Art. 1711 c.c.
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Il rapporto tra SGR e partecipanti del fondo comune di investimento; in particolare, la revoca della SGR
La sostituzione della SGR nella gestione di un fondo comune di investimento è un fenomeno assimilabile al mutamento delle persone degli amministratori; i partecipanti al fondo – nel deliberare la revoca del gestore e l’esercizio dell’azione di responsabilità nei confronti di questi – assumono una posizione analoga a quella dei soci di società di capitali. Ne discende che la volontà di revoca espressa in sede assembleare non può che essere imputata al fondo medesimo, il quale – sotto il profilo della responsabilità e nella sua autonomia patrimoniale “bilaterale” perfetta ex art. 36, co. 4, t.u.f., ovvero sia rispetto al patrimonio del gestore, sia rispetto a quello dei partecipanti – può senz’altro legittimamente costituire un centro di imputazione di posizioni giuridiche soggettive attive e passive.
Deve escludersi che il rapporto intercorrente tra la società di gestione e i partecipanti al fondo sia propriamente riconducibile alle figure del mandato e della rappresentanza. Infatti, la volontà del mandante e quella del rappresentato sono rilevanti per il mandatario (art. 1711 c.c.) e per il rappresentante (art. 1388 c.c.), mentre la SGR è indipendente dai partecipanti al fondo. Inoltre, sia nel mandato, sia nella rappresentanza, la legittimazione sostanziale a disporre attribuita al gestore non sostituisce, ma si aggiunge a quella del dominus, che, pur con le dovute cautele, può continuare a compiere atti di disposizione del diritto (artt. 1716, co. 2, e 1729 c.c.). Il potere di disposizione non spetta invece ai partecipanti, ma, ex artt. 1, lett. k), e 36, co. 3, t.u.f., alla sola SGR in via esclusiva.
Né depone in senso contrario l’espressa attribuzione legislativa alla SGR dei doveri e delle responsabilità del mandatario (art. 36, co. 3, t.u.f.): trattasi, infatti, di situazioni giuridiche che non esauriscono il rapporto di mandato. E così la gestione nell’interesse dei partecipanti non è concepibile senza un riferimento unificante, che, come tale, esclude la loro rilevanza uti singuli. Peraltro, se si può ammettere che i partecipanti al fondo possano agire in responsabilità verso la SGR, l’oggetto di tale azione è la mala gestio del fondo ed il risarcimento è dovuto al fondo e non ai partecipanti agenti, analogamente a quanto accade per le società di capitali ex artt. 2393 bis e 2476, co. 3, c.c. Per quanto riguarda il fondo, non è dubbio che da esso non possano promanare istruzioni di gestione, sicché è escluso che la SGR possa esser soggetta ad esse, pur essendo le scelte di investimento del gestore limitate dal regolamento, rimanendone così esclusa la assimilabilità al mandato fiduciario. Il rapporto tra SGR e fondo è dunque specialmente regolato dalla legge e sono proprio la perfetta autonomia patrimoniale che lo caratterizza ex lege ed il potere gestorio altrettanto stabilito ex lege in capo alla SGR, con la mediazione del regolamento, che ben giustificano l’affermazione di una imputazione diretta in capo al fondo delle posizioni giuridiche attive e passive che di quella gestione sono il risultato effettuale, senza che uno sdoppiamento della proprietà tra “formale” e “sostanziale” – sostituita alla più tradizionale dicotomia proprietà / gestione – possa particolarmente giovare alla chiarezza e certezza del traffico giuridico.
La legittimazione attiva con riferimento alle azioni con le quali si facciano valere diritti inclusi in un fondo comune di investimento spetta alla SGR e non ai partecipanti.
L’assenza di una disciplina ad hoc prevista per il funzionamento dell’assemblea dei partecipanti al fondo comune di investimento e dei rimedi di impugnazione delle relative delibere (sebbene il suo oggetto sia normativamente limitato alla sola revoca della SGR ed all’esperimento dell’eventuale azione di responsabilità), conduce a individuare l’assetto societario più logicamente ricollegabile al funzionamento e alla struttura di un fondo nelle disposizioni specificamente rivolte alle società per azioni.
Nel diritto societario, le deliberazioni degli organi sociali soggette per legge all’obbligo di motivazione costituiscono un numero limitato (artt. 2391, 2391 bis, 2441, co. 5, 2497 ter c.c.). Accanto alle ipotesi in cui le deliberazioni societarie debbono essere motivate per esplicito dettato normativo, ve ne sono altre che possono essere individuate in via interpretativa. Tra di esse vi sono, sia pure con connotati fra loro parzialmente diversi, le deliberazioni di interruzione del rapporto sociale (artt. 2287, 2473 bis e 2533 c.c.), gestorio (artt. 2259, 2383 e 2409 duodecies c.c.) o sindacale (art. 2400 c.c.), dove la necessità di verificare la sussistenza della giusta causa, o della fattispecie statutaria, impone di motivare la deliberazione al momento in cui essa viene assunta. A tale riguardo, se è vero che il legislatore ha previsto un potere di recesso ex lege in capo alla società, tanto che la giusta causa non si pone come requisito di efficacia dell’atto, la condizione della sussistenza di ragioni integranti la medesima è, tuttavia, da verificare per impedire la nascita del diritto al risarcimento del danno.
Le ragioni di revoca, che devono presentare i caratteri di effettività ed essere riportate in modo adeguatamente specifico, debbono essere enunciate espressamente nella deliberazione e non restare meramente implicite; la deduzione in sede giudiziaria di ragioni ulteriori non è ammessa, restando esse ormai quelle indicate nella deliberazione.
Qualora, nel corso del processo in cui è controverso un diritto attinente a un fondo comune di investimento, si trasferiscano da una società di gestione all’altra – ai sensi dell’art. 36, co. 1, t.u.f. – i rapporti di gestione relativi al fondo, il processo prosegue tra le parti originarie. Conseguentemente, ai sensi dell’art. 111, co. 3 e 4, c.p.c., la società di gestione subentrata nella gestione può intervenire o essere chiamata nel processo e la società alienante può esserne estromessa. In ogni caso, la sentenza pronunciata nei confronti delle parti originarie spiega i suoi effetti anche nei confronti della società di gestione subentrata.
Sui requisiti per la concessione del sequestro conservativo e sui limiti del mandato a costituire una società di persone
La concessione del sequestro conservativo, misura cautelare di carattere patrimoniale finalizzata a tutelare la fruttuosità dell’eventuale espropriazione forzata, è subordinata alla sussistenza, accertata sulla base di un’indagine meramente sommaria, del fumus boni iuris, vale a dire di una situazione che consenta di ritenere probabile la fondatezza della pretesa creditoria, e del periculum in mora, cioè del fondato timore di perdita della garanzia del credito vantato. Tuttavia, quanto al primo dei suddetti requisiti, il credito in relazione al quale viene domandato il sequestro, anche se non liquido o esigibile deve ad ogni modo essere attuale, ossia non meramente ipotetico od eventuale. Né si può sostenere, in ragione della sommarietà della delibazione, che non si possa e non si debba tener conto dell’andamento della causa di merito sottostante cui è necessariamente correlata la tutela.
Il mandato a costituire una società di persone con intestazione fiduciaria ad alcune persone a vario titolo coinvolte nella società ‘madre’ sconta il limite di cui all’art. 2479 c.c. Infatti, deve ritenersi riservata alla competenza dei soci la decisione di compiere operazioni che comportano una sostanziale modificazione dell’oggetto sociale determinato nell’atto costitutivo o una rilevante modificazione dei diritti dei soci.
Il negozio concluso dal falsus procurator, o da chi abbia sorpassato i limiti delle facoltà conferitegli dal dominus, integra una fattispecie soggettivamente complessa a formazione successiva, la quale si perfeziona con la ratifica del dominus. Inteso come negozio in itinere o in stato di pendenza, ma suscettibile di essere perfezionato in un secondo tempo, mediante la ratifica dello pseudo rappresentato, un tale negozio non è nullo e neppure annullabile, dal momento che ciò che è nullo è privo di ogni potenzialità di perfezionamento, mentre il negozio annullabile spiega i suoi effetti sin dall’inizio e li mantiene finché non intervenga l’eventuale pronuncia di annullamento, che valga a rimuovere quegli effetti. Il negozio posto in essere da chi sia privo del potere rappresentativo è un negozio perfetto, ma privo di efficacia. Peraltro, tale inefficacia (temporanea) del contratto, proprio perché non si verte in ipotesi di nullità, non è rilevabile d’ufficio, ma soltanto su eccezione di parte, mentre legittimato a sollevare tale eccezione, cioè a dolersi dell’operato di colui che abbia stipulato il contratto come rappresentante senza averne i poteri, è unicamente lo pseudo rappresentato, non anche l’altro contraente, al quale compete eventualmente solo il risarcimento del danno per avere confidato senza colpa sulla efficacia del contratto.
Preteso inadempimento di contratto di distribuzione cinematografica
La tolleranza delle parti rispetto a un inadempimento porta a qualificarlo come non grave e, quindi, non idoneo a determinare la risoluzione del contratto.