato di società di capitali e accetta l’incarico si potrebbe porre, qualora dovessero ricorrere tutti i presupposti stabiliti dalla Corte di legittimità, in contrasto con la legge professionale. Tuttavia, la delibera della società di conferimento dell’incarico sociale non viola la legge e non è illegittima, salvo diversa disposizione della statuto della società. Si tratta, pertanto, di incompatibilità all’esercizio della professione forense da parte di chi sia stato nominato amministratore con deleghe in una società commerciale e non di incompatibilità endosocietaria a svolgere la carica di amministratore a chi sia anche avvocato. Infatti, ciò che comporta la violazione di quella legge non è la delibera assembleare di nomina quale amministratore con deleghe di chi sia avvocato, ma eventualmente la condotta dell’avvocato che, accettando l’incarico a determinate condizioni, cumula l’esercizio della professione legale con il mandato di amministratore in violazione della legge sull’ordinamento professionale forense.
L’art. 2389, ultimo comma c.c. va interpretato nel senso che, se lo statuto della società prevede che l’incarico di amministratore sia a titolo oneroso, è l’assemblea dei soci che determina l’importo complessivo della remunerazione di tutti gli amministratori, inclusi quelli investiti di particolari cariche.
Ai fini della dichiarazione di invalidità per conflitto di interessi e abuso della maggioranza in danno del socio minoritario, nel loro effetto combinato, delle delibere assembleari su attribuzione delle deleghe e determinazione complessiva dei compensi degli amministratori e consiliari sulla ripartizione di quei compensi, il socio amministratore deve dimostrare la sussistenza di elementi concludenti circa la natura abusiva delle delibere nei loro effetti combinati, provando: (i) l’irragionevolezza della distribuzione delle deleghe all’interno del CdA, (ii) la abnormità del compenso attribuito dalla assemblea all’organo amministrativo, e (iii) l’incongruità della ripartizione del compenso tra gli amministratori.
Criteri di quantificazione del danno e poteri del CTU
Sussiste una situazione di conflitto di interessi giuridicamente rilevante allorquando l’amministratore di una società disponga la vendita nummo uno della domanda di brevetto ad un’altra società a lui riconducibile, in danno della società amministrata.
Il danno derivante dalla condotta in questione si identifica nella perdita patrimoniale e reddituale subita dalla società venditrice per effetto della dismissione del brevetto a prezzo simbolico e, dunque, nel valore e nella reddittività di tale brevetto.
In tema di consulenza tecnica d’ufficio, rientra nel potere del consulente tecnico d’ufficio attingere “aliunde” notizie e dati, non rilevabili dagli atti processuali e concernenti fatti e situazioni formanti oggetto del suo accertamento, quando ciò sia necessario per espletare convenientemente il compito affidatogli, e che dette indagini possono concorrere alla formazione del convincimento del giudice purché ne siano indicate le fonti, in modo che le parti siano messe in grado di effettuarne il controllo, a tutela del principio del contraddittorio. L’acquisizione di dati e documenti da parte del consulente tecnico ha funzione di riscontro e verifica rispetto a quanto affermato e documentato dalle parti; mentre non è consentito al consulente sostituirsi alla parte stessa, andando a ricercare aliunde i dati stessi che devono essere oggetto di riscontro da parte sua, che costituiscono materia di onere di allegazione e di prova che non gli siano stati forniti, in quanto in questo modo verrebbe impropriamente a supplire al carente espletamento dell’onere proba-torio, in violazione sia dell’articolo 2697 c.c. che del principio del contraddittorio. Il consulente d’ufficio può pertanto acquisire documenti pubblicamente consultabili o provenienti da terzi o dalle parti nei limiti in cui siano necessari sul piano tecnico ad avere riscontro della correttezza delle affermazioni e produzioni documentali delle parti stesse o, ancora, quando emerga l’indispensabilità dell’accertamento di una situazione di comune interesse, indicandone la fonte di acquisizione e sottoponendoli al vaglio del contraddittorio, esigenza, quest’ultima, che viene soddisfatta sia mediante la possibilità della partecipazione al contraddittorio tecnico attraverso il consulente di parte, sia, a posteriori, con la possibilità di dimostrazione di elementi rilevanti in senso difforme.
Responsabilità dell’amministratore per conflitto d’interessi
La mera coincidenza soggettiva del ruolo di amministratore unico di due società in reciproco rapporto negoziale non è di per sé idonea, in assenza di ulteriori elementi, ad assurgere ad ipotesi di conflitto di interessi censurabile ai sensi degli artt. 2475 ter e 2476 c.c., dovendosi riscontrare in concreto la portata lesiva del conflitto, tale per cui all’utile della società avvantaggiata corrisponda il sacrificio dell’altra società danneggiata. Viceversa, il conflitto di interessi non produttivo di danno, si risolve in una mera situazione potenzialmente lesiva, che potrà, certamente, assumere autonomo rilievo sul piano deontologico, ma che, sul piano civilistico, non determina l’insorgenza di alcun obbligo risarcitorio.
Conflitto di interessi di amministratori di società a responsabilità limitata: la discrezionalità gestoria è tutelabile solo se l’operazione avviene nel libero mercato
La legittimità delle operazioni concluse dagli amministratori in conflitto di interessi deve essere valutata considerando le loro ragioni e la loro convenienza.
Non sussiste dubbio, pertanto, che anche alle s.r.l. si applichi la regola che l’amministratore che, agendo in conflitto e perciò violando l’obbligo di lealtà verso la società, provochi un danno alla società è tenuto al risarcimento, in quanto la discrezionalità gestoria è tutelabile solo in quanto l’operazione avvenga nel libero mercato, dove sono appunto gli interessi confliggenti ivi operanti (es.: compratore/venditore) a limitare in primis e secondo parametri generali di convenienza economica l’operato dell’amministratore; quei parametri costituiscono appunto il limite tecnico alle scelte gestorie dell’amministratore.
Quando però lo stesso amministratore, con il suo operato, disinnesca i limiti posti dal mercato, decidendo di operare con se stesso o con parti correlate, ne consegue che il suo operato debba essere valutato da un’istanza terza, il Giudice, al fine di verificare se l’operazione sia conforme all’interesse sociale, con riferimento alle ragioni ed alla convenienza economica dell’operazione medesima.
Nel caso in cui, come quello in esame, i contratti di licenza e di cessione dei marchi sono stati stipulati in evidente conflitto di interesse (in quanto gli amministratori hanno stipulato con se stessi i contratti in questione, essendo loro stessi, da un lato, i titolari dei marchi, dapprima concessi in licenza e successivamente ceduti, e dall’altro lato gli amministratori della società dapprima licenziataria e successivamente acquirente dei marchi), la regola dell’insindacabilità delle scelte economiche effettuate dagli amministratori della società cede a fronte della necessità di valutare se l’operazione compiuta dai rappresentanti ha provocato un danno alla società rappresentata, come è stato accertato nella fattispecie in esame, sulla base della consulenza tecnica, disposta nel giudizio di primo grado.
L’azione di responsabilità contro gli amministratori esperita per ottenere la riduzione del prezzo di (avvenuto) acquisto delle azioni della società
Per la determinazione della responsabilità degli amministratori ex art. 2476 c.c., avente natura contrattuale, non è sufficiente il risultato negativo dell’attività sociale o di singoli atti. Occorre invero provare la sussistenza di specifiche violazioni – da parte degli amministratori – dei doveri loro imposti dalla legge e/o dallo statuto, nonché il nesso di causalità tra le violazioni medesime e il danno verificatosi. L’onus probandi della non imputabilità del fatto dannoso alla propria condotta spetta invece all’amministratore, il quale deve fornire prova positiva dell’osservanza dei doveri e dell’adempimento degli obblighi imposti.
Ciò posto, resta fermo che – in ottemperanza alla cd. business judgement rule o giudizio prognostico postumo – all’organo giudicante non è dato vagliare il merito delle scelte di gestione, dovendo l’analisi di questo limitarsi alla diligenza degli amministratori, ivi compresa la correttezza procedurale delle decisioni adottate e/o attuate da tali soggetti.
La domanda in sede giudiziale della riduzione del prezzo di (avvenuto) acquisto delle azioni di una società, asseritamente inficiato dal comportamento doloso del precedente amministratore, giustificata invocando l’invalidità del contratto per vizio del consenso, deve essere accompagnata dalla dimostrazione de: (i) l’artificio o raggiro posto in essere per indurre la conclusione del contratto che non sarebbe stato altrimenti concluso ovvero che sarebbe stato concluso a condizioni diverse; (ii) il fatto che l’altrui dolo fosse idoneo a viziare la propria volontà, i.e. che l’agente avesse contezza delle false rappresentazioni indotte e fosse convinto di poter inficiare l’altrui volontà, traendola specificamente in inganno, con artifici, raggiri e menzogne.