Art. 2598 c.c.
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Contraffazione per equivalenti di brevetto italiano
In relazione alla contraffazione per equivalenti va considerato che l’art. 52, co. 3 bis, cpi, introdotto dal D.Lgs. n. 131/2010, precisa che per determinare l’ambito della protezione conferita dal brevetto si deve tenere nel dovuto conto ogni elemento equivalente ad un elemento indicato nelle rivendicazioni. In altri termini, è formalizzata una regola di interpretazione dell’ambito di protezione brevettuale in forza della quale un prodotto, anche se formalmente diverso dall’invenzione brevettata, essendo esclusa la contraffazione letterale, può essere comunque equiparato al brevetto e ricondotto nel suo ambito di protezione, mirandosi così a tutelare in modo effettivo i diritti del titolare. Peraltro, con la teorica dell’equivalenza si cerca di evitare che il diritto di esclusiva possa essere eluso o sacrificato mediante la realizzazione di modeste e non significative varianti all’invenzione.
Ai fini del giudizio di equivalenza occorre considerare il conseguimento dello stesso effetto tecnico da parte del trovato asseritamente in contraffazione e l’ovvietà della soluzione innovativa nel trovato in contestazione (ossia della modifica apportata) alla luce delle conoscenze del tecnico medio del settore, di modo che solo una innovazione non ovvia ed anzi originale esclude l’equivalenza, diversamente dalla modifica meramente banale ed ovvia o comunque alla portata dell’esperto del settore. Al fine di valutare se la realizzazione contestata possa considerarsi equivalente a quella brevettata, così da costituirne una contraffazione, occorre accertare se, nel permettere di raggiungere il medesimo risultato finale, essa presenti carattere di originalità, offrendo una risposta non banale, né ripetitiva della precedente, essendo da qualificarsi tale quella che ecceda le competenze del tecnico medio che si trovi ad affrontare il medesimo problema, potendo ritenersi in questo caso soltanto che la soluzione si collochi al di fuori dell’idea di soluzione protetta. In particolare, affinché ricorra la contraffazione per equivalenti non è sufficiente che il problema tecnico affrontato dal brevetto sia il medesimo ma è necessario che la soluzione proposta al medesimo problema tecnico possa essere qualificata come una variante ovvia rispetto alla soluzione apportata dal brevetto tutelato.
Domanda di contraffazione del marchio e atti di concorrenza sleale confusoria
Distribuzione non autorizzata di copie di quotidiani e concorrenza sleale
In tema di concorrenza sleale, il rapporto di concorrenza tra due o più imprenditori, derivante dal contemporaneo esercizio di una medesima attività industriale o commerciale in un ambito territoriale anche solo potenzialmente comune, comporta che la comunanza di clientela non è data dall’identità soggettiva degli acquirenti dei prodotti, bensì dall’insieme dei consumatori che sentono il medesimo bisogno di mercato e, pertanto, si rivolgono a tutti i prodotti, uguali ovvero affini o succedanei a quelli posti in commercio dall’imprenditore che lamenta la concorrenza sleale, che sono in grado di soddisfare quel bisogno.
La concorrenza sleale per appropriazione dei pregi dei prodotti o dell’impresa altrui (art. 2598, n. 2, c.c.) non consiste nell’adozione di tecniche materiali o procedimenti già usati da altra impresa – che può dar luogo, invece, alla concorrenza sleale per imitazione servile – ma ricorre quando un imprenditore, in forme pubblicitarie od equivalenti, attribuisce ai propri prodotti od alla propria impresa pregi, quali ad esempio medaglie, riconoscimenti, indicazioni di qualità, requisiti, virtù, da essi non posseduti, ma appartenenti a prodotti od all’impresa di un concorrente, in modo da perturbare la libera scelta dei consumatori.
La concorrenza sleale parassitaria, ricompresa fra le ipotesi previste dall’art. 2598, n. 3, c.c., consiste in un continuo e sistematico operare sulle orme dell’imprenditore concorrente, mediante l’imitazione non tanto dei prodotti, quanto piuttosto di rilevanti iniziative imprenditoriali di quest’ultimo, in un contesto temporale prossimo alla ideazione dell’opera, in quanto effettuata a breve distanza di tempo da ogni singola iniziativa del concorrente (nella concorrenza parassitaria diacronica) o dall’ultima e più significativa di esse (in quella sincronica), vale a dire prima che questa diventi patrimonio comune di tutti gli operatori del settore.
L’ipotesi prevista dall’art. 2598, n. 3, cod. civ. – consistente nell’avvalersi direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo «non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda» – si riferisce a mezzi diversi e distinti da quelli relativi ai casi tipici previsti dai precedenti nn. 1 e 2 della medesima disposizione e costituisce un’ipotesi autonoma di possibili casi alternativi, per i quali è necessaria la prova in concreto dell’idoneità degli atti ad arrecare pregiudizio al concorrente (v. ad es. Cass. civ. Sez. I Sent., 04/12/2014, n. 25652).
La messa in commercio dell’opera giornalistica, se, da un lato, può comportare l’esaurimento del diritto alla sua successiva circolazione, dall’altro, non determina un effetto estintivo con riferimento alla facoltà di sfruttamento anche pubblicitario dell’opera stessa che rimane in capo al suo autore o, comunque, al suo titolare.
Il caso Mediaset-Vivendi: è pienamente valido l’acquisto di azioni effettuato in violazione dell’art. 43, comma 11, del Tusmar, a seguito della pronuncia della Corte di Giustizia UE
L’azione di risoluzione del vincolo contrattuale per inadempimento è rimedio contrattuale riservato alle parti contraenti di un vincolo negoziale validamente perfezionato e non è appannaggio di soggetti rimasti estranei alla pattuizione. [ LEGGI TUTTO ]
Sottrazione di informazioni riservate e concorrenza sleale
Ai fini della configurazione di un comportamento illecito di concorrenza sleale, è necessario che si sia in presenza di un complesso organizzato e strutturato di dati cognitivi, seppur non secretati e protetti, che superino la capacità mnemonica e l’esperienza del singolo normale individuo e che, arricchendo la conoscenza del concorrente, siano capaci di fornirgli un vantaggio competitivo, che trascenda la capacità e le esperienze del lavoratore acquisito.
Contraffazione relativa ai marchi di fatto: onere della prova
Ai sensi dell’art. 121 c.p.i. l’onere di provare la contraffazione incombe sul titolare, con la precisazione che in caso di contraffazione di diritti non titolati l’attore dovrà dimostrarne i fatti costitutivi, e cioè l’esistenza e la validità
(presunte per i diritti titolati attraverso la registrazione) della privativa, dunque del marchio di fatto, attraverso la dimostrazione: dell’uso attuale; della notorietà conseguente, identificativa dei prodotti per cui si chiede tutela e correlata con la priorità dell’uso implicante la novità richiesta dall’art.12 c.p.i. necessaria anche per i marchi di fatto; della conseguente percepibilità del segno come riferibile ad una determinata realtà imprenditoriale da parte dei soggetti interessati; del compimento da parte del soggetto al quale si contesta la contraffazione di uno dei comportamenti enucleabili dall’art. 20 c.p.i.
Contraffazione del marchio e concorrenza sleale per appropriazione di pregi: il caso Ferragamo
Ricorre la fattispecie di appropriazione di pregi quando un imprenditore fa propri, profittandone e veicolandoli sui suoi prodotti, pregi in realtà appartenenti e coessenziali a beni di diversa provenienza. La concorrenza sleale deve, comunque, consistere in attività dirette ad appropriarsi illegittimamente dello spazio di mercato ovvero della clientela del concorrente, che si concretino nella confusione dei segni prodotti, nella diffusione di notizie e di apprezzamenti sui prodotti e sull’attività del concorrente o in atti non conformi alla correttezza professionale; con la conseguenza che l’illecito non può derivare dal danno commerciale in sé, né nel fatto che una condotta individuale di mercato produca diminuzione di affari nel concorrente, in quanto il gioco della concorrenza rende legittime condotte egoistiche, dirette al perseguimento di maggiori affari, attuate senza rottura delle indicate regole legali della concorrenza. [Nel caso di specie, deve ritenersi sussistente la lamentata contraffazione del marchio “Gancini”; parte attrice ha comprovato di essere titolare di detto marchio, registrato sia in sede comunitaria, che in sede nazionale].
Onere probatorio ai fini dell’accertamento dell’esistenza del conflitto di interessi e dell’illecito di concorrenza sleale
L’esistenza di un conflitto di interessi tra la società ed il suo amministratore, ai fini dell’annullabilità del contratto, non può essere fatta discendere genericamente dalla mera coincidenza nella stessa persona dei ruoli di amministratore di contrapposte parti contrattuali, ma deve essere accertata in concreto, sulla base di una comprovata relazione antagonistica di incompatibilità degli interessi di cui siano portatori, rispettivamente, la società ed il suo amministratore. [ LEGGI TUTTO ]
Determinazione del lucro cessante nel risarcimento del danno a seguito di contraffazione del marchio
Qualora sia accertata la violazione di un diritto di proprietà industriale e sia dovuto il risarcimento del danno ai sensi dell’art. 125 c.p.i., ai fini della determinazione del lucro cessante subito dalla società attrice si deve considerare la differenza dei flussi di vendita che il titolare della privativa avrebbe avuto in assenza della contraffazione e quello che ha effettivamente avuto, intendendo il mancato guadagno quale utile netto determinato sottraendo ai ricavi netti di vendita i soli costi di produzione “incrementali” quali, ad esempio, i costi di acquisto della materia prima e dei prodotti semi-lavorati, i costi energetici di produzione, i costi dei materiali di consumo diretti, nonché i costi che eventualmente si sarebbero sostenuti al fine di incrementare la propria capacità produttiva per la produzione della quantità di beni per cui è stata accertata la contraffazione.
Violazione del brevetto europeo per varietà vegetale di uva nera senza semi
In base alla normativa italiana (art. 107 c.p.i. ) e comunitaria (art. 13 , REG. CE n. 2100/94 del 27 luglio 1994 concernente la privativa comunitaria per ritrovati vegetali) è necessaria l’autorizzazione del costitutore per la produzione, la riproduzione, il condizionamento ai fini della riproduzione o moltiplicazione, la vendita, offerta di vendita o qualsiasi altra forma di commercializzazione, l’esportazione o l’importazione, la detenzione per gli scopi elencati sopra, del materiale di riproduzione o di moltiplicazione di una varietà protetta. L’autorizzazione è necessaria anche per il prodotto della raccolta ottenuto mediante utilizzazione non autorizzata di materiali di riproduzione o di moltiplicazione di una varietà protetta. [Nel caso in esame, le parti convenute hanno posto in essere una condotta di vendita di uva nera senza semi della varietà vegetale protetta “SUGRATHIRTEEN” ottenuta da utilizzazione non autorizzata di materiale di riproduzione.]