Art. 146 l.fall.
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Principi in tema di c.t.u. contabile. Il valore probatorio della sentenza di patteggiamento
Mentre nella c.t.u. generica il consulente neppure con il consenso delle parti può acquisire nuovi documenti concernenti fatti e situazioni poste direttamente a fondamento delle domande ed eccezioni, il c.t.u. contabile non incontra tale limite se le parti consentono alle nuove acquisizioni/produzioni documentali. Nel primo caso la c.t.u. è nulla anche se la parte aveva prestato consenso (salva la tempestività del rilievo); nel secondo caso è perfettamente valida anche se acquisisce al processo elementi fondanti le prospettazioni/allegazioni/dimostrazioni delle parti.
Nel giudizio civile di risarcimento e restituzione, la sentenza penale di patteggiamento non ha efficacia di giudicato né inverte l’onere della prova, costituendo invece, quale mero fatto del mondo reale, un indizio utilizzabile solo insieme ad altri indizi se ricorrono i tre requisiti previsti dall’art. 2729 c.c., atteso che una sentenza penale può avere effetti preclusivi o vincolanti in sede civile solo se tali effetti siano previsti dalla legge, mentre nel caso della sentenza penale di patteggiamento esiste, al contrario, una norma espressa che ne proclama l’inefficacia agli effetti civili.
Sull’azione di responsabilità promossa dal curatore
Il curatore del fallimento di una società di capitali può, con un’unica azione, proporre ex art. 146, co. 2 e 3, l.fall. domande risarcitorie verso gli amministratori, i liquidatori e i sindaci, tanto con riferimento ai presupposti della responsabilità contrattuale di questi verso la società, per inadempimento colposo agli obblighi generali di vigilanza e di intervento preventivo e successivo (ex artt. 2392 e 2407 c.c.), quanto a quelli della responsabilità extracontrattuale verso i creditori sociali, per inosservanza degli obblighi inerenti la conservazione dell’integrità del patrimonio sociale, necessaria all’assolvimento della sua generica funzione di garanzia (ex artt. 2394 e 2407 c.c.).
Nell’ambito delle azioni di responsabilità intentate dal curatore fallimentare nei confronti degli amministratori della società fallita, non è sufficiente lamentare la violazione da parte di questi delle norme di legge e dell’atto costitutivo o la non corretta e oculata gestione della società, ma è altresì indispensabile dedurre e dimostrare la diminuzione del patrimonio della società e il nesso causale tra la predetta e le suddette condotte. Anche le azioni di responsabilità intentate dal curatore fallimentare nei confronti del liquidatore per comportamenti da questi posti in essere a decorrere dalla messa in liquidazione della società devono, per trovare accoglimento, essere parimenti giustificate dalla causazione di un danno patrimoniale.
Sulla natura dell’azione di responsabilità esercitata dal curatore
Il curatore del fallimento di una società di capitali può, con un’unica azione, proporre ex art. 146, co. 1 e 2, l. fall., domande risarcitorie verso gli amministratori, i liquidatori e i sindaci, tanto con riferimento ai presupposti della responsabilità contrattuale di questi verso la società, per inadempimento colposo agli obblighi generali di vigilanza e di intervento preventivo e successivo (ex artt. 2392 e 2407 c.c.), quanto a quelli della responsabilità extracontrattuale verso i creditori sociali, per inosservanza degli obblighi inerenti la conservazione dell’integrità del patrimonio sociale, necessaria all’assolvimento della sua generica funzione di garanzia (ex artt. 2394 e 2407 c.c.).
Nell’ambito delle azioni di responsabilità intentate dal curatore fallimentare nei confronti degli amministratori della società fallita, non è sufficiente lamentare la violazione da parte di questi delle norme di legge e dell’atto costitutivo o la non corretta e oculata gestione della società, ma è altresì indispensabile dedurre e dimostrare la diminuzione del patrimonio della società e il nesso causale tra questa e le condotte. Anche le azioni di responsabilità intentate dal curatore fallimentare nei confronti del liquidatore per comportamenti da questi posti in essere a decorrere dalla messa in liquidazione della società devono, per trovare accoglimento, essere parimenti giustificate dalla causazione di un danno patrimoniale.
Responsabilità degli amministratori per atti distrattivi e mancato accertamento della perdita di capitale
In relazione agli atti distrattivi dell’organo gestorio, la natura contrattuale della responsabilità dell’amministratore consente alla società (o al curatore, in caso di sopravvenuto fallimento di quest’ultima) che agisce per il risarcimento del danno di allegare l’inadempimento dell’organo gestorio, restando a carico dell’amministratore convenuto di dimostrare l’utilizzazione delle somme nell’esercizio dell’attività d’impresa.
In relazione alla domanda di risarcimento dei danni conseguenti alla violazione degli obblighi gestori in materia di perdita di capitale, adempimenti sociali, contabili, fiscali e contributivi, le irregolarità, ancorché provate o pacifiche, non sono di per sé sufficienti per affermare la responsabilità del convenuto laddove non sia fornita la prova sia del danno cagionato al patrimonio sociale da siffatte condotte, sia del nesso causale tra l’inadempimento e l’evento dannoso.
Principi in tema di responsabilità ex art. 2486 c.c. e di amministratore di fatto
Affinché possa affermarsi una responsabilità risarcitoria ai sensi dell’art. 2486 c.c., in caso di difetto e/o inattendibilità della documentazione contabile reperita dal curatore, non è sufficiente affermare il difetto della regolare tenuta della contabilità, non essendo detto inadempimento gestorio in sé foriero di pregiudizio patrimoniale per la società. Al contrario, è sempre necessario che sia allegato un inadempimento tale da rendere plausibile il verificarsi di un danno che abbia le caratteristiche del dissesto economico e patrimoniale della società la cui ricostruzione non sia resa possibile proprio dal difetto delle scritture contabili.
La circostanza che il curatore fallimentare non abbia reperito, al momento dell’apertura del concorso, i beni strumentali iscritti nel libro dei cespiti espone l’organo gestorio alla relativa responsabilità per condotta distrattiva, in difetto di allegazione e prova dell’impiego di detti beni nell’interesse della società in bonis.
La fattispecie dell’amministratore di fatto può configurarsi ove si dimostri il significativo e continuativo esercizio, in via non occasionale ed episodica, dei poteri tipici inerenti alla carica societaria e ciò nei molteplici settori dell’attività dell’ente, dalla gestione dei conti, alle questioni di carattere fiscale, dalla predisposizione dei bilanci alla definizione delle problematiche afferenti i rapporti con il personale dipendente. Gli elementi indiziari della fattispecie possono desumersi, ad esempio, dal fatto che il soggetto autorizzi pagamenti in favore dei creditori della società, anche gestendo i conti bancari della stessa, assegni incarichi a terzi, ovvero impartisca direttive ai dipendenti, con particolare riguardano alla gestione amministrativa. Inoltre, non occorre che l’amministratore di fatto eserciti tutti i poteri tipici dell’organo di gestione, ma è necessaria una significativa e continua attività gestoria.
Liquidazione del danno ex art. 2486, co. 3, c.c.: applicazione retroattiva e presunzione assoluta nel criterio del deficit fallimentare
Non può porsi alcun problema di applicazione retroattiva dell’art. 2486, co. 3, c.c. in tema di liquidazione del danno alla luce della consolidata esegesi giurisprudenziale della disciplina previgente, trattandosi di semplice traduzione legislativa di un principio giurisprudenziale di applicazione consolidata.
Particolarmente significativa dell’esatta portata della codificazione è la differenza nella formulazione tra il primo e il secondo periodo del nuovo terzo comma dell’art. 2486 c.c.: mentre per il caso di responsabilità dell’amministratore da prosecuzione dell’attività di impresa in presenza di scritture contabili che consentano di ricostruire la situazione patrimoniale della società il danno è, con presunzione sino a prova contraria, individuato nella cosiddetta differenza tra i netti patrimoniali – ossia nella differenza tra il patrimonio netto alla data in cui l’amministratore è cessato dalla carica o è stata aperta una procedura concorsuale e il patrimonio netto determinato alla data in cui si è verificata una causa di scioglimento di cui all’art. 2484 c.c., detratti i costi sostenuti o da sostenere per la liquidazione secondo un criterio di normalità –, nell’ipotesi di accertata responsabilità dell’amministratore, ma in mancanza di scritture contabili che consentano la quantificazione dei netti patrimoniali, il dato letterale appare, in una dimensione di fatto quasi sanzionatoria, superare il regime della presunzione iuris tantum istituendo un criterio di liquidazione legale: il danno è liquidato in misura pari alla differenza tra attivo e passivo accertati nella procedura. Ravvisare nella nuova formulazione dell’art. 2486, co. 3, c.c. la previsione di un criterio legale di liquidazione del danno, nell’ipotesi di assenza o irregolarità delle scritture contabili, se da un lato favorisce il conseguimento dell’obiettivo deflattivo e acceleratorio avuto di mira dal legislatore ed enunciato nella relazione illustrativa di accompagnamento alla riforma, dall’altro non è esito interpretativo privo di conseguenze. Se, infatti, il criterio in parola stabilisce una misura legale del danno risarcibile, questo semplifica e alleggerisce notevolmente l’onere della prova gravante sul danneggiato chiamato a dimostrare solo la potenzialità lesiva della condotta dell’amministratore, ma preclude sia la possibilità per l’amministratore convenuto di offrire una prova contraria, sia la possibilità per il fallimento attore di ottenere il risarcimento di un danno diverso ed ulteriore rispetto a quello quantificabile alla stregua del confronto tra l’attivo e il passivo fallimentari.
L’applicazione del criterio di liquidazione legale del danno previsto dall’art. 2486, co. 3, c.c. secondo periodo, preclude al curatore di ottenere la liquidazione di ulteriori somme a titolo di risarcimento che si risolverebbe, peraltro, nella duplicazione di poste già comprese nella differenza tra l’attivo e il passivo fallimentare.
L’art. 651 c.p.p. attribuisce alla sentenza penale irrevocabile di condanna efficacia di giudicato, anche nel giudizio civile di risarcimento del danno, quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso. Ogni valutazione in ordine alla sussistenza del danno e al nesso di causalità tra condotta ed evento lesivo, nonché alla liquidazione dell’entità del risarcimento dovuto è rimessa, invece, esclusivamente al giudice civile, il quale deve verificare che la condotta penalmente rilevante già accertata abbia anche cagionato una lesione del patrimonio sociale costituente danno risarcibile.
Ripartizione dell’onere probatorio nell’azione sociale di responsabilità per condotte distrattive
L’azione sociale di responsabilità promossa contro amministratori e sindaci di società di capitali ha natura contrattuale, dovendo di conseguenza l’attore provare la sussistenza delle violazioni contestate e il nesso di causalità tra queste e il danno verificatosi, mentre sull’amministratore convenuto incombe l’onere di dimostrare la non imputabilità del fatto dannoso alla sua condotta, fornendo la prova positiva dell’osservanza dei doveri e dell’adempimento degli obblighi imposti. In particolare, la responsabilità contrattuale dell’amministratore per i danni cagionati alla società amministrata a fronte di somme fuoriuscite dall’attivo della società senza una specifica giustificazione comporta che la società, nell’agire per il risarcimento del danno, può limitarsi ad allegare l’inadempimento, consistente nella distrazione di dette risorse, mentre compete all’amministratore la prova del corretto adempimento e dunque della destinazione del patrimonio all’estinzione di debiti sociali oppure allo svolgimento dell’attività sociale.
L’azione di responsabilità esercitata dal curatore ex art. 146 l.fall. e la relativa disciplina della prescrizione
L’azione di responsabilità esercitata dal curatore ex art. 146 l.fall. cumula in sé le diverse azioni previste dagli artt. 2393 e 2394 c.c. a favore, rispettivamente, della società e dei creditori sociali, in relazione alle quali assume contenuto inscindibile e connotazione autonoma – quale strumento di reintegrazione del patrimonio sociale unitariamente considerato a garanzia sia degli stessi soci che dei creditori sociali –, implicando una modifica della legittimazione attiva, ma non della natura giuridica e dei presupposti delle due azioni, che rimangono diversi ed indipendenti. Ne discende che la mancata specificazione del titolo nella domanda giudiziale, lungi dal determinare la sua nullità per indeterminatezza, fa presumere, in assenza di un contenuto anche implicitamente diretto a far valere una sola delle azioni, che il curatore abbia inteso esercitare congiuntamente entrambe le azioni. Tale principio è riferibile sia alle s.p.a., che alle s.r.l.
L’autonomia delle azioni ha ricadute in punto di disciplina della prescrizione e del riparto dell’onere della prova. Il termine di prescrizione per entrambe le azioni, quella sociale di natura contrattuale e quella verso i creditori sociali, è di 5 anni ex art. 2949, rispettivamente co. 1 e 2, c.c. L’art. 2941, n. 7, c.c. stabilisce la sospensione della prescrizione tra le persone giuridiche, la s.r.l., e l’amministratore finché è in carica. La norma si riferisce, come risulta espressamente dal suo tenore letterale, al pari dell’art 2393, co. 4, c.c., alla sola azione di responsabilità sociale, cioè a quella che può esercitare la società verso il suo ex amministratore.
L’azione di responsabilità degli amministratori verso i creditori sociali che abbiano compromesso l’integrità del patrimonio sociale, anche violando il disposto dell’art 2486, co. 1, c.c., può essere proposta dai creditori e dal solo curatore fallimentare ai sensi dell’art 146 l.f. dopo l’apertura della procedura, sul presupposto che il patrimonio sia divenuto insufficiente al soddisfacimento dei crediti, situazione che ricorre quando la società presenta un attivo che, raffrontato ai debiti, non consente il loro integrale soddisfacimento. Il termine di prescrizione di questa azione decorre quindi quando l’attivo si sia palesato esternamente alla società e in modo oggettivamente percepibile dai creditori come inidoneo a soddisfare i crediti sociali; in ragion dell’onerosità della prova gravante sul curatore, sussiste una presunzione iuris tantum di coincidenza tra il dies a quo di decorrenza della prescrizione e la dichiarazione di fallimento, ricadendo sull’amministratore la prova contraria di una diversa data, anteriore, di insorgenza e percepibilità dello stato di incapienza patrimoniale con deduzione di fatti sintomatici di assoluta evidenza.
Ai sensi dell’art. 2486, co. 1, c.c., al verificarsi di una causa di scioglimento e fino al momento della consegna di cui all’art. 2487 bis c.c., gli amministratori conservano il potere di gestire la società ai soli fini della conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale; per configurare la responsabilità verso i creditori occorre accertare che l’amministratore non solo non ha provveduto a constatare la causa di scioglimento e a proporre la liquidazione, ma che ha proseguito l’attività di impresa non con finalità meramente conservative, perché è questa condotta che può determinare un aggravio del dissesto in cui già la società si trova e di tale aggravio del dissesto può ritenersi responsabile l’amministratore.
Sulla natura dell’azione di responsabilità promossa dal curatore fallimentare
Nell’ipotesi in cui la procedura agisca in giudizio ai sensi dell’art. 146 l.fall. la responsabilità fatta valere in giudizio in ragione dei medesimi fatti gestori deve reputarsi fondata sia sul titolo di responsabilità contrattuale, sia sul titolo di responsabilità extracontrattuale, esercitando il curatore contestualmente l’azione sociale di responsabilità ex art. 2393 c.c. e l’azione dei creditori ex art. 2394 c.c.
Responsabilità da contatto sociale qualificato dell’amministratore di fatto
La figura dell’amministratore di fatto ricorre qualora un soggetto, non formalmente investito della carica, si ingerisca nell’amministrazione, esercitando (di fatto) i poteri inerenti alla gestione della società. In particolare, costituiscono requisiti per l’integrazione di tale figura da parte dei soggetti che non rivestono formalmente il ruolo di amministratori (cc.dd. amministratori di diritto): (i) l’assenza di una valida ed efficace investitura assembleare; (ii) l’esercizio significativo e continuativo dei poteri tipici riservati agli amministratori; (iv) l’autonomia decisionale; (v) l’accettazione della prestazione resa dall’amministratore di fatto da parte della società, cioè dell’amministratore di diritto.
La responsabilità sociale degli amministratori di diritto verso la società amministrata è responsabilità contrattuale da inadempimento; la responsabilità degli amministratori di fatto va qualificata, invece, come da contatto sociale qualificato. Da un lato, infatti, il contatto sociale qualificato idoneo a costituire ex art 1173 c.c. fonte di obbligazioni opera anche in ambito societario. Dall’altro lato, nella figura dell’amministratore di fatto si rinvengono tutti gli elementi della fattispecie di contatto sociale qualificato o relazione privilegiata generativa di obbligazioni, ossia: (i) l’assenza del contratto (nomina ed accettazione o loro invalidità); (ii) l’esecuzione in via di fatto di atti gestori in favore della società – imputati alla società (artt. 2384, 2475, co. 2, c.c.) – propri dell’amministratore; (iii) l’accettazione di tale situazione di fatto, cioè della prestazione, da parte della società, ovvero dell’amministratore di diritto.
In tema di accertamenti tributari, il processo verbale di constatazione assume un valore probatorio diverso a seconda della natura dei fatti da esso attestati, potendosi distinguere al riguardo un triplice livello di attendibilità: a) il verbale è assistito da fede privilegiata, ai sensi dell’art. 2700 c.c., relativamente ai fatti attestati dal pubblico ufficiale come da lui compiuti o avvenuti in sua presenza o che abbia potuto conoscere senza alcun margine di apprezzamento o di percezione sensoriale, nonché quanto alla provenienza del documento dallo stesso pubblico ufficiale ed alle dichiarazioni a lui rese; b) quanto alla veridicità sostanziale delle dichiarazioni a lui rese dalle parti o da terzi — e dunque anche del contenuto di documenti formati dalla stessa parte e/o da terzi — esso fa fede fino a prova contraria, che può essere fornita qualora la specifica indicazione delle fonti di conoscenza consenta al giudice e alle parti l’eventuale controllo e valutazione del contenuto delle dichiarazioni; c) in mancanza dell’indicazione specifica dei soggetti le cui dichiarazioni vengono riportate nel verbale, esso costituisce comunque elemento di prova, che il giudice deve in ogni caso valutare, in concorso con gli altri elementi, potendo essere disatteso solo in caso di sua motivata intrinseca inattendibilità o di contrasto con altri elementi acquisiti nel giudizio, attesa la certezza, fino a querela di falso, che quei documenti sono comunque stati esaminati dall’agente verificatore.
Ove la transazione stipulata tra il creditore e uno dei condebitori solidali abbia avuto ad oggetto solo la quota del condebitore che l’ha stipulata, il residuo debito gravante sugli altri debitori in solido si riduce in misura corrispondente all’importo pagato dal condebitore che ha transatto solo se costui ha versato una somma pari o superiore alla sua quota ideale di debito; se, invece, il pagamento è stato inferiore alla quota che faceva idealmente capo al condebitore che ha raggiunto l’accordo transattivo, il debito residuo gravante sugli altri coobbligati deve essere ridotto in misura pari alla quota di chi ha transatto.