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Art. 2437 sexies c.c.
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29 Maggio 2023

Principi in materia di diritto di prelazione e tutela cautelare

La prelazione deve sostanziarsi nella accettazione delle stesse condizioni (modalità, prezzo) offerte dal terzo acquirente al socio alienante, il che implica la fungibilità della controprestazione (prelazione c.d. propria); se questa, invece, è infungibile, il diritto di preferenza si configura in termini affatto diversi (c.d. prelazione impropria), non giustificandosi con l’accettazione delle stesse condizioni proposte dal terzo, ma con l’offerta di condizioni differenti, che i soci, approvando lo statuto, hanno ritenuto satisfattive.

La prelazione, intesa come mero obbligo di preferire un contraente piuttosto che un altro, può essere solo quella propria: l’infungibilità del corrispettivo dell’alienazione è, in sé stessa, ostativa all’ammissibilità dell’esercizio del diritto di prelazione, giacché rende impossibile il rispetto della parità di condizioni che ne costituisce il sostrato causale. Infatti, la prelazione di per sé è solo un obbligo di preferire a parità di condizioni. Per stabilire, invece, una facoltà di acquisto ad un prezzo dato, invece del trasferimento a terzi, è necessario che sia previsto nello statuto qualcosa in più, in realtà di diverso, della semplice prelazione.

La c.d. denuntiatio può avere natura di proposta o promessa contrattuale (rispetto alla quale la dichiarazione del prelazionario si configura come accettazione), oppure di invito ad offrire. Con riguardo alla prelazione convenzionale, a seconda di come è configurato il diritto, è possibile che la denuntiatio costituisca un mero avviso della disponibilità di un terzo a contrattare alle condizioni comunicate. Se configurata in tal modo dall’accordo delle parti, se ne dovrebbe dedurre non solo che, con l’esercizio della prelazione, il contratto non è ancora stipulato, ma addirittura che la denuntiatio neppure obbliga il denunciante a contrarre – tanto meno nei casi in cui il diritto di prelazione è riconosciuto a più soggetti –, né attribuisce al beneficiario un diritto alla conclusione del contratto, ma solo ad essere preferito ad altro contraente se ed in quanto un contratto abbia luogo.

La clausola di prelazione, se inserita (solo) in un patto parasociale, non è opponibile alla società né al terzo acquirente; talché la cessione eventualmente avvenuta in sua violazione non può impedire all’acquirente di chiedere, e alla società di effettuare, la registrazione del trasferimento, mentre il diritto di prelazione – spendibile solo nei confronti del socio che ha alienato, non del terzo acquirente estraneo a quel patto – non consente al titolare dello stesso di ottenere il retratto della quota, ma solo il risarcimento del danno dal socio inadempiente. Se invece la clausola è inserita nello statuto, essa è opponibile anche al terzo acquirente e alla società, perché la sua espressione statutaria la rende parte integrante dell’ordinamento societario nel quale il terzo intende fare ingresso; e ciò vale tanto più, ovviamente, se l’acquirente è già socio. In tale ipotesi, sarà proprio la cessione delle azioni, avvenuta in violazione della clausola, a risultare inopponibile alla società, la quale non dovrà registrare il trasferimento, che resterà invece valido solo tra alienante ed acquirente; l’inefficacia relativa del trasferimento, inidoneo ad incidere sull’assetto societario, rappresenta ed esaurisce la tutela degli altri soci, i quali non hanno perciò (di nuovo) alcun diritto di retratto sulla quota ceduta. Se poi l’organo amministrativo procedesse alla registrazione, pur in presenza di una violazione della clausola e della contestazione da parte di altri soci titolari del diritto di prelazione, si esporrebbe ad una responsabilità personale nei confronti di questi ultimi.

20 Ottobre 2022

Legittimità della clausola che impone al dipendente di retrocedere la partecipazione detenuta nella controllante al termine del rapporto di lavoro

La condizione si dice meramente potestativa, con conseguente sanzione di nullità ai sensi dell’art. 1355 c.c., quando l’efficacia del negozio è collegata non già ad una ponderata valutazione di seri od apprezzabili motivi e delinei un’alternativa capace di soddisfare anche l’interesse del soggetto obbligato – sicché l’evento dedotto dipende anche dal concorso di fattori estrinseci che possono influire sulla determinazione della volontà pur se la relativa valutazione è attribuita all’esclusivo apprezzamento dell’interessato – ma è viceversa rimessa al suo mero arbitrio, così da presentarsi come effettiva negazione di ogni vincolo obbligatorio.

Il giudizio di meritevolezza risulta ancorato al presupposto dell’atipicità contrattuale. In particolare, del contratto atipico deve essere individuata la causa concreta, la quale definisce lo scopo pratico del negozio, vale a dire la sintesi degli interessi che lo stesso è concretamente diretto a realizzare, quale funzione individuale della singola e specifica negoziazione, al di là del modello astratto utilizzato. La meritevolezza di cui all’art. 1322, co. 2, c.c. non si esaurisce nella liceità del contratto, del suo oggetto o della sua causa, dovendosi piuttosto procedere all’analisi dell’interesse concretamente perseguito dalle parti nel caso di specie, cioè della ragione pratica dell’affare, dovendosi valutare l’utilità del contratto, intesa come la sua idoneità ad espletare una funzione commisurata sugli interessi concretamente perseguiti dalle parti attraverso quel rapporto contrattuale.

Il giudizio di meritevolezza costituisce una peculiare valutazione concernente non tanto il contratto in sé, quanto piuttosto il risultato che, mediante quel particolare schema contrattuale, viene perseguito dalle parti nell’orbita della dimensione funzionale dell’atto, assurgendo esso giudizio a necessario controllo di conformità dell’atto stesso al sistema giuridico vigente e ai suoi valori costituzionali, da svolgersi alla stregua del parametro dei superiori valori costituzionali previsti a garanzia degli specifici interessi perseguiti attesa l’interazione, sulle previgenti norme codicistiche, delle superiori e successive norme di rango costituzionale e sovranazionale comunque applicabili quali principi informatori o fondanti dell’ordinamento stesso. In particolare, il contratto o la singola clausola pattizia dovranno dirsi immeritevoli allorquando appaiano contrari alla coscienza civile, all’economia, al buon costume o all’ordine pubblico e laddove il risultato che il patto atipico intenda perseguire sia in contrasto con i principi di solidarietà, parità e non prevaricazione che il nostro ordinamento pone a fondamento dei rapporti privati.

La disposizione di cui all’art. 1322 c.c. non può trovare applicazione con riferimento a contratti tipici, riguardando il giudizio sulla meritevolezza unicamente fattispecie negoziali atipiche.

Il riscatto convenzionale costituisce un patto accessorio ad un’alienazione che, in forza del medesimo, risulta conclusa sotto condizione risolutiva potestativa consistente nella manifestazione di volontà del venditore, assunta come fatto condizionante, dalla quale dipende il venire meno dell’efficacia reale della cessione. Dalla previsione di una clausola di riscatto deriva il diritto potestativo del venditore – cui corrisponde una situazione giuridica soggettiva passiva di soggezione del compratore – di risolvere il contratto entro un tempo determinato, così automaticamente riacquistando la proprietà del bene contro restituzione del prezzo e rimborso delle spese. Il legislatore ha disciplinato dettagliatamente gli effetti dell’esercizio del riscatto, prevedendo, agli artt. 1500, co. 1, e 1502 c.c., che il riscattante è tenuto a rimborsare al compratore il prezzo, le spese e ogni altro pagamento legittimamente fatto per la vendita, le spese per le riparazioni necessarie e, nei limiti dell’aumento, quelle che hanno aumentato il valore della cosa, con diritto di ritenzione a favore del compratore fino al rimborso delle spese necessarie e utili. È, poi, previsto, sotto comminatoria di nullità parziale, che il prezzo del riscatto non possa essere superiore al prezzo di vendita (art. 1500, co. 2, c.c.). Ratio della norma e funzione del patto, nella sua declinazione tipica, è di conservare l’originario equilibrio di scambio, avulso da ogni influenza ad esso estranea – se non, del tutto coerentemente, per il dovuto rimborso delle spese di cui all’art. 1502 c.c. –, risolvendosi ogni disciplina diversa in un accordo che non è riconducibile al tipo contrattuale di cui si discorre.

22 Giugno 2022

Il rapporto tra la valutazione delle partecipazioni ai fini della determinazione del valore di liquidazione nel recesso e del rapporto di cambio nella fusione

L’esperto nominato ai sensi degli artt. 2437 ter e 2473 c.c. deve determinare il valore delle partecipazioni, ai fini del recesso, secondo equo apprezzamento. Tale determinazione è sottoposta al regime dell’art. 1349, co. 1, c.c. e può quindi essere impugnata soltanto per manifesta iniquità o erroneità. L’erroneità della perizia consiste in un ragionamento caratterizzato da contraddittorietà tra premesse e conclusioni, fondato su dati di fatto manifestamente errati o inficiato da errori di calcolo evidenti. La manifesta iniquità, invece, consiste in un’obiettiva sproporzione tra prestazioni, tale da ingenerare una lesione ultra dimidium, secondo il canone ricavabile dall’art. 1448 c.c. Per essere manifeste, iniquità ed erroneità devono essere desumibili direttamente dall’esame della determinazione del terzo e non da elementi estrinseci e devono tradursi in una rilevante sperequazione tra le prestazioni contrattuali contrapposte, come determinate attraverso l’attività dell’arbitratore o, in termini equivalenti, in un risultato concretamente ben distante, a livello sia quantitativo che qualitativo, da quello reputato corretto. Benché la stima dell’esperto debba farsi avuto riguardo ai criteri previsti dalla disciplina di settore, anziché in base alla semplice equità mercantile e a nozioni di comune esperienza, la discrezionalità resta comunque elevata, poiché esistono diverse metodologie di valutazione delle imprese, le quali di norma restituiscono valori anche apprezzabilmente differenti. Ne consegue che la motivata scelta, da parte dell’esperto, di un metodo di valutazione a preferenza di un altro integra un semplice dissenso tecnico, che non può ritenersi indice di manifesta iniquità o erroneità della determinazione e non è quindi sufficiente ad attivare il potere del giudice di determinare il valore della partecipazione in sostituzione dell’esperto.

Nella fusione la fissazione del concambio richiede una valutazione patrimoniale e reddituale delle entità che partecipano all’operazione, secondo uno o più metodi di valutazione adeguati ad esprimere il peso economico relativo delle medesime. Dal momento che nessun metodo può avere il privilegio della piena attendibilità, la legge non richiede l’assoluta esattezza matematica del concambio, così come non pretende di fissare criteri inderogabili cui attenersi nella stima, ma soltanto l’adeguatezza dei criteri adoperati, limitandosi a prescrivere la congruità del concambio, cioè che sia fissato all’interno di una ragionevole banda di oscillazione. Pertanto, la nozione di congruità finisce per ammettere una pluralità di concambi, i quali, entro il menzionato accettabile arco di oscillazione, sono tutti soddisfacenti dal punto di vista del legislatore. Se più concambi sono egualmente legittimi, perché compresi in un ragionevole intervallo di valori, la scelta del concambio effettivo cessa di essere questione esclusivamente tecnico-valutativa e diventa materia di possibile negoziato tra gli amministratori delle società, sul quale incidono le prospettive strategiche dell’integrazione tra le imprese e altre considerazioni di mercato nonché la forza contrattuale delle società e la presenza di vincoli giuridici o di fatto, che riducano l’autonomia negoziale di una di esse e siano in grado di spostare gli equilibri economico-patrimoniali rispetto a una media teorica dei valori.

Il valore determinato ai fini del concambio di fusione può in generale ritenersi un indice affidabile del valore delle azioni anche ai fini della liquidazione in caso di recesso. In primo luogo, perché tale dato presenta un’elevata attendibilità. Inoltre, perché l’art. 2437 ter c.c. richiede di considerare, oltre alla consistenza patrimoniale e alle prospettive reddituali della società, anche l’eventuale valore di mercato delle azioni. La fusione non è un contratto di scambio né l’assegnazione di partecipazioni in concambio può in alcun modo essere definita un prezzo del consenso alla fusione, ma non si può dubitare che anche il concambio possa essere oggetto di negoziato e riflettere il valore di mercato delle azioni. Di contro, il valore considerato ai fini del concambio potrebbe risultare non attendibile o comunque inutilizzabile ai fini della determinazione del valore della partecipazione in caso di recesso se incompatibile con i criteri normativi o statutari previsti per la liquidazione del socio e, più ancora, se il valore del capitale economico delle società partecipanti alla fusione venga elaborato in prospettiva sinergica, considerando i benefici attesi dalla fusione e dal processo di integrazione tra le imprese o, in altri termini, valutando la società risultante dalla fusione e non quelle che vi partecipano: valutazione, quest’ultima, evidentemente incompatibile con l’art. 2437 ter c.c., il quale richiede di considerare valore e prospettive reddituali esclusivamente della società ante-fusione, coerentemente con la scelta di disinvestimento compiuta dal socio e il rifiuto di prendere parte all’entità risultante dalla fusione.

[Nel caso di specie, il valore delle azioni ai fini del concambio era stato determinato in ottica stand alone, cioè sulla base del valore della società in assoluto e quindi è stata esclusa l’esistenza di una diversità metodologica o di contenuto che ostacolasse l’utilizzo di tale valore anche ai fini della determinazione del valore di liquidazione spettante ai soci receduti].

Riscatto e termini di decadenza

L’art. 2437-sexies c.c. si limita ad operare un rinvio alla disciplina di cui agli artt. 2437-ter e 2437 quater c.c. relativi alla determinazione del valore delle azioni e all’iter di liquidazione, restando, invece, escluso il richiamo, operato a sua volta in via indiretta, dall’art. 2437-ter comma 6 c.c. ai relativi termini di decadenza ex art. 2437-bis comma 1 c.c. sia per l’esercizio del diritto di recesso, sia per la contestazione della valorizzazione delle azioni.

Tale esclusione risponde alla differente prospettiva della società a fronte dell’esercizio del recesso da parte di un socio e di quella della società a fronte dell’esercizio da parte di se stessa del riscatto delle azioni. Nel primo caso, infatti, vi è una chiara posizione di soggezione della società rispetto all’esercizio del diritto potestativo del socio e correlativamente un’esigenza di celerità e di rapida stabilizzazione degli assetti societari. Nel secondo caso, invece, la società ha tutto l’agio di decidere i tempi del riscatto.