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Art. 2484 c.c.
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11 Luglio 2023

Non sussiste responsabilità dell’amministratore nei confronti del singolo socio per danni riflessi

L’art. 2395 c.c. fa riferimento alle disposizioni che immediatamente lo precedono, disciplinanti la responsabilità degli amministratori nei confronti della società per i comportamenti, di tipo commissivo ovvero omissivo, costituenti violazione del dovere di diligenza nell’esercizio dell’attività gestoria loro affidata dall’assemblea che li ha nominati, con la conseguenza che la loro responsabilità nei confronti dei soci e dei terzi ben può essere affermata per violazione degli obblighi di vigilanza e controllo loro imposti dall’art. 2392, co. 2, c.c., sussistente anche nel caso di deleghe conferite in applicazione del precedente art. 2381 c.c. e sempre che il danno cagionato al socio o al terzo non costituisca solo il riflesso di quello cagionato alla società.

L’azione individuale del socio nei confronti dell’amministratore di una società di capitali non è esperibile quando il danno lamentato costituisca solo il riflesso del pregiudizio al patrimonio sociale, giacché l’art. 2395 c.c. esige che il singolo socio sia stato danneggiato “direttamente” dagli atti colposi o dolosi dell’amministratore, mentre il diritto alla conservazione del patrimonio sociale appartiene unicamente alla società; la mancata percezione degli utili e la diminuzione di valore della quota di partecipazione non rappresentano danno diretto del singolo socio, poiché gli utili fanno parte del patrimonio sociale fino all’eventuale delibera assembleare di distribuzione e la quota di partecipazione è un bene distinto dal patrimonio sociale la cui diminuzione di valore è conseguenza soltanto indiretta ed eventuale della condotta dell’amministratore.

10 Luglio 2023

Responsabilità dell’amministratore per pagamenti preferenziali: il danno da maggior falcidia

La dedotta mala gestio dell’amministratore non può coincidere con il deliberato assembleare dallo stesso espresso quale socio, per il solo fatto che nella stessa persona si sommano la qualità di socio e quella di amministratore unico, perché la delibera dell’assemblea è espressione della volontà del socio e non dell’amministratore; specularmente, l’erogazione dei compensi cui abbia dato corso l’amministratore in proprio favore non delinea un conflitto di interessi ex art. 2475 ter c.c. per il sol fatto che la medesima persona riveste la duplice posizione di socio e amministratore quando il versamento erogato sia conforme al precedente deliberato assembleare. Più in generale, non si delinea atto di mala gestio da parte dell’amministratore unico che si sia liquidato somme a titolo di compensi in conformità alle delibere assembleari, a meno che all’atto della erogazione non risultasse evidente lo stato di dissesto in cui versava la società, con conseguente violazione della par condicio creditorum.

La mancata convocazione dell’assemblea ex art. 2482 ter c.c. non è di per sé sufficiente a configurare un’ipotesi di responsabilità gestoria in capo all’amministratore. Il curatore che intende far valere la responsabilità dell’ex-amministratore deve allegare e provare che, successivamente alla perdita del capitale sociale, sono state intraprese iniziative imprenditoriale connotate dall’assunzione di nuovo rischio economico-commerciale e compiute al di fuori di una logica meramente conservativa.

Posto che è consolidato in giurisprudenza il principio secondo cui il curatore fallimentare è pienamente legittimato all’esercizio di qualsiasi azione di responsabilità contro gli amministratori della società, anche per i pagamenti eseguiti in violazione della par condicio creditorum e, dunque, il pagamento preferenziale è di per sé sufficiente a legittimare il curatore all’azione di risarcimento, nondimeno è onere del curatore che agisce in giudizio dedurre la natura, chirografaria o privilegiata, del credito soddisfatto e l’esistenza di crediti di pari grado o di grado poziore rimasti, invece, insoddisfatti.

Il danno da pagamento preferenziale è individuabile quale danno da “maggior falcidia” dei crediti insinuati nel passivo fallimentare, danno pari alla differenza tra, da una parte, quanto i creditori avrebbero percepito dal riparto fallimentare se il pagamento non fosse stato effettuato e il creditore preferito si fosse insinuato al passivo fallimentare e, dall’altra, quanto hanno effettivamente percepito. Il calcolo di tale danno suppone l’allegazione e la prova di: (i) il passivo fallimentare; (ii) l’attivo fallimentare; (iii) il riparto effettuato; (iv) il riparto che sarebbe stato effettuato se il pagamento preferenziale non fosse avvenuto e il creditore preferito si fosse invece insinuato al passivo.

Responsabilità degli amministratori per il ritardo nella presentazione dell’istanza di fallimento

Costituisce preciso dovere dell’amministratore in carica – obbligo da reputarsi strettamente inerente al dovere generale di diligenza nella gestione del patrimonio sociale e che trova puntuale riscontro normativo nella peculiare fattispecie penale di cui all’art. 217 l. fall. – adottare, allorquando si renda palese una situazione di dissesto, tutte le misure necessarie ad evitare un ingiustificato aggravamento della situazione patrimoniale e finanziaria della società.

Un amministratore non più in carica non può essere chiamato a rispondere dei danni non prodottisi durante la sua gestione, salvo che vi siano elementi per ritenere che anche le conseguenze pregiudizievoli verificatesi successivamente alla cessazione della carica siano comunque ascrivibili a sua responsabilità.

La mancanza di scritture contabili della società, pur se addebitabile all’amministratore convenuto, di per sé sola non giustifica che il danno da risarcire sia individuato e liquidato in misura corrispondente alla differenza tra il passivo e l’attivo accertati in ambito fallimentare, potendo tale criterio essere utilizzato soltanto al fine della liquidazione equitativa del danno, ove ricorrano le condizioni perché si proceda ad una liquidazione siffatta, purché siano indicate le ragioni che non hanno permesso l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore e purché il ricorso a detto criterio si presenti logicamente plausibile in rapporto alle circostanze del caso concreto.

Recesso nelle s.r.l.: rapporti con lo scioglimento della società ed efficacia del recesso ad nutum

Ai sensi dell’art. 2473, co. 5, c.c. il recesso del socio dalla s.r.l. non può essere esercitato e, se già esercitato, è privo di efficacia, se la società revoca la delibera che lo legittima ovvero se è deliberato lo scioglimento della società. A seguito dello scioglimento della società, dunque, se non si è ancora proceduto alla liquidazione della quota del socio receduto, il recesso viene meno, e ciò anche nel caso in cui lo scioglimento non rappresenti una diretta conseguenza del recesso e si verifichi per riduzione del capitale sociale al di sotto del minimo legale per perdite preesistenti al recesso e non connesse alla domanda di liquidazione dei soci receduti. La formulazione letterale dell’art. 2473, co. 5, c.c., infatti, non consente di distinguere fra le ipotesi di c.d. recesso “qualificato” e le altre ipotesi di recesso. Successivamente allo scioglimento, il socio receduto non avrà diritto a vedersi rimborsato il valore della quota di partecipazione, ma sarà coinvolto nella procedura di liquidazione della società al pari degli altri soci.

A differenza di quanto previsto all’art. 2437 bis c.c. (in tema di s.p.a.), l’art. 2473, co. 5, c.c. non fissa alcun termine per l’adozione della deliberazione di revoca o di scioglimento della società. Tale lacuna normativa deve essere colmata mediante un’applicazione analogica della disciplina delle s.p.a. e, pertanto, gli effetti del recesso possono essere pregiudicati dalla revoca della delibera e dall’adozione della deliberazione di scioglimento della società solo laddove tali delibere intervengano entro il termine di 90 giorni dalla dichiarazione di recesso.

L’esercizio del diritto di recesso è un atto unilaterale recettizio, i cui effetti si producono nella sfera giuridica della società sin dal momento in cui questa riceve la relativa dichiarazione ex art. 1334 c.c., con la conseguente immediata perdita della qualità di socio e dunque anche della legittimazione all’esercizio dei diritti sociali. Tuttavia, in ipotesi di recesso esercitato ad nutum nel caso di società contratta a tempo indeterminato, il termine di preavviso imposto dalla legge determina uno slittamento in avanti degli effetti del recesso, i quali non si produrranno fino allo spirare dello stesso. Pertanto, in pendenza del termine di preavviso, non essendosi ancora prodotti gli effetti del recesso, il socio che ha manifestato la volontà di uscire dalla società non cessa di correre il rischio d’impresa dal momento in cui ha esercitato il diritto, ma partecipa pienamente alla vita sociale e a tutte le sue conseguenze fino al momento in cui la sua dichiarazione produce gli effetti desiderati, quindi dal momento della completa decorrenza del preavviso.

In tema di impugnazione di delibere di s.r.l., la deliberazione dell’assemblea assunta senza la convocazione di uno dei soci è da ritenersi nulla, poiché il disposto dell’art. 2479 ter, co. 3, c.c., nella parte in cui considera le decisioni prese in assenza assoluta di informazioni, non si riferisce soltanto alla mancanza di informazioni sugli argomenti da trattare ma anche alla mancanza di informazioni sull’avvio del procedimento deliberativo. Più nello specifico, la mancata convocazione del socio di una s.r.l. per l’assemblea è qualificabile come vizio di nullità della deliberazione e, pertanto, la comprovata ignoranza da parte del socio della convocazione determina la nullità della deliberazione adottata.

L’invalidità di una delibera non incide sulla validità delle successive delibere adottate dalla società, a meno che la prima delibera non sia stata sospesa ai sensi dell’art. 2378 c.c. La mancanza di un provvedimento di sospensione comporta la legittimità degli atti esecutivi, ancorché relativi a una delibera annullabile. E tale legittimità resiste al sopravvenire dell’annullamento: in caso contrario, l’istituto della sospensione non avrebbe alcun senso, visto che gli effetti giuridici sarebbero i medesimi sia che l’impugnante abbia ottenuto la sospensione della delibera, sia che non l’abbia ottenuta. Ciò, del resto, è del tutto coerente con le esigenze di certezza e stabilità sottese alla disciplina delle società commerciali, la gestione delle quali rischierebbe di essere paralizzata dal propagarsi degli effetti della illegittimità delle delibere assembleari oltre un certo segno.

30 Maggio 2023

I fatti sintomatici idonei a ribaltare la presunzione circa la decorrenza della prescrizione dell’azione ex art. 2394 c.c. dalla data del fallimento

Nel caso dell’azione di responsabilità promossa dai creditori sociali, il termine quinquennale decorre dal momento dell’oggettiva percepibilità, da parte loro, dell’insufficienza del patrimonio a soddisfare i crediti che risulti da qualsiasi fatto che possa essere conosciuto. Solitamente questo momento viene a coincidere con la pubblicazione nel registro delle imprese della dichiarazione di fallimento, atteso che, in ragione della onerosità della prova gravante sulla procedura che agisce, sussiste una presunzione iuris tantum di coincidenza tra il dies a quo di decorrenza della prescrizione e la dichiarazione di fallimento, ricadendo sugli amministratori convenuti la prova contraria della diversa data anteriore di insorgenza dello stato di incapienza patrimoniale, con la deduzione di fatti sintomatici di assoluta evidenza. [Nel caso di specie, il tribunale ha considerato tali: (i) l’arresto dell’amministratore delegato, cui era conseguita (ii) la pubblicazione su periodici di notizie in merito all’istanza di fallimento presentata dalla procura della Repubblica; (iii) la sospensione della quotazione e della compravendita delle azioni della società operata da Borsa Italiana, di cui pure era stata data notizia sulla stampa; (iv) la convocazione dell’assemblea straordinaria della società, pubblicata sul sito di Borsa Italiana, avente ad oggetto, tra l’altro, l’analisi della situazione contabile e una discussione in merito all’opportunità di procedere alla presentazione di una domanda di un concordato in bianco, ovvero alla liquidazione della società].

In tema di obbligazioni solidali derivanti da atti illeciti, qualora solo il fatto di uno dei coobbligati costituisca anche reato, mentre quelli degli altri costituiscono unicamente illecito civile, la possibilità di invocare utilmente il più lungo termine di prescrizione stabilito dall’art. 2947, co. 3, c.c. per le azioni di risarcimento del danno se il fatto è previsto dalla legge come reato è limitata alla sola obbligazione del primo dei predetti debitori (quella collegata ad un reato), sicché deve concludersi che il più lungo termine prescrizionale non trova applicazione con riferimento alle posizioni degli altri soggetti che hanno fatto parte degli organi di gestione e di controllo, unitamente ai predetti imputati/condannati, ma nei confronti dei quali l’autorità competente non ha ritenuto di esercitare l’azione penale.

In tema di prescrizione dell’azione di responsabilità del revisore, il dies a quo del termine quinquennale di prescrizione deve essere individuato nella data della relazione di revisione sul bilancio emessa al termine dell’attività di revisione cui si riferisce l’azione di risarcimento.

Nell’assumere l’iniziativa giudiziale a norma del secondo comma dell’art. 146 l.f., il curatore del fallimento esercita nei confronti di amministratori e sindaci cumulativamente sia l’azione sociale di responsabilità, che sarebbe stata esperibile dalla medesima società se ancora in bonis (ai sensi degli artt. 2393 e 2407 c.c.), sia l’azione che sarebbe spettata ai creditori sociali danneggiati dall’incapienza della società debitrice (ai sensi degli artt. 2394 e 2407 c.c.). Ciò comporta la mera modifica della legittimazione attiva delle azioni di cui agli artt. 2393 e 2394 c.c., ma non anche una modifica della natura giuridica e dei presupposti di tali singole azioni, che rimangono diversi ed indipendenti. Invero, il curatore può, anche separatamente, formulare le singole domande risarcitorie, le quali mantengono ciascuna la propria natura.

L’irregolare e anche disordinata tenuta della contabilità integra una violazione dei doveri dell’amministratore potenzialmente, ma non necessariamente, foriera di danno per la società. Tale violazione è, tuttavia, idonea a fondare solo una pronuncia di condanna generica al risarcimento che non investe la sussistenza del danno. Invero, eventuali irregolarità nella tenuta delle scritture contabili e nella redazione dei bilanci possono certamente rappresentare lo strumento per occultare pregresse operazioni illecite ovvero per celare la causa di scioglimento prevista dall’art. 2484, n. 4, c.c. e così consentire l’indebita prosecuzione dell’ordinaria attività gestoria in epoca successiva alla perdita dei requisiti di capitale previsti dalla legge, ma in tali ipotesi il danno risarcibile è rappresentato, all’evidenza, non già dalla misura del falso, ma dagli effetti patrimoniali delle condotte che con quei falsi di sono occultate o che grazie a quei falsi sono state consentite. Tali condotte, dunque, devono essere specificamente contestate da chi agisce per il risarcimento del danno, non potendo il giudice individuarle e verificarle d’ufficio.

29 Maggio 2023

Gli amministratori devono monitorare le condizioni patrimoniali della società. L’art. 2486, co. 3, c.c. è applicabile a condotte anteriori al 2019

L’azione di responsabilità esercitata dal curatore nella parte in cui persegue gli interessi del ceto creditorio deve inquadrarsi nel regime della responsabilità extracontrattuale, mentre in quella in cui persegue gli interessi della società fallita soggiaccia, invece, al regime della responsabilità contrattuale. Ne consegue che il curatore, quale rappresentante della massa creditoria, risulta gravato della prova della condotta degli amministratori asseritamente lesiva dell’integrità del patrimonio sociale. Al contrario, quale soggetto legittimato ad agire nell’interesse della società fallita, il medesimo soggiace al regime di riparto degli oneri di allegazione e prova invalso in tema di azioni contrattuali, in forza del quale – fermi a carico dell’attore gli oneri della prova del danno e del nesso causale con l’inadempimento – incombono sulla parte asserita creditrice unicamente la prova del titolo della pretesa creditoria azionata e l’allegazione dell’inadempimento ex adverso perpetrato. Con l’ulteriore precisazione per cui, peraltro, al cospetto dell’allegazione non già dell’inadempimento rispetto a un individuato dovere previsto dalla legge o dallo statuto, bensì, più ampiamente, della violazione di un’obbligazione c.d. di mezzi – qual è il generale dovere di diligenza nell’espletamento dell’incarico gestorio gravante sull’amministratore ex art. 2392 c.c. (dettato per le s.p.a., ma da ritenersi enunciativo di principi estensibili alle s.r.l.): – l’onere di allegazione dell’inadempimento dovrà sostanziarsi nella specifica indicazione dei singoli inadempimenti cc.dd. qualificati, intesi come astrattamente idonei a ingenerare il danno in concreto lamentato; – l’onere della prova del titolo imporrà la dimostrazione della ricorrenza in concreto dei presupposti di insorgenza delle specifiche obbligazioni qualificate asseritamente inadempiute, ossia degli elementi di contesto da cui desumere la violazione di quei doveri.

L’erronea redazione di scritture contabili non costituisce, di per sé, una causa di danno, giacché la contabilità registra gli accadimenti economici che interessano l’attività dell’impresa, ma non li determina, ed è da quegli accadimenti, e non certo dalla loro (mancata o scorretta) registrazione in contabilità, che deriva la perdita patrimoniale; di conseguenza, salva l’ipotesi che dalle singole violazioni od omissioni contabili derivino specifiche voci di pregiudizio per il patrimonio sociale, la violazione di obblighi contabili o amministrativi e, in particolare, l’irregolarità contabile, in sé e per sé considerati, non rappresentano condotte idonee a determinare una responsabilità risarcitoria a carico degli amministratori nei confronti della società, ove non si alleghi e dimostri che esse sono state causa di violazioni produttive di un danno alla società, tale danno non potendosi comunque mai identificare tout court nel complessivo ammontare della perdita patrimoniale del periodo di gestione.

All’indomani del verificarsi di una causa di scioglimento, il patrimonio sociale non può più considerarsi destinato alla realizzazione dello scopo sociale, sicché gli amministratori non possono più utilizzarlo a tale fine, ma sono abilitati a compiere soltanto gli atti correlati strumentalmente al diverso fine della liquidazione dei beni, restando agli stessi inibito il compimento di nuovi atti di impresa suscettibili di porre a rischio, da un lato, il diritto dei creditori della società a trovare soddisfacimento sul patrimonio sociale, e, dall’altro, il diritto dei soci a una quota, proporzionale alla partecipazione societaria di ciascuno, del residuo attivo della liquidazione. Devono essere qualificate come nuove operazioni vietate tutti quei rapporti giuridici che, svincolati dalle necessità inerenti alle liquidazioni delle attività sociali – in quanto il patrimonio sociale diviene finalizzato alla garanzia dei creditori – siano costituiti dagli amministratori per il conseguimento di un utile sociale e per finalità diverse da quelle di mera liquidazione della società.

Posto che le condizioni di cui all’art. 2482 bis c.c. possono verificarsi, e normalmente si verificano, non già al termine dell’esercizio, bensì nel corso di esso, gli amministratori sono ritenuti obbligati a monitorare la consistenza del patrimonio sociale anche nei periodi infra-esercizio, in ragione del livello di diligenza minimo cui sono tenuti; diligenza che impone loro, proprio allorquando il patrimonio netto stia per raggiungere i minimi di legge, o addirittura subisca oscillazioni tali da condurlo a un valore negativo, di effettuare controlli più frequenti ed accurati.

La conoscenza del verificarsi di una causa di scioglimento costituisce oggetto di una presunzione connaturata alla posizione rivestita dagli amministratori nell’organizzazione societaria.

I criteri liquidatori di cui all’art. 2486, co. 3, c.c. ben possono essere applicati anche per la liquidazione di danni consequenziali a fatti verificatisi anteriormente alla relativa entrata in vigore, poiché, da una parte, l’art. 2486 c.c., lungi dall’avere modificato la nozione di danno da indebita prosecuzione societaria, si è limitato a positivizzarne i criteri di liquidazione alla luce del previgente diritto vivente e, dall’altra, fino alla liquidazione del danno non possono considerarsi esauriti gli effetti della condotta illecita.

29 Maggio 2023

Disciplina applicabile alle società cestistiche professionistiche

L’art. 142, co. 2, del Regolamento Organico FIP – per il quale in caso di scioglimento, di revoca della affiliazione o di mancato rinnovo della stessa, delle obbligazioni assunte dalla società verso la Federazione Italiana Pallacanestro e i suoi organi, le società e i terzi affiliati o tesserati rispondono altresì in solido tra loro il presidente o legale rappresentante della società e i membri del consiglio direttivo – è una norma applicabile soltanto alle società cestistiche dilettantistiche. Invece, sia per motivi di ordine letterale e logico avuto riguardo ai commi 3 e 4 del suddetto art. 142, sia in ragione dell’esigenza sistematica di rispettare i principi generali in tema di responsabilità dei soci nelle società di capitali, per le società cestistiche appartenenti al settore professionistico lo scioglimento e la messa in liquidazione sono regolate dalle norme del codice civile e dalle disposizioni di legge in materia, che dovranno essere richiamate negli statuti societari.

23 Maggio 2023

Responsabilità dell’amministratore per prosecuzione dell’attività a seguito di riduzione del capitale al disotto del minimo

L’amministratore di una società a responsabilità limitata è responsabile nei confronti dei creditori sociali qualora, nel caso in cui la società amministrata abbia subito perdite consistenti e rilevanti, che avrebbero dovuto indurre l’amministratore ad assumere le doverose iniziative a tutela del patrimonio sociale, egli abbia proseguito l’attività d’impresa nonostante le perdite avessero eroso integralmente il capitale sociale. Tale responsabilità discende direttamente dalla violazione degli obblighi di attivarsi senza indugio, contenuti nell’art. 2485 c.c.

22 Maggio 2023

Il criterio di liquidazione del danno della differenza dei netti patrimoniali

La quantificazione del danno effettuata con applicazione del criterio dell’incremento del deficit patrimoniale è finalizzata a quantificare il danno risarcibile nelle ipotesi di violazione dell’obbligo di gestire la società ai soli fini della conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio. In applicazione di detto criterio, il danno è calcolato come differenza tra valore del patrimonio netto individuato nel momento in cui si verifica la causa di scioglimento e quello calcolato nel momento della liquidazione della società, ovvero della dichiarazione di liquidazione giudiziale. In tal modo, dunque, si addebita all’amministratore l’aggravamento del dissesto patrimoniale determinatosi tra il momento in cui si è verificata la causa di scioglimento della società e il momento in cui la stessa è stata acclarata, in seguito alla liquidazione, ovvero con la liquidazione giudiziale, quantificandosi, pertanto, il pregiudizio derivato dall’aggravamento del dissesto che, se la causa di scioglimento fosse stata tempestivamente acclarata dall’amministratore, non si sarebbe verificato. All’amministratore è, dunque, imputata la sola perdita incrementale, essendo il pregiudizio per la società configurabile come incremento del deficit patrimoniale.

19 Maggio 2023

Durata della società di capitali e recesso ad nutum

E’ escluso il diritto di recesso ad nutum del socio di società per azioni nel caso in cui lo statuto preveda una prolungata durata della società , non potendo tale ipotesi essere assimilata a quella, prevista dall’art. 2437, comma 3, c.c., della società costituita per un tempo indeterminato, stante la necessaria interpretazione restrittiva delle cause che legittimano la fuoriuscita del socio dalla società. Si deve altresì escludere l’estensione della disciplina prevista dall’art. 2285 c.c. per le società di persone (nelle quali prevale l’intuitus personae), ostandovi le esigenze di certezza e di tutela dell’interesse dei creditori delle società per azioni al mantenimento dell’integrità del patrimonio sociale, potendo essi fare affidamento solo sulla garanzia generica da quest’ultimo offerta, a differenza dei creditori delle società di persone, che invece possono contare anche sui patrimoni personali dei soci illimitatamente responsabili.