Art. 2476 c.c.
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Principi in tema di responsabilità degli amministratori
L’azione ai sensi dell’art. 146 l.f. racchiude sia l’azione sociale (art. 2476, co. 1 e 3, c.c.), sia l’azione creditoria (odierno art. 2476, co. 6, c.c., che dal 16 marzo 2019 esplicita tale titolo di responsabilità degli amministratori verso i creditori sociali nelle s.r.l., titolo in giurisprudenza già considerato valevole per essi in ragione della ritenuta applicazione anche alle s.r.l. del disposto dell’art. 2394 c.c., quantomeno nell’azione unitaria fallimentare).
L’art. 2476, co. 8 (già co. 7), c.c. stabilisce la corresponsabilità solidale con gli amministratori dei soci che abbiano intenzionalmente deciso atti dannosi per la società, i soci o i terzi. Il tenore del richiamo normativo (“ai sensi dei precedenti commi”) fonda la corresponsabilità degli amministratori sia nell’illecito contrattuale (art. 2476, co. 1 e 3, c.c.) sia in quello extracontrattuale (attuale art. 2476, co. 7, c.c.). La norma richiede un’intenzionalità, che devesi ravvisare anche nel caso del dolo eventuale.
Le due azioni (l’azione sociale ex art. 2476, co. 1 e 3, c.c. e l’azione creditoria ex art. 2476, co. 7, c.c.) rimangono regolate distintamente sia quanto al regime prescrizionale, sia quanto al regime dell’onere probatorio. La prescrizione dell’azione sociale decorre da quando la società in persona dei suoi amministratori è in grado di percepire la dannosità dell’atto, quella dell’azione creditoria da quando ne sono posti in grado i creditori.
I soli amministratori vedono la sospensione della prescrizione ex art. 2941, n. 7, c.c., norma applicabile all’azione sociale; la ratio della causa di sospensione (in mancanza di essa la società rimarrebbe indifesa, dato che il soggetto che dovrebbe agire a tutela della società, essendo suo amministratore, certamente non eserciterebbe l’azione contro sé medesimo) e il disposto espresso dell’art. 1310, co. 2, c.c. comportano tale conseguenza. Anche la causa di sospensione di cui all’art. 2941, n. 8, c.c. opera con solo riguardo al responsabile dell’occultamento e al creditore.
L’art. 1310 c.c. prevede che l’atto interruttivo della prescrizione operante verso uno dei condebitori sia efficace anche contro gli altri.
Responsabilità dell’amministratore e onere della prova nel riconoscimento del danno da ritardato pagamento
Ai fini del riconoscimento al danneggiato anche del danno provocato dal ritardato pagamento in misura pari agli interessi legali, è onere del creditore provare, anche in base a criteri presuntivi, che la somma rivalutata (o liquidata in moneta attuale) sia inferiore a quella di cui avrebbe disposto, alla stessa data della sentenza, se il pagamento della somma originariamente dovuta fosse stato tempestivo, non essendo configurabile alcun automatismo nel riconoscimento degli interessi compensativi.
L’esercizio delle azioni di responsabilità nel fallimento e la responsabilità del liquidatore
Per effetto del fallimento di una società di capitali, all’esercizio delle azioni di responsabilità degli amministratori è legittimato, in via esclusiva, il curatore del fallimento, ai sensi dell’art. 146 l. fall., che può, conseguentemente, formulare istanze risarcitorie verso gli amministratori, i liquidatori e i sindaci tanto con riferimento ai presupposti della responsabilità (contrattuale) di questi verso la società (artt. 2392, 2407 c.c.), quanto a quelli della responsabilità (extracontrattuale) verso i creditori sociali (art. 2394, 2407 c.c.). L’azione sociale, anche se esercitata dal curatore fallimentare, ha natura contrattuale, in quanto trova la sua fonte nell’inadempimento dei doveri imposti agli amministratori dalla legge o dall’atto costitutivo. Dalla qualificazione in termini di responsabilità contrattuale dell’azione de qua consegue che, mentre sull’attore (società o curatore fallimentare che sia) grava esclusivamente l’onere di allegare la sussistenza delle violazioni agli obblighi (trattandosi di obbligazioni di mezzi e non di risultato), il nesso di causalità tra queste ed il danno verificatosi, incombe, per converso, sugli amministratori l’onere di dimostrare la non imputabilità a sé del fatto dannoso, fornendo la prova positiva, con riferimento agli addebiti contestati, dell’osservanza dei doveri e dell’adempimento degli obblighi loro imposti.
L’azione spettante ai creditori sociali ai sensi dell’art. 2394 c.c. o art. 2476 co. 6 c.c. costituisce conseguenza dell’inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale che presuppone un comportamento dell’amministratore funzionale ad una diminuzione del patrimonio sociale di entità tale da rendere lo stesso inidoneo per difetto ad assolvere la sua funzione di garanzia generica (art. 2740 c.c.), con conseguente diritto del creditore sociale di ottenere, a titolo di risarcimento, l’equivalente della prestazione che la società non è più in grado di compiere.
Posta senza ritardo la società in liquidazione, la responsabilità del liquidatore sorge se cagiona un danno ai creditori non adempiendo ai suoi propri doveri di compiere con diligenza tutti gli atti utili alla liquidazione, come dispone l’art 2489 c.c., o se nel pagamento dei creditori sociali, in mancanza di attivo per soddisfare tutto il ceto creditorio, non rispetta la par condicio creditorum ex art 2471 c.c. Dunque, se la liquidazione si conclude con il mancato soddisfacimento di parte del ceto creditorio, non per questo sorge responsabilità dell’amministratore che abbia tempestivamente rilevato la causa di scioglimento e del liquidatore che abbia compiuto con la diligenza richiesta la liquidazione del patrimonio sociale. Responsabilità che potrebbe sussistere per l’amministratore nell’ipotesi in cui le risorse si siano ridotte per il ritardo nel rilevare il ricorrere della causa di scioglimento e nella messa in liquidazione della società e per il liquidatore nel compimento di atti non meramente conservativi, come impone l’art. 2486 co. 1, c.c., nel compimento non diligente e non tempestivo delle attività di liquidazione o, in una situazione patrimoniale della società inidonea al soddisfacimento di tutti i creditori, per aver provveduto al pagamento solo di alcuni creditori disattendendo quanto dispone l’art 2471 c.c. Il liquidatore deve procedere a una corretta e fedele ricognizione dei debiti sociali e, accertata una situazione di incapienza patrimoniale, provvedere sollecitamente al pagamento nel rispetto della par condicio creditorum, secondo il loro ordine di preferenza, senza alcuna pretermissione di crediti all’epoca esistenti.
Costituisce specifico obbligo di chi gestisce la società provvedere ai pagamenti delle imposte dovute; tra gli obblighi di diligente gestione e di conservazione del patrimonio sociale è ricompreso quello di gestire le risorse finanziarie in modo da provvedere agli obblighi fiscali evitando così l’aggravio delle relative sanzioni e interessi di mora, e ciò tanto più nel caso di mancato assolvimento di obbligo tributario relativo all’IVA, il cui versamento all’erario da parte dell’obbligato corrisponde a somme già incamerate, delle quali quindi l’obbligato non può disporre se non accantonandole in vista del futuro obbligatorio versamento. L’inadempimento di tale obbligo di pagamento espone gli amministratori a responsabilità per mala gestio verso la società e i creditori sociali per i danni ad esso conseguenti.
Buona fede e correttezza nell’esercizio del diritto di consultazione del socio di s.r.l.
L’art. 2476 c.c. riconosce ai soci il diritto di consultare, anche tramite professionisti di loro fiducia, i libri sociali ed i documenti relativi all’amministrazione. Segnatamente, in analogia con quanto previsto dall’art. 2261 c.c. in tema di controllo sulla gestione di società di persone da parte dei soci che non partecipano alla relativa amministrazione, anche nelle società a responsabilità limitata il diritto alla consultazione dei libri e documenti sociali è riconosciuto a qualunque socio non amministratore, indipendentemente dalla consistenza della partecipazione di cui lo stesso sia titolare. In particolare, il diritto di cui si discute – strumentale all’esercizio del potere di controllo accordato al socio – attiene alla consultazione di tutti i documenti afferenti all’amministrazione della società, dal momento della relativa costituzione, e comprende, quale necessario corollario, anche la facoltà di estrarre copia dei documenti esaminati (naturalmente a spese del socio interessato).
Il diritto di controllo del socio non amministratore, non a caso disciplinato nell’ambito dell’art. 2476 c.c., soddisfa l’esigenza di acquisizione di informazioni utili in merito alle modalità di effettivo svolgimento della funzione gestoria da parte degli amministratori ed è funzionale, altresì, all’esperimento dell’azione sociale di responsabilità promuovibile in via surrogatoria da ciascun socio, nonché dell’azione di revoca dell’organo gestorio.
Il diritto di consultazione ex art. 2476, co. 2, c.c. spettante al socio non amministratore di s.r.l., in quanto strumentale all’esercizio del fondamentale potere di controllo, non tollera limitazioni di sorta, se non quelle connesse alla generale operatività del principio di buona fede e correttezza.
In omaggio al principio di buona fede e correttezza sono da considerare illegittimi i comportamenti che risultino rivolti a fini diversi da quelli strettamente informativi. Il socio è infatti tenuto ad astenersi da una ingerenza nell’attività degli amministratori per finalità di turbativa dell’operato di questi ultimi con la richiesta di informazioni di cui il socio non ha effettivamente bisogno al solo scopo di ostacolare l’attività sociale; in tal caso l’esercizio del diritto non potrebbe ricevere tutela in quanto mosso da interessi ostruzionistici. Parimenti contraria a buona fede è la condotta del socio che eserciti il controllo in modo contrastante con l’interesse sociale. In siffatti casi, sussiste un vero e proprio obbligo degli amministratori di rifiutare informazioni sociali riservate, considerato anche che gli amministratori potrebbero rendersi responsabili verso la società per l’indebito uso delle informazioni da parte del socio ai danni della società.
Sia che si invochi il limite generale derivante dai doveri di correttezza e buona fede, sia che si invochi la figura dell’abuso del diritto, è certo che i soci non possano esercitare i propri diritti di controllo con modalità tali da recare intralcio alla gestione societaria ovvero da svantaggiare la società nei rapporti con imprese concorrenti: una scelta puramente emulativa o vessatoria o antisociale di tempi e modi dei diritti di controllo farebbe, infatti, esorbitare questi ultimi dallo scopo per cui sono stati concessi dall’ordinamento ai soci stessi.
Fra le esigenze che possono legittimare la società a richiedere il rispetto di determinate condizionalità e modalità di accesso e, financo, di precludere la visione di taluni documenti o informazioni in essi riportati, rientrano la salvaguardia dei dati e del know-how aziendale e la prevenzione di un uso strumentale del diritto di ispezione da parte del socio; segnatamente, non indirizzato a fini di controllo individuale, quanto piuttosto a scopi concorrenziali, avuto riguardo alla concreta posizione del socio richiedente che renda verosimili e seri i rischi di utilizzo abusivo della documentazione riservata.
Qualora le circostanze facciano presagire un comportamento del socio contrario a buona fede nei rapporti sociali, è ammissibile che la società subordini l’esercizio del diritto di ispezione a specifiche proprie richieste. Tra queste, l’oscuramento dei dati sensibili, anche di natura commerciale, sulle copie dei documenti maggiormente rilevanti ovvero la firma di impegni di non disclosure da parte del socio. Tuttavia, tali prassi devono trovare giustificazione, in concreto, dal pregiudizio che potrebbe conseguire alla società dalla divulgazione a terzi delle informazioni oggetto di ostensione al socio ovvero dall’utilizzo delle stesse da parte del medesimo. Ciò a maggior ragione poiché l’assenso da parte degli amministratori della società ad una richiesta di ispezione pretestuosa potrebbe esporre gli amministratori a responsabilità verso la società per i danni ad essa arrecati dall’indebito uso delle informazioni da parte del socio.
Al di là delle limitazioni derivanti dall’operatività del principio di buona fede e correttezza, l’ingiustificato procrastinarsi del rifiuto da parte degli amministratori all’accesso del socio alla documentazione sociale vale, di per sé, ad integrare il periculum in mora che giustifica l’emissione di un provvedimento cautelare ex art. 700 c.p.c., poiché il ritardo lede il diritto di controllo del socio medesimo sull’amministrazione della società e l’esercizio dei poteri connessi sia all’interno della società che mediante eventuali iniziative giudiziarie.
Proprio in quanto fondamentale strumento per l’esercizio dei poteri di controllo spettanti al socio non amministratore, il diritto alla consultazione ed eventuale estrazione di copie deve intendersi riferito a tutti i libri sociali e documenti relativi alla gestione. Quindi, integra una seria e grave lesione di tale diritto anche la preclusione dell’esame di taluni soltanto dei documenti richiesti.
Sulla validità degli atti posti in essere dall’amministratore invalidamente nominato in caso di annullamento della delibera di nomina
Gli atti compiuti dagli amministratori illegittimamente nominati sopravvivono anche all’eventuale annullamento della nomina stessa, dovendo la regola della retroattività giuridica della sentenza di annullamento di una delibera essere necessariamente temperata dalla limitata possibilità di ripristinazione della situazione giuridica preesistente in senso materiale. Dunque, la retroattività degli effetti delle sentenze di annullamento non è assoluta, ma incontra dei limiti, anche al fine di garantire la certezza dei rapporti medio tempore sorti. Con specifico riferimento al tema della legittimità degli atti posti in essere in esecuzione di delibera assembleare annullabile, cui attiene l’istituto della sospensione ai sensi dell’art. 2378 c.c., deve ritenersi che la sospensione dell’esecuzione della deliberazione, disposta dal giudice, rende illegittimi gli atti di esecuzione che vengano ciononostante posti in essere. Al contrario, la mancanza di un provvedimento di sospensione comporta la legittimità degli atti esecutivi, ancorché relativi a una delibera annullabile, e tale legittimità resiste al sopravvenire dell’annullamento, non travolgendo gli atti di gestione posti in essere medio tempore.
Ciò non comporta che i singoli atti, aventi contenuto negoziale, non possano essere rimossi su iniziativa dalla società, ma ciò è possibile, atto per atto, se ricorrano i presupposti dell’art. 2475 ter c.c., ossia l’ipotesi della conclusione di contratti da parte di amministratore in conflitto di interessi con la società.
L’annullabilità di una delibera di aumento del capitale sociale, laddove non ne sia stata disposta la sospensione dell’esecuzione ai sensi dell’art. 2378, co. 3, c.c., non incide – ancorché ne possa derivare una modifica della composizione della maggioranza allorquando non sia stata seguita dall’integrale esercizio del diritto di opzione da parte dei vecchi soci – sulla validità delle successive deliberazioni adottate con la nuova maggioranza, poiché l’omessa adozione del provvedimento di sospensione rende legittimi gli atti esecutivi della prima deliberazione, resistendo, peraltro, tale legittimità anche al sopravvenire del suo annullamento, la cui efficacia, sebbene in linea di principio retroattiva, è pur sempre regolata dalla legge ed operante nei soli limiti da essa sanciti, tanto rivelandosi affatto coerente con le esigenze di certezza e stabilità sottese alla disciplina delle società commerciali.
Responsabilità del socio di s.r.l.
Ai fini dell’applicazione della disciplina di cui all’art. 2476, comma 8, c.c. è necessario prendere in considerazione tutte quelle manifestazioni di volontà espresse dai soci anche in forme non istituzionali e meramente ufficiose, ma tali in ogni caso da evidenziare l’ingerenza o anche l’influenza effettiva spiegata da costoro sugli amministratori. Quanto, invece, all’elemento soggettivo, la norma richiede che il socio, nel partecipare all’attività dannosa, abbia altresì “intenzionalmente” deciso o autorizzato il compimento di atti dannosi per la società, i soci o i terzi, con la conseguenza che si renderà necessario provare anche la volontà del socio di cagionare specifiche lesioni patrimoniali alla società o a terzi mediante l’induzione dell’amministratore all’inadempimento dei suoi doveri o, quanto meno, la piena consapevolezza del socio della contrarietà dell’atto di gestione a norme di legge o dell’atto costitutivo o ai principi di corretta amministrazione nonché delle sue possibili conseguenze dannose.
Più precisamente, deve trattarsi di atti o comportamenti posti in essere dai soci nella fase decisionale anche fuori dalle incombenze formalmente previste per legge o per statuto e tali da supportare intenzionalmente l’azione illegittima e dannosa poi posta in essere dagli amministratori; inoltre, è sufficiente che vi sia la consapevolezza da parte del socio, frutto di conoscenza o di esigibile conoscibilità, dell’antigiuridicità dell’atto e che, nonostante ciò, costui partecipi alla fase decisionale finalizzata al successivo compimento di quell’atto da parte dell’amministratore. A tal riguardo l’antigiuridicità dell’atto viene poi a configurarsi non solo quando l’atto deciso è contrario alla legge o all’atto costitutivo della società, ma anche quando l’atto, pur se di per sé lecito, è esercitato in modo abusivo, cioè con una finalità non riconducibile allo scopo pratico posto a fondamento del contratto sociale.
In altre parole, oltre che al rispetto della legge e del principio generale del neminem laedere, i soci sono pur sempre tenuti ad osservare i doveri di correttezza e buona fede nei confronti della società, degli altri soci e dei terzi, dovendo quindi costoro comunque evitare di compiere o di concorrere a compiere un atto che, se pur astrattamente lecito, possa di fatto risultare dannoso per gli altri soci, per esempio di minoranza, e nel contempo essere privo di un vantaggio apprezzabile per la società. Ne deriva che, se è previsto ex art. 1375 c.c. che il contratto deve essere eseguito in buona fede, è allora evidente che tutte le determinazioni e decisioni dei soci, assunte formalmente o informalmente durante lo svolgimento del rapporto associativo, debbono essere considerate come veri e propri atti di esecuzione e devono conseguentemente essere valutate nell’ottica della tendenziale migliore attuazione del contratto sociale; sicché, è da considerare antigiuridico anche un atto che in concreto si presenti espressione dell’inosservanza dell’obbligo di fedeltà allo scopo sociale e/o del dovere di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto sociale.
Differenza tra le azioni ex art. 2394 ed ex artt. 2395-2476, co. 7, c.c.
L’azione prevista dall’art. 2394 c.c. è caratterizzata dal fatto che il danno prospettabile dal creditore è esclusivamente quello indiretto scaturente dalla riduzione della garanzia patrimoniale costituita dal patrimonio sociale, danno che colpisce indistintamente tutto il ceto creditorio pregiudicato dall’insufficiente capienza patrimoniale del debitore. Ben diversa è l’azione individuale del socio e del terzo prevista dall’art. 2395 c.c. (per le s.p.a.) e dell’art. 2476, co. 7, c.c. (per le s.r.l.), che identificano la responsabilità dell’amministratore per danni diretti (cioè danni non indirettamente derivanti dalla perdita del patrimonio sociale) alle ragioni dei creditori per fatti dolosi o colposi. Dalla radicale differenza tra le due azioni discende che ogni eventuale mutamento di domanda in corso di causa costituisce inammissibile mutatio libelli.
Abuso di maggioranza e invalidità della delibera di approvazione del bilancio
L’abuso di maggioranza integra una violazione della clausola generale di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto sociale, che trova fondamento negli artt. 1175 e 1375 c.c., sull’assunto che le delibere assembleari costituiscano fondamentali momenti esecutivi del contratto di società. Tali norme impongono che i soci informino il proprio operato ai suddetti principi imponendo un impegno di cooperazione in base al quale ciascun socio deve tenere condotte idonee a soddisfare le legittime aspettative degli altri membri della compagine societaria.
Tale fattispecie rappresenta l’unica ipotesi in cui il giudice esercita non un controllo di mera legittimità, ma un vero e proprio sindacato nel merito della delibera societaria: infatti, non si configura formalmente una violazione di legge, ma una strumentalizzazione del principio di maggioranza a danno degli interessi della minoranza.
L’abuso di maggioranza è idoneo a determinare l’invalidità della delibera assembleare laddove quest’ultima non trovi alcuna giustificazione nell’interesse della società, perché tesa al perseguimento, da parte dei soci di maggioranza, di un interesse personale antitetico a quello sociale oppure perché espressione di un’attività fraudolenta dei soci di maggioranza, preordinata a ledere i diritti di partecipazione e i diritti patrimoniali spettanti ai soci di minoranza uti singuli.
Il discrimen tra la legittima soggezione della minoranza al principio maggioritario e l’abuso di detto principio, tale da rendere arbitrario e ingiustificato il voto apparentemente vincolante, è la ricorrenza di un superiore interesse sociale, che rende giustificato il pregiudizio sopportato dalla minoranza.
Grava sul socio impugnante l’onere di provare che alla base della decisione della maggioranza non vi fosse alcun interesse sociale e che alcun vantaggio per la società potesse derivarne.
Il socio ha diritto ad agire per l’impugnativa della delibera di approvazione del bilancio solo quando egli possa essere in concreto indotto in errore dall’inesatta informazione fornita sulla consistenza patrimoniale e sull’efficienza economica della società, ovvero quando per l’alterazione o incompletezza dell’esposizione dei dati derivi o possa derivare un pregiudizio di ordine patrimoniale. La delibera di approvazione del bilancio è nulla allorché le violazioni civilistiche commesse comportino una divaricazione tra il risultato effettivo dell’esercizio e quello del quale il bilancio dà invece contezza, ma anche ogni qual volta dal bilancio e dai relativi allegati non sia possibile desumere l’intera gamma delle informazioni previste dalla legge per ciascuna delle singole poste iscritte.
Nell’impugnazione di una delibera di approvazione del bilancio, il socio deve assumere di aver subito un pregiudizio a causa del difetto di chiarezza, veridicità e correttezza di una o più poste contabili ed è onerato della indicazione di quali siano esattamente le poste iscritte in violazione dei principi legali vigenti, spettando poi al giudice, nel giudizio sulla fondatezza della domanda, logicamente successivo al vaglio del preliminare interesse della parte all’impugnazione, esaminare le singole poste e verificarne la conformità ai precetti legali.
L’azione sociale mira a far valere la responsabilità degli amministratori per le violazioni dei loro doveri, che abbiano cagionato un pregiudizio patrimoniale alla società. Essa ha natura contrattuale, originando dall’inadempimento dei doveri imposti agli amministratori dalla legge o dall’atto costitutivo ovvero dall’inadempimento dell’obbligo generale di vigilanza e di intervento preventivo e successivo; obblighi tutti che vengono a gravare sugli amministratori in forza del mandato loro conferito e del rapporto che, per effetto della preposizione gestoria e del susseguente inserimento nell’organizzazione sociale, si instaura con la società.
Di conseguenza, in termini di riparto dell’onere della prova, grava sulla parte che agisce l’onere di dimostrare la sussistenza delle violazioni agli obblighi (che costituiscono obbligazioni di mezzi e non di risultato), i pregiudizi concretamente sofferti dalla società e il nesso eziologico tra l’inadempimento e il danno prospettato. Per converso, incombe sull’amministratore l’onere di dimostrare la non imputabilità a sé del fatto dannoso ovvero di fornire la prova positiva, con riferimento agli addebiti contestati, dell’osservanza dei doveri e dell’adempimento degli obblighi posti a suo carico.
Sui singoli soci che si assumono direttamente danneggiati da atti dolosi o colposi degli amministratori incombe l’onere di provare la condotta illecita, anche sotto il profilo della colpevolezza, il danno e il nesso causale.
Effetti processuali delle dimissioni dell’amministratore nel giudizio cautelare di revoca ex art. 2476, co. 3, c.c.
Nel giudizio cautelare di revoca dell’amministratore unico di s.r.l. promosso dal socio ai sensi dell’art. 2476, co. 3, c.c., le dimissioni dell’amministratore insieme e lo scioglimento della società determinano il venir meno della necessità di una pronuncia giudiziale sulla revoca dell’amministratore, poiché è dalla stessa volontà delle parti che emerge la rinuncia tacita ai diritti litigiosi. La statuizione di cessazione della materia del contendere comporta in ogni caso l’obbligo per il giudice di provvedere sulle spese processuali del giudizio secondo il principio della soccombenza virtuale, salva la facoltà di disporne motivatamente la compensazione, totale o parziale.
Mala gestio dell’amministratore e direttive impartite dal socio
Non rientra negli obblighi del buon amministratore di società di capitali, e ne costituisce anzi palese violazione, farsi strumento del volere del socio che comporti scelte gestionali non conformi all’interesse della società o addirittura in violazione di legge. La prospettazione dell’amministratore unico di essere stato mero strumento delle indicazioni o imposizioni altrui non può in alcun modo costituire esimente della sua responsabilità, né titolo per rivalersi nei confronti di chicchessia gli abbia in ipotesi impartito indicazioni su come operare, avendo l’amministratore unico il dovere di rifiutarsi di assecondare tali indicazioni e dovendosi se del caso dimettere in seguito ad indebite pressioni. Sussiste, in altri termini, un obbligo giuridico di non agire secondo le indicazioni altrui, cosicché l’amministratore unico non ha alcun titolo per rivalersi su colui che, in ipotesi, lo abbia indotto ad agire in violazione dei propri doveri di buon amministratore.
La qualità di amministratore, e dunque l’obbligo di comportarsi secondo legge e statuto nella gestione della società, toglie ogni rilevanza all’eventualità della eterodirezione delle condotte, tenuto conto che l’eventuale concorso esterno di chicchessia nella mala gestio dell’amministratore non lo esime dalla responsabilità diretta derivante dalla carica gestoria.