Art. 2598 c.c.
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Concorrenza sleale dell’ex dipendente e risarcimento del danno
Il rapporto processuale nei confronti di una società di capitali estinta al momento in cui si è perfezionata la notificazione si radica correttamente nei confronti dei soci superstiti che siano parimenti evocati in giudizio e chiamati a rispondere nei limiti di quanto riscosso in sede di riparto di liquidazione ex art. 2495.2 c.c.
Sui presupposti per il compimento di atti di concorrenza sleale quali lo storno di dipendenti, lo sviamento di clientela e l’appropriazione ed uso illecito di informazioni aziendali riservate
L’ex dipendente dell’imprenditore, una volta cessato il rapporto di lavoro (esclusa l’ultrattività dell’obbligo contrattuale di cui all’art. 2105 c.c.), in mancanza di un patto di non concorrenza, può intraprendere un’attività in concorrenza con l’impresa con cui aveva intrattenuto il precedente rapporto professionale, sia che avvii in proprio un’attività, sia che svolga una prestazione di lavoro alle dipendenze o in collaborazione con altri. Egli resta sottoposto alle medesime regole valevoli per qualunque altro soggetto, non derivando dalla qualità di ex dipendente alcun ulteriore divieto od onere: dunque, l’eventuale illiceità della concorrenza viene ancorata al compimento di atti qualificabili come oggettivamente sleali, a prescindere dalla qualità del soggetto agente.
L’ex dipendente (ma idem dicasi per l’ex collaboratore autonomo) non può utilizzare, a favore del nuovo datore di lavoro, quelle informazioni che vanno al di là del suo bagaglio di conoscenze professionali, sia che assumano i caratteri di segretezza di cui agli artt. 98-99 c.p.i., sia che si tratti di notizie comunque riservate, interne all’azienda e non suscettibili di divulgazione e di utilizzazione al di fuori di essa. Le notizie interne all’azienda – quali le informazioni commerciali relative ai clienti e ai fornitori, le condizioni contrattuali, le strategie imprenditoriali – sprovviste dei requisiti di protezione di cui agli artt. 98 e 99 c.p.i. possono presentare carattere di riservatezza nell’ambito dell’attività aziendale in cui sono impiegate, e in quanto tali sono tutelate ai sensi dell’art. 2598 n. 3 c.c..
L’illiceità della condotta concorrenziale non va ricercata episodicamente, ma si desume dall’insieme delle manovre di approfittamento dell’avviamento altrui, attraverso un’attività di acquisizione sistematica dei clienti della società concorrente.
L’imitazione servile dei prodotti realizzati e/o commercializzati da altra impresa, quale ipotesi di concorrenza confusoria ex art. 2598 n. 1 c.c., presuppone che la forma del prodotto da tutelare sia già nota al mercato e presenti, come per i segni distintivi non registrati, capacità distintiva dell’attività di un determinato imprenditore ed efficacia individualizzante e diversificatrice del prodotto rispetto ad altri consimili. Incombe sull’attore l’onere di provare la priorità e la capacità distintiva della forma, mentre grava sul convenuto l’onere di dimostrare la mancanza di novità. La necessità della capacità distintiva della forma nega tutela alle forme determinate dalla natura e dalla funzionalità del prodotto e a tutte quelle comunque “utili”, che in qualsiasi modo rispondano ad un’impostazione strutturale conseguente ad una scelta di natura tecnica (nel caso di specie il Tribunale negava capacità distintiva a utensili normalmente impiegati nelle lavorazioni meccaniche, standardizzati, fungibili tra loro e sprovvisti di forme speciali o ricercate).
Affinché possano ravvisarsi gli estremi della fattispecie dello storno di dipendenti di un’azienda da parte di un imprenditore concorrente – comportamento vietato in quanto atto di concorrenza sleale ai sensi dell’art. 2598 n. 3 c.c. – non è sufficiente il mero trasferimento di collaboratori da un’impresa ad un’altra concorrente, né la contrattazione che un imprenditore intrattenga con il collaboratore altrui, ricorrendo in tali caso un’attività di per sé legittima, in quanto espressione del principio della libera circolazione del lavoro, ove non attuata con lo specifico scopo di danneggiare l’altrui azienda. Lo storno di dipendenti vietato ex art. 2598 n. 3 c.c. deve essere caratterizzato dall’ “animus nocendi”, che va desunto dall’obiettivo che l’imprenditore concorrente si proponga – attraverso il trasferimento dei dipendenti – di vanificare lo sforzo di investimento del suo antagonista, creando nel mercato l’effetto confusorio, o discreditante, o parassitario capace di attribuire ingiustamente, a chi lo cagiona, il frutto dell’investimento (ossia, l’avviamento) di chi lo subisce.
Il giudizio di difformità dello storno di dipendenti dai principi della correttezza professionale non va condotto sulla base di un’indagine di tipo soggettivo, ma secondo un criterio puramente oggettivo, dovendosi valutare se lo spostamento dei dipendenti si sia realizzato con modalità tali, da non potersi giustificare, in rapporto ai principi di correttezza professionale, se non supponendo nell’autore l’intento di arrecare pregiudizio all’organizzazione e alla struttura produttiva dell’imprenditore concorrente, svuotandola delle sue specifiche possibilità operative. Al fine di verificare la sussistenza del requisito dell’animus nocendi, si valuta non solo se lo storno di dipendenti sia stato realizzato in violazione delle regole della correttezza professionale (come nei casi di impiego di mezzi contrastanti con i principi della libera circolazione del lavoro, di denigrazione del datore di lavoro, o avvalendosi di dipendenti dell’impresa che subisce lo storno, o quando il trasferimento del collaboratore sia finalizzato all’acquisizione dei segreti del concorrente), ma principalmente se le caratteristiche e le modalità del trasferimento evidenzino la finalità di danneggiare l’altrui azienda, in misura eccedente il normale pregiudizio che può derivare dalla perdita di prestatori di lavoro trasferiti ad altra impresa, non essendo sufficiente che l’atto in questione sia diretto a conquistare lo spazio di mercato del concorrente.
Per potersi configurare un’attività di storno di dipendenti, alla luce del requisito dell’animus nocendi, assumono rilievo i seguenti elementi: a) la quantità e la qualità dei dipendenti stornati; b) il loro grado di fungibilità; c) la posizione che i dipendenti rivestivano all’interno dell’azienda concorrente; d) la tempistica dello sviamento; d) la portata dell’organizzazione complessiva dell’impresa concorrente.
Anche qualora risulti accertata la concorrenza sleale, il danno non è in re ipsa, ma, essendo conseguenza diversa ed ulteriore dell’illecito rispetto anche alla distorsione della concorrenza, richiede di essere provato secondo i principi generali che regolano le conseguenze del fatto illecito, in quanto soltanto tale avvenuta dimostrazione consente al giudice di passare alla liquidazione del danno, eventualmente facendo ricorso all’equità.
Integra cumulativamente contraffazione e concorrenza sleale l’offerta al pubblico di prodotti importati extra-ue privi delle etichette originali
L’infrazione del divieto di importazione parallela extracomunitaria (non consenziente il titolare del marchio) unita alla successiva commercializzazione dei prodotti così importati certamente integra di per sé il presupposto della non conformità ai principi di correttezza professionale, per cui l’importazione parallela di merci originali, ma di provenienza extracomunitaria, è comunque illecita anche come atto contrario ai principi di correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda, secondo la fattispecie concorrenziale di cui all’art. 2598, n. 3, c.c.. In particolare, ove sia in dubbio il carattere propriamente “originale” dei prodotti (difettando il consenso del titolare del marchio), ciò consente il cumulo tra la tutela contro l’appropriazione di un marchio e la tutela presidiata dall’azione di concorrenza sleale: il medesimo fatto storico dà pertanto fondamento sia di un’azione reale, a tutela dei diritti di esclusiva sul marchio, sia anche, e congiuntamente, di un’azione personale per concorrenza sleale, ove quel comportamento abbia integrato i presupposti di cui all’art. 2598 c.c. [Fattispecie relativa all’offerta in vendita nella grande distribuzione di prodotti scolastici con le etichette olografiche del produttore rimosse o sostituite].
La tutela giuridica del marchio
L’uso indebito del marchio e l’aver posto in essere atti di concorrenza sleale con conseguente sviamento della clientela sono ipotesi di illeciti civili di sé diversi in quanto il primo presuppone la prova della esistenza del marchio protetto oltre l’esistenza di atti consistenti nel suo indebito uso, mentre il secondo comporta esclusivamente la prova di atti concretamente idonei allo sviamento della clientela di altrui ditta, che prescindono dall’esistenza di un marchio registrato o di fatto di quest’ultima e dall’uso indebito di esso.
La molteplicità di elementi che integrano la tutela del marchio di fatto deve essere oggetto di prova da parte di colui che invoca la tutela. Questi in particolare dovrà, dunque, fornire la prova in primo luogo dell’uso del segno e la conseguente notorietà qualificata, il relativo riferimento merceologico e l’estensione della ambito territoriale: ciò anche attraverso una serie di indici quali ad esempio la rilevanza quantitativa del prodotto o del servizio, la durata di questa presenza, il suo ambito territoriale, la pubblicità cui il prodotto o il servizio siano stati fatti oggetto, il tutto parametrato alla originaria forza o debolezza del segno.
Brevetto di invenzione: svolgimento della CTU in fase cautelare e in fase di merito
Le diverse conclusioni cui il CTU sia pervenuto nella sua seconda relazione non conferiscono alla prima relazione depositata nella fase di descrizione alcuna caratteristica di pretesa “erroneità” ove la più compiuta analisi svolta successivamente sia stata resa possibile solo qualora la parte abbia integrato la propria precedente (insufficiente e lacunosa) produzione documentale, assolvendo così in maniera più compiuta al proprio onere probatorio specificamente definito dal comma 1 dell’art. 121 c.p.i. che – tra l’altro – impedisce al CTU di svolgere accertamenti e valutazioni su documenti diversi da quelli prodotti dalla parte che allega la nullità del titolo.
Risoluzione del contratto di affiliazione commerciale, concorrenza sleale e tutela delle informazioni riservate
Il mancato riscontro probatorio dell’esistenza di un know how tutelabile ex art.98, 99 c.p.i. non esclude che il complesso di informazioni riservate, comunque esistenti e qualificabili come know how in senso lato, possa rientrare nell’ambito dell’operatività e quindi della tutela riconosciuta dall’art.2598 c.c. Le informazioni segrete ex art.98 c.p.i. non esauriscono l’ambito di tutela delle informazioni riservate in ambito industriale, pur sempre esperibile anche attraverso la disciplina della concorrenza sleale contro gli atti contrari alla correttezza professionale ex art.2598 n.3 c.c. nei confronti della scorretta acquisizione di informazioni riservate, ancorché non caratterizzate dai requisiti di segretezza e segretazione dell’art.98 c.p.i. Appartiene al tribunale ordinario, e non alle sezioni specializzate in materia di impresa, ai sensi dell’art. 3 del d.lgs. n. 168 del 2003, la competenza a decidere sulla domanda di accertamento di un’ipotesi di concorrenza sleale in cui la prospettata lesione degli interessi della società danneggiata riguardi l’appropriazione, mediante storno di dirigenti, di informazioni aziendali, di processi produttivi e di esperienze tecnico-industriali e commerciali (cd. “know how” aziendale, in senso ampio), ma non sia ipotizzata la sussistenza di privative o altri diritti di proprietà intellettuale, direttamente o indirettamente risultanti quali elementi costitutivi, o relativi all’accertamento, dell’illecito concorrenziale.
Storno di dipendenti e appropriazione di segreti industriali
In tema di responsabilità civile, nell’ipotesi in cui la parte convenuta chiami in causa un terzo in qualità di corresponsabile dell’evento dannoso, la richiesta risarcitoria deve intendersi estesa al medesimo terzo anche in mancanza di un’espressa dichiarazione in tal senso dell’attore, poiché la diversità e pluralità delle condotte produttive dell’evento dannoso non dà luogo a distinte obbligazioni risarcitorie, non mutando l’oggetto del giudizio, essendo peraltro irrilevante, ai fini di cui sopra, che la chiamata sia fondata su di una garanzia propria o impropria, attribuendo a tale definizione solo carattere descrittivo.
Secondo i principi generali del concorso, un soggetto terzo non imprenditore può essere chiamato a rispondere di storno, quando si interpone, in ragione di una relazione di interessi che lo collega all’imprenditore in concorrenza, per cui viene a svolgere la attività illecita, con la conseguenza che entrambi ne rispondono in solido. Tuttavia, la condotta di “storno” è una condotta attiva, che si concreta nell’allontanare e/o trasferire qualche cosa (o qualcuno, nel caso di storno di dipendenti), e presuppone l’alterità tra soggetto che storna e soggetto stornato; si tratta di condotta che non può essere addebitata, per incompatibilità logica, a chi sia nel contempo oggetto passivo dello storno, ossia al dipendente che viene stornato.
Lo storno dei dipendenti, mediante il quale l’imprenditore si assicura le prestazioni lavorative di uno o più dipendenti di un’impresa concorrente, costituisce una lecita espressione dei principi della libera circolazione del lavoro e della libertà d’iniziativa economica, libertà che trovano una tutela anche negli artt.35, 36 e 41 della Costituzione. Perché lo storno si connoti come illecito, sul piano concorrenziale, è necessario che si verifichi con modalità illecite, tali da alterare significativamente la correttezza della competizione, e danneggiare il concorrente, e nel contempo che alla condotta attiva si accompagni la consapevolezza nel soggetto agente dell’idoneità dell’atto a danneggiare il concorrente; questa consapevolezza, che è uno stato soggettivo non dimostrabile direttamente, si desume esaminando le modalità oggettive e di contesto dello storno, e l’impatto sull’organizzazione e la struttura produttiva del concorrente, nel loro complesso e alla luce dei principi di correttezza professionale.
Le dichiarazioni scritte di un testimone costituiscono elementi di prova atipici, quando non possono essere qualificate come testimonianze scritte di cui all’art. 257 bis, mancando i presupposti formali, nè sono equiparabili a deposizioni assunte oralmente, con le garanzie del contraddittorio, ma possono costituire validi elementi di prova atipici quando intrinsecamente coerenti e credibili, numerose, e convergenti nella descrizione dei fatti, disegnando un quadro indiziario probante.
Sono informazioni riservate quelle che recano non solo i dati identificativi dei clienti, ma nel contempo ulteriori indicazioni, utili non solo al loro reperimento, ma piuttosto e soprattutto a determinare il profilo qualificante, in modo che dalla sua lettura sia possibile ricavare conseguenze utili e necessarie per l’esercizio dell’attività aziendale senza necessità di acquisire ulteriori informazioni (nel caso di specie, un database che contiene la lista dei clienti, accompagnata da informazioni ulteriori quali il tipo di contratti da ciascuno stipulati, le relative condizioni economiche, ed eventualmente le scadenze contrattuali da far valere).
Non costituisce concorrenza sleale lo sfruttamento da parte dell’ex dipendente delle conoscenze tecniche, delle esperienze e financo delle informazioni relative alla politica commerciale dell’impresa dalla quale egli proviene, a condizione che non si tratti di informazioni segrete o riservate, ma appunto di un patrimonio personale di conoscenza ed esperienza acquisita dal lavoratore potendo ritenersi fisiologico che il terreno dell’attività elettiva dell’ex dipendente, proprio in virtù delle conoscenze e relazioni precedentemente acquisite, si rivolga ai clienti già in rapporti con l’impresa alle cui dipendenze aveva prestato lavoro: in costanza di rapporto di lavoro, infatti, il dipendente è tenuto ad osservare l’obbligo di fedeltà di cui all’art. 2105 c.c., mentre terminato il rapporto di lavoro, l’ex dipendente, in mancanza di patto (retribuito) di non concorrenza ex art. 2125 c.c., può ben esplicare, per conto proprio o di terzi, l’attività in concorrenza, utilizzando le cognizioni e le esperienze acquisite nel precedente rapporto di lavoro, ed anche le relazioni preferenziali con la clientela.
Contraffazione del modello comunitario registrato e criterio della retroversione degli utili per il risarcimento del danno
Utilizzando il parametro della retroversione degli utili, si deve procedere sottraendo il prezzo di acquisto del bene contraffatto all’ingrosso dal prezzo di rivendita al pubblico. È necessario altresì sottrarre la quota corrispondente ai presumibili costi sostenuti per la commercializzazione del bene. Il risultato deve poi essere moltiplicato per il numero dei capi contraffatti prodotti e venduti.
Non costituisce storno di collaboratori l’assunzione “passiva” delle occasioni lavorative offerte spontaneamente dal mercato
Considerato che all’ex dipendente che abbia intrapreso un’autonoma attività imprenditoriale non può essere addebitato un obbligo generico di astensione – a tutela dell’ex datore di lavoro – esteso al punto di rifiutare occasioni lavorative offerte spontaneamente dal mercato, in assenza di prova di una condotta attiva diretta allo sviamento, si deve concludere che non siano riscontrabili i presupposti per accedere ai rimedi interdittivi e risarcitori di cui all’art. 2598 c.c..
Tutela delle informazioni aziendali segrete ai sensi degli artt. 98 e 99 c.p.i.
La tutela delle informazioni segrete è contenuta nell’art. 98 e 99 del c.p.i.; la fattispecie ricomprende le informazioni aziendali (incluso anche il cd. know-how) e le esperienze tecnico-commerciali ove tali informazioni siano nella loro precisa configurazione non generalmente note o facilmente accessibili agli esperti ed operatori del settore, abbiano valore economico in quanto segrete e siano sottoposte a misure da ritenersi ragionevolmente adeguate a mantenerle segrete.
Il primo requisito per poter invocare la tutela del c.d. “segreto industriale” è rappresentato dal carattere di “novità” delle informazioni, da intendersi non in senso assoluto, ma in senso relativo, come informazione non facilmente accessibile o reperibile. La privativa riconosciuta dagli art. 98 e 99 c.p.i. è infatti incentrata – più che sulle informazioni “in quanto tali” – sull’investimento attuato dall’imprenditore per ottenerle e segretarle.
Colui che invoca la tutela delle informazioni segrete, inoltre, ha l’onere di allegare quali siano le informazioni o il complesso di informazioni di cui si ritiene titolare. In difetto di una descrizione sufficientemente esauriente non è infatti possibile verificare il carattere di novità e la sottoposizione a misure di segretezza.
L’art. 98, 1° comma, c.p.i. individua poi un onere di adozione di specifiche misure di protezione in capo a chi invoca la tutela. Le misure di protezione devono essere dirette verso l’interno (es. dipendenti) e verso l’esterno e vanno adeguate alla tipologia di informazioni che si intende mantenere riservate, dei soggetti che possono accedervi e del progresso tecnologico. Si può dunque trattare di misure negoziali, organizzative e/o tecnologiche.