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Art. 2503 c.c.
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11 Giugno 2024

Natura della cauzione ex art. 2445 c.c. e tutela del creditore danneggiato dalla fusione

La cauzione imposta ai sensi dell’art. 2445 c.c. (richiamato dall’art. 2503 c.c.) ha un carattere lato sensu cautelare e strumentale, poiché è finalizzata a garantire il creditore dai danni che la fusione può provocargli, ma non rappresenta l’oggetto di un diritto al mantenimento che il creditore stesso può esercitare nei confronti delle società che l’hanno posta in essere.

La responsabilità da fusione, che fonda il diritto al risarcimento ex art. 2504-quater c.c., non genera un obbligo di adempimento in luogo della società incorporata (nell’ipotesi che questa fosse debitrice), ma solo un obbligo di riparazione di quei danni direttamente provocati dalla fusione stessa, ossia limitato alla perdita di quella parte del credito divenuta irrealizzabile proprio a causa della incorporazione: è quindi necessario che il credito prima dell’operazione denunciata potesse essere soddisfatto, almeno in una determinata misura, e che dopo l’operazione non lo sia più, o lo sia in misura inferiore.

Sulla legittimazione attiva all’esercizio dell’azione di opposizione alla fusione

Ai fini della prova della legittimazione attiva all’esercizio dell’azione di opposizione alla fusione o alla scissione non è indispensabile che il credito dell’opponente risulti dalle scritture contabili della società coinvolta nell’operazione di fusione e indicata come propria debitrice, ché, invece, la dimostrazione della qualità richiesta può esser data anche in altro modo. In particolare, con riferimento ai crediti contestati, ai fini dell’apprezzamento della legittimazione all’opposizione il giudice investito dell’azione ex artt. 2506 ter e 2503 c.c. deve limitarsi a una cognizione sommaria circa l’esistenza e fondatezza delle ragioni di credito dell’istante, potendo respingere l’opposizione per carenza di legittimazione solo quando la pretesa dell’opponente si presenti prima facie manifestamente priva di fondamento.

2 Aprile 2024

Sull’ammissibilità della revocatoria ordinaria di un atto di scissione societaria

È ammissibile l’azione revocatoria ordinaria di un atto di scissione societaria, che si attesta come rimedio diverso e complementare rispetto all’opposizione dei creditori ex art. 2503 c.c., in quanto l’azione revocatoria è finalizzata a ottenere l’inefficacia relativa dell’atto, al fine di renderlo inopponibile al solo creditore pregiudicato, avendo natura di rimedio successivo perché contesta un atto dispositivo già perfezionato, il cui effetto sia pregiudizievole per l’azione esecutiva. Diversamente, l’opposizione dei creditori sociali ex art. 2503 c.c. è finalizzata a far valere l’invalidità dell’atto.

In caso di scissione societaria – conformemente al disposto di cui all’art 2901 c.c., a mente del quale l’oggetto della revocatoria è rappresentato dagli atti con cui il debitore dispone del proprio patrimonio – l’atto oggetto di revocatoria dovrebbe individuarsi nell’assegnazione patrimoniale della società scissa alle società beneficiarie, quale momento indefettibile e necessario della scissione, che in quanto tale comporta una riduzione di parte o dell’intero patrimonio della società scindenda a favore dell’unica beneficiaria o della pluralità di beneficiarie.

Quando sia soggetto a revoca l’atto di scissione, stipulato in esecuzione di una delibera, occorre provare il carattere fraudolento di quest’ultima, da cui è sorto l’obbligo di stipula dell’atto di scissione poi adempiuto, e tale prova può essere data nel giudizio introdotto con la domanda revocatoria dell’atto di assegnazione, indipendentemente da un’apposita domanda volta a far dichiarare l’inefficacia della delibera, fermo restando che la sussistenza del presupposto dell’eventus damni per il creditore va accertata con riferimento alla stipula della scissione.

17 Ottobre 2023

Responsabilità di amministratori, sindaci e revisori di Valtur s.p.a. in amministrazione straordinaria

L’art. 2485 c.c. impone agli amministratori di accertare, senza indugio, il verificarsi di una delle cause di scioglimento e di procedere agli adempimenti previsti dal terzo comma dell’art. 2484 c.c., salvo quanto disposto dagli artt. 2447 e 2482 ter c.c. Gli amministratori, accertata la perdita del capitale sociale (ovvero verificato il valore negativo del patrimonio netto), sono tenuti ad una rapida e decisa reazione: porre la società in liquidazione, ovvero ricorrente all’assemblea dei soci per la ricapitalizzazione della società mediante azzeramento delle perdite e ricostituzione del capitale sociale (ex artt. 2447 e 2482 ter c.c.). Come chiaramente previsto dall’art. 2485 c.c., gli amministratori, in caso di ritardo o omissione, sono personalmente e solidalmente responsabili per i danni subiti dalla società dai soci, dai creditori sociali e dai terzi. La violazione di tali obblighi di legge determina l’illecito della c.d. indebita prosecuzione dell’attività di impresa.

Quando la società ha un patrimonio netto negativo che aumenta per il compimento di attività non conservative con assunzione di rischio imprenditoriale il pregiudizio non può essere della società, che ha già perso tutto il suo patrimonio, ma solo dei creditori sociali. Il danno derivante dall’inerzia dell’organo gestorio a fronte della perdita del capitale sociale è un danno per i creditori sociali ed è rappresentato dall’incremento dell’indebitamento ovvero dall’aggravamento della situazione patrimoniale della società (già in situazione di deficit) con conseguente detrimento della prospettiva di soddisfazione per i creditori.

L’esercizio dell’azione di cui all’art. 2394 c.c. presuppone la dimostrazione che il patrimonio sociale, per effetto della condotta negligente ascrivibile ad amministratori e/o sindaci, risulti insufficiente rispetto al soddisfacimento dei crediti sociali. Pertanto ai fini della esperibilità di tale azione è necessario che la condotta illegittima degli amministratori e/o sindaci sia fonte di pregiudizio patrimoniale per il ceto creditorio inteso nella sua generalità, tale da determinare l’insufficienza del patrimonio sociale a soddisfarne le relative ragioni di credito, con dimostrazione della sussistenza di un rapporto di causalità tra pregiudizio e condotta/e illecita/e o di inadempimento/i ascritto/i, dovendosi commisurare l’entità del danno prospettato alla corrispondente riduzione della massa attiva di patrimonio.

Con riguardo alla responsabilità degli amministratori non esecutivi di società azionaria si rileva come non si dà imputazione per responsabilità oggettiva in capo agli amministratori di società, posto che, in particolare, gli elementi costitutivi della fattispecie integrante la responsabilità solidale degli amministratori non esecutivi sono, sotto il profilo oggettivo, la condotta d’inerzia, il fatto pregiudizievole anti-doveroso altrui e il nesso causale tra i medesimi, nonché, sotto il profilo soggettivo, almeno la colpa, i cui caratteri risultano dall’art. 2392 c.c. La norma, invero, stabilisce che la colpa può consistere o nell’inadeguata conoscenza del fatto di altri, il quale in concreto abbia cagionato il danno, o nel non essersi il soggetto con diligenza utilmente attivato al fine di evitare l’evento, aspetti entrambi ricompresi nel concetto di essere immuni da colpa, cui all’art. 2392, co. 3, c.c. Quando il fatto dannoso sia stato compiuto da un altro amministratore, la colpa concorrente dell’amministratore che non lo abbia direttamente posto in essere – fattispecie omissiva colposa – può dunque consistere: (i) nella colposa ignoranza del fatto altrui, per non avere adeguatamente rilevato i segnali d’allarme dell’altrui illecita condotta, percepibili con la diligenza della carica; (ii) nell’inerzia colpevole, per non essersi utilmente attivato al fine di scongiurare l’evento evitabile con l’uso della diligenza predetta. Peraltro, la regola della responsabilità solidale e, se si vuole, presunta come paritaria in capo a tutti i componenti dell’organo gestorio cede a fronte della prova della concreta insussistenza o ininfluenza della condotta di taluno nella causazione del danno.

L’art 2381 c.c. stabilisce che gli amministratori sono tenuti ad agire in modo informato; ciascun amministratore può chiedere agli organi delegati che in consiglio siano fornite informazioni relative alla gestione della società. Permane dunque ai sensi di questa norma il dovere di vigilare sul generale andamento della società rispetto al quale non ha alcun rilievo il difetto di delega, salva la prova che gli altri consiglieri, pur essendosi diligentemente attivati, non abbiano potuto in concreto esercitare detta vigilanza a causa del comportamento ostativo degli altri componenti del consiglio. Poiché il compito relativo alla redazione del bilancio di esercizio non può essere oggetto di delega in favore di uno o più componenti del CdA e, secondo quanto disposto dall’art. 2423 c.c., gli amministratori sono collegialmente tenuti a redigere il bilancio secondo i principi ex lege previsti, consegue che tutti gli amministratori, anche quelli privi di deleghe, sono solidalmente responsabili quanto al rispetto degli obblighi di legge inerenti alla redazione del bilancio, fra i quali l’obbligo di attenersi ai principi di veridicità e chiarezza.

Il sindaco non risponde in modo automatico per ogni fatto dannoso aziendale in ragione della sua mera posizione di garanzia; si esige, tuttavia, ai fini dell’esonero dalla responsabilità, che egli abbia esercitato o tentato di esercitare l’intera gamma dei poteri istruttori ed impeditivi affidatigli dalla legge. Da un lato, solo un più penetrante controllo, attuato mediante attività informative e valutative – in particolare, la richiesta di informazioni o di ispezione ex art. 2403 bis c.c. – può dare concreto contenuto all’obbligo di tutela degli essenziali interessi affidati al collegio sindacale, cui non è consentito di rimanere acriticamente legato e dipendente dalle scelte dell’amministratore, quando queste collidano con i doveri imposti dalla legge, al contrario avendo il primo il dovere di individuarle e di segnalarle ad amministratori e soci, non potendo assistere nell’inerzia alle altrui condotte dannose: senza neppure potersi limitare alla richiesta di chiarimenti all’organo gestorio, ma dovendosi spingere a pretendere dal medesimo le cc.dd. azioni correttive necessarie. Dall’altro lato, il sindaco dovrà fare ricorso agli altri strumenti previsti dall’ordinamento, come i reiterati inviti a desistere dall’attività dannosa, la convocazione dell’assemblea ai sensi dell’art. 2406 c.c. (ove omessa dagli amministratori, o per la segnalazione all’assemblea delle irregolarità di gestione riscontrate), i solleciti alla revoca delle deliberazioni assembleari o sindacali illegittime, l’impugnazione delle deliberazioni viziate, il ricorso al tribunale per la nomina dei liquidatori ex art. 2487 c.c., la denunzia al tribunale ex art. 2409 c.c. o all’autorità giudiziaria penale, e altre simili iniziative.

Il revisore, deputato a svolgere una funzione di verifica e controllo generale sui dati di bilancio e sulla corretta gestione contabile della società, deve, qualora ritenga che la gestione devii dalla correttezza, tempestivamente segnalare le incongruenze rilevate. In altri termini, la funzione del revisore non è meramente compilativa, limitata al solo controllo che al bilancio siano stati allegati tutti i documenti formali di verifica previsti dalle norme, poiché in tal modo non si realizzerebbe alcun controllo concreto sulla correttezza della gestione e delle appostazioni delle singole voci che compongono il bilancio. L’art 2409 ter c.c. descrive l’ampiezza del controllo demandato al revisore legale dei conti e il potere dovere di chiedere agli amministratori documenti ed informazioni utili alla revisione con facoltà di procedere direttamente ad ispezioni in società.

L’esercizio unitario ex art 206 l.fall. e art. 36 d.lgs. 270/1995 da parte dei commissari straordinari dell’impresa in amministrazione straordinaria unitamente all’amministratore giudiziario delle azioni di responsabilità ex artt. 2393 e 2394 c.c. non esclude l’autonomia delle azioni che rimangono, per quanto uno actu esercitate, distinte e diversamente connotate nei loro presupposti, nei loro elementi costitutivi, tra cui il danno, la loro qualificazione, la disciplina probatoria e la prescrizione, seppure entrambe finalizzate all’unitario obiettivo della curatela di recuperare all’attivo della procedura tutto quanto sottratto o perduto per fatti imputabili agli amministratori, ai liquidatori, ai sindaci in concorso.

L’azione ex art 2394 bis c.c. una volta esercitata dal curatore non può essere sottratta dall’ambito di sostituzione dell’amministratore giudiziario. L’art 39, co. 1, e 40, co. 3, d.lgs. 159/2011 non prevede limitazioni alla facoltà di esercizio o subentro in azioni concernenti i rapporti relativi ai beni sequestrati da parte dell’amministratore giudiziario e in particolare l’art. 40, co. 3, prevede la facoltà per l’amministratore giudiziario di compiere atti anche a tutela di terzi, tra cui evidentemente i creditori sociali della società oggetto di sequestro e confisca. Da ciò consegue la legittimazione alle azioni dell’amministratore giudiziario e la sopravvenuta carenza di legittimazione atti dei commissari straordinari una volta subentrato nel processo il primo.

La legittimazione all’azione di responsabilità verso i creditori sociali ex art 2394 c.c. in capo agli organi della procedura, commissari straordinari e amministratore giudiziario, trova fondamento nell’art 2394 bis c.c. o art. 206 l.fall. e art. 307 d.lgs. 14/2019. Si tratta di esercizio da parte dell’organo della procedura concorsuale di azione che non si trova nel patrimonio della società posta in fallimento, in liquidazione giudiziale, in liquidazione coatta amministrativa o in amministrazione straordinaria, bensì di azione cui erano legittimati i creditori sociali. La legittimazione straordinaria degli organi della procedura all’azione dei creditori si fonda sull’art 2394 bis c.c., che trova la sua ratio nell’attuazione del principio della par condicio creditorum e nella necessità che ogni iniziativa recuperatoria sia finalizzata al soddisfacimento di tutti i creditori sociali una volta aperta la procedura concorsuale. La legittimazione ad agire straordinaria ed esclusiva vede la sostituzione del curatore/commissario/liquidatore/commissario straordinario ai creditori concorsuali.

In ipotesi di fusione, i creditori sociali trovano principale tutela nello strumento dell’opposizione ex art 2503 c.c.; una volta divenuta efficace l’operazione straordinaria, esiste solo la società post fusione con i suoi organi. Dopo la fusione non è ipotizzabile un’azione ex art 2394 c.c. verso gli amministratori delle società partecipanti alla fusione ma non più esistenti, le iniziative dei creditori sociali potranno indirizzarsi agli amministratori della società risultante dalla fusione ai quali, eventualmente, si potrà anche contestare di non aver agito con azione di responsabilità sociale verso gli amministratori della società partecipante all’operazione di fusione e non più esistente per far valere loro una responsabilità per atti gestori che abbiano comportato la perdita del patrimonio sociale. Qualora, successivamente alla operazione di fusione, si dovesse aprire una procedura concorsuale i creditori della procedura possono qualificarsi creditori solo verso la società post-fusione coinvolta nella procedura, quindi solo verso gli organi gestori e di controllo della società risultante dalla fusione può ipotizzarsi l’esercizio dell’azione ex artt. 2394 e 2394 bis c.c. Non si ravvisa, invece, alcuna legittimazione attiva della procedura con l’azione ex art 2394 bis c.c. verso gli amministratori delle società incorporate.

Il curatore/commissario/liquidatore/commissario straordinario è, invece, legittimato all’azione ex art 2393 c.c. anche verso gli ex amministratori delle società incorporate in quanto l’azione di responsabilità sociale già esercitabile dalla società partecipante alla fusione costituisce componete attiva della medesima che è transitata ex art 2504 bis c.c. nella società risultante dalla fusione ex art 2504 bis c.c. (nei confronti di quegli amministratori gli amministratori della società post-fusione possono agire per conseguire il ristoro di danni cagionati al patrimonio della società), la legittimazione all’azione si fonda sugli artt. 42 e 43 l.fall. o sugli artt. 142 e 143 d.lgs. 14/2019. A medesime conclusioni si giunge per l’azione di responsabilità verso i sindaci e verso i revisori.

L’efficacia probatoria della relazione dei commissari straordinari ex art. 4, co. 2, d.l. 347/2003 e art. 28 d.lgs. 270/1999 va valutata a seconda della natura delle risultanze emergenti. Infatti, la relazione, formata da un pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni, fa piena prova fino a querela di falso degli atti e dei fatti che il pubblico ufficiale attesta essere stati da lui compiuti o avvenuti in sua presenza; invece, il contenuto della relazione che riguarda circostanze desunte attraverso l’esame della documentazione dell’imprenditore o l’espressione di valutazioni da parte dei commissari straordinari rimane validamente valutabile. La relazione presenta, comunque, un’attendibilità intrinseca che può essere infirmata mediante una specifica prova contraria.

Revocatoria dell’atto di scissione e sequestro conservativo ex art. 2905, co. 2, c.c. dei beni delle beneficiarie della scissione

L’art. 2504 quater c.c. (richiamato, in tema di scissione, dall’art. 2506 ter c.c.), ponendo un limite cronologico entro il quale può essere esperita l’azione di accertamento delle nullità rilevanti erga omnes, opera su un piano differente da quello dell’actio pauliana che incide, invece, sull’efficacia dell’atto limitatamente a vantaggio del solo creditore che abbia agito in revocatoria. I due rimedi, quello dell’opposizione del creditore e quello dell’azione revocatoria, sono tra loro concorrenti.

La scissione parziale di una società può determinare una diminuzione della garanzia generica assicurata ai terzi creditori dal patrimonio netto della società scissa, che viene a essere anche solo in parte scorporato, configurandosi in astratto il presupposto oggettivo dell’eventus damni richiesto per l’esercizio della tutela revocatoria, laddove nella parte di patrimonio della società scissa, trasferito a quella beneficiaria, siano ricompresi beni immobili.

Nel caso di scissione, il cumulo di società debitrici, realizzato dall’art. 2506 quater, co. 3, c.c., determinando un frazionamento del limite di responsabilità tra coobbligati, comporta il pregiudizio (idoneo a integrare il presupposto dell’eventus damni richiesto dall’art. 2901 c.c.) per il creditore tenuto, in caso di incapienza del limite di valore del singolo debitore, a dover moltiplicare le azioni dirette alla soddisfazione dell’intero importo del credito.

Il periculum in mora, nel caso di sequestro ai sensi dell’art. 2905, co. 2, c.c., si atteggia come pericolo di perdere la possibilità di poter aggredire in via esecutiva, ex art. 2902, co. 1, c.c., quella parte di patrimonio di cui il debitore ha già disposto in favore dei terzi. L’esistenza del periculum in mora deve essere verificata con riferimento al rischio concreto che il terzo acquirente si disfi, a sua volta, del bene proveniente dal patrimonio del debitore.

L’oggetto del sequestro conservativo disciplinato dall’art. 2905, co. 2, c.c., non è la pluralità dei beni appartenenti al patrimonio del debitore fino alla concorrenza dell’importo corrispondente al credito, come nell’ipotesi generale di sequestro conservativo, ma esattamente il bene alienato dal debitore.

21 Dicembre 2022

Simulazione e invalidità della scissione, azione revocatoria

Alla luce del combinato disposto di cui agli artt. 2504-quater e 2506-ter, co. 5 c.c., deve ritenersi preclusa in radice qualsivoglia statuizione che implichi la caducazione degli effetti dell’operazione straordinaria di scissione, ivi compresa l’asserita simulazione del negozio, posto che l’eventuale esito vittorioso determinerebbe – diversamente dall’azione revocatoria, che in caso di accoglimento ne comporterebbe soltanto l’inefficacia – una profonda e irreversibile modificazione degli assetti societari, in spregio alle esigenze di certezza e stabilità cui tende il disposto dell’art. 2504-quater c.c., richiamato dall’art. 2506-ter c.c. Trattasi di disposizione che, in quanto posta a garanzia della certezza e della stabilità dell’operazione straordinaria, anche e soprattutto nell’interesse dei terzi, non è suscettibile di deroga pattizia.

Di contro, l’azione revocatoria dell’atto di scissione societaria deve ritenersi sempre esperibile, in quanto mira a ottenere l’inefficacia relativa dell’atto, che lo rende inopponibile al solo creditore pregiudicato, al contrario di ciò che si verifica nell’opposizione dei creditori sociali prevista dall’art. 2503 c.c., finalizzata, viceversa, a farne valere l’invalidità.

15 Luglio 2022

Diritto di recesso del socio di s.p.a., (in)applicabilità transtipica dell’art. 2473 c.c. e modifica dell’oggetto sociale

Ove la fusione inversa determini, per i soci della società incorporata, la conseguenza di essere astretti a un oggetto sociale diverso da quello della società cui partecipavano anteriormente alla fusione, si realizza una modifica della clausola dell’oggetto sociale; tale modifica va, dunque, valutata, ai fini del recesso, ai sensi dell’art. 2437, lett. a), c.c. Perché sia integrata la fattispecie ivi prevista, occorre che il mutamento della clausola relativa all’oggetto sociale comporti una modificazione “significativa” dello stesso. Tale deve intendersi una modificazione che incida in modo rilevante sul profilo di rischio dell’investitore, che – e questo è lo scopo della norma che ammette il recesso solo in caso di mutamento “significativo” – non può rimanere astretto a un nuovo oggetto sociale, il quale stravolga i presupposti sui quali egli ha operato le sue valutazioni di investimento. Al riguardo, non occorre che il nuovo oggetto sociale esponga la società e il socio ad un “depauperamento”, essendo sufficiente che alteri significativamente – ampliandolo, riducendolo o modificandolo – il rischio dell’investimento. Rileva, ai fini della norma, la modificazione dell’oggetto come tale, mentre non rileva la circostanza che alla modifica non sia (finora) seguito anche il mutamento in concreto dell’attività, dal momento che la modificazione apre comunque alla possibilità che la società svolga le nuove attività previste.

L’art. 2437, lett. d), c.c. si riferisce unicamente alla revoca da parte dell’assemblea dello stato di liquidazione inteso in senso tecnico giuridico ex art. 2484 c.c., quale accertato dagli amministratori, deliberato dall’assemblea o accertato giudizialmente, e non al mutamento dell’orientamento della maggioranza circa le scelte di proseguire o meno nell’attività sociale; tale orientamento, infatti, non assume rilevanza fino a che non si traduca in una delibera assembleare di scioglimento (2484, n. 6, c.c.) o in altre circostanze previste dallo statuto (art. 2484,  n. 7, c.c.).

Le ipotesi di recesso previste dall’art. 2497 quater c.c. sono dettate a tutela del socio della società assoggettata alla direzione e coordinamento e non si prestano a essere applicate al socio della società che esercita direzione e coordinamento.

In via generale, sia per le s.p.a. che per le s.r.l., la delibera di scissione non produce i suoi effetti in termini di modificazioni sociali fino a che non sia eseguita, tanto è che l’art. 2503 c.c., richiamato per le scissioni dall’art. 2506 ter, ultimo comma, c.c., regola i casi in cui la delibera può essere immediatamente – o meno – “attuata” mediante l’atto (notarile). Ove la delibera di scissione dia diritto al recesso – come è per le s.r.l. –, esso comunque diviene inefficace se la delibera viene successivamente revocata. La revoca, dunque, opera non già come fattore di “modificazione” del regolamento sociale, ma come fattore di annullamento di una modificazione ancora tutta “da attuare”. Non può farsi equivalere, agli effetti del recesso, una delibera di revoca di una scissione non attuata a una delibera di scissione. È bensì evidente dall’ultimo comma dell’art. 2473 c.c. (e anche dell’art. 2437 bis, ultimo comma, c.c.) che il legislatore correla il diritto di recesso alla delibera di fusione o scissione e non alla sua esecuzione; ma è anche vero che la revoca della delibera può rendere addirittura inefficace il recesso già operato. Né, una volta che la delibera sia revocata oltre il termine nel quale essa renderebbe inefficace il recesso, essa diviene per ciò solo operativa: lo spazio fra delibera ed esecuzione della scissione (e lo stesso per la fusione) è proprio quello nel quale si esercitano i diritti di opposizione, con effetti anche preclusivi della esecuzione.

Quanto alla casistica determinante il diritto di recesso, il legislatore ha dettato due distinte e ben chiare discipline rispettivamente per le s.p.a. e le s.r.l. La ragione della distinzione delle due discipline risiede in una precisa scelta del legislatore, che con riferimento alle s.r.l. ha voluto, da un lato, semplificare la gestione e l’esercizio dell’impresa e, dall’altro, tutelare i soci di minoranza favorendo l’accessibilità al recesso come contropartita delle ampie facoltà attribuite al controllo da parte dei soci di maggioranza. In relazione, dunque, alla difformità delle fattispecie di recesso previste dagli artt. 2473 e 2437 c.c., non si tratta di riempire un vuoto normativo, né di valutare se una disciplina prevista per un tipo sociale possa applicarsi anche all’altro in ragione del fatto che esprime principi generali. Pertanto, nelle s.p.a. non compete il diritto di recesso ai soci che non hanno consentito alla fusione o scissione della società.

Il recesso del socio da una società è un negozio unilaterale recettizio, destinato a perfezionarsi e a produrre i propri effetti sin dal momento in cui la dichiarazione che lo esprime sia pervenuta nella sfera di conoscenza della società destinataria; ciò, naturalmente, quando ne sussistano i presupposti. Il recesso, essendo immediatamente efficace, non dà alcun diritto al socio a continuare a partecipare alla vita sociale. Con il legittimo recesso, infatti, il socio non è più abilitato all’esercizio dei diritti sociali e conserva il diritto ad ottenere la liquidazione della sua quota o azione.

La determinazione dell’importo della liquidazione della quota cui ha diritto il socio che ha esercitato il diritto di recesso è riservata, per disposizione di legge, al regolamento negoziale: in tal senso è chiaro il disposto dell’art. 2437 ter c.c. nelle sue varie disposizioni, culminanti nella previsione – in caso di disaccordo fra socio e società sul valore della quota azionaria – di uno strumento giudiziale, non contenzioso, volto alla nomina di un esperto, il cui parere è aggredibile con causa contenziosa solo nei limiti dell’art. 1349 c.c. È da ritenere che questo regolamento normativo della materia, da un lato, risenta della oggettiva difficoltà di determinare il “valore di mercato” delle partecipazioni (si nota che lo stesso regime vale per le s.r.l., tipicamente società chiuse) e, dall’altro, miri a ridurre al massimo il contenzioso e i tempi di attesa del socio rispetto alla liquidazione della quota e insieme (e correlativamente) a deformalizzare le operazioni, rendendo accessibile all’esperto la documentazione occorrente senza limitazioni. Rispetto a un tale sistema è pertanto aliena la pretesa di ottenere la liquidazione secondo le regole del processo ordinario, caratterizzato da preclusioni e oneri probatori.

9 Maggio 2022

Sull’invalidità della scissione

Il disposto dell’art. 2504-quater, comma 1, c.c., richiamato con riferimento alle operazioni di scissione dall’art. 2506-ter, comma 5 c.c. – a mente del quale: “eseguite le iscrizioni dell’atto di fusione a norma del secondo comma dell’art. 2504, l’invalidità dell’atto di fusione non può più essere pronunciata”, restando salva unicamente la possibilità per i soci o i terzi danneggiati dall’operazione di ottenere una tutela risarcitoria – impone che, una volta adempiuta l’iscrizione dell’operazione straordinaria nel registro delle imprese, qualsivoglia rimedio diretto a invalidare l’operazione medesima è precluso. L’unico spazio di manovra per i soggetti che si ritengono lesi dall’operazione è compreso, dunque, tra l’assunzione della delibera con cui è stata approvata la fusione o la scissione e l’ultimo adempimento degli oneri di pubblicità; successivamente a tale momento, ai soci o ai terzi che si assumono danneggiati dall’operazione medesima non resta che il diritto al risarcimento dei danni. Tale meccanismo risponde a chiare esigenze di tutela dell’affidamento dei terzi e di certezza dei traffici giuridici e non soggiace ad eccezioni di sorta. L’iscrizione nel registro delle imprese della scissione costituisce, dunque, una preclusione di carattere assoluto, rendendo inattaccabile l’operazione iscritta.

12 Gennaio 2022

Cessazione della materia del contendere per rinuncia al progetto di fusione nell’opposizione dei creditori ex art. 2503 c.c.

Seppur con la riforma del 2003 siano venuti meno i limiti di ammissione di società sottoposte a procedure concorsuali alla fusione, rispetto a tale operazione devono essere previste idonee garanzie per i creditori della società in bonis che vi partecipi, non potendosi porre i creditori della società in bonis in condizione di par condicio con i creditori della società dichiarata fallita.

Nel contesto dell’opposizione dei creditori ex art. 2503 c.c. alla fusione per incorporazione di una società in liquidazione in una società fallita, la rinuncia al progetto di fusione nel corso del giudizio determina la cessazione della materia del contendere: se la fusione non prevedeva alcuna garanzia ulteriore rispetto alla possibilità di proporre opposizione ex art. 2503 c.c., le spese del processo vanno poste a carico della società debitrice e della società fallita.