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Clara De Chirico

Clara De Chirico

Dottoranda

Laureata in Giurisprudenza presso l'Università di Trento, con tesi in diritto commerciale in materia di remunerazione gestoria nelle S.p.A. Attualmente svolgo un dottorato in cotutela di tesi presso l'Università di Macerata e l'Università di Ottawa, Canada. La mia ricerca mira a rafforzare la tutela giuridica delle comunità locali soggette a impatti negativi dall'operato delle grandi imprese.

29 Agosto 2023

Prova del diritto al compenso dell’amministratore e delibera di approvazione del bilancio

Con riferimento alla determinazione della misura del compenso degli amministratori di società di capitali qualora non sia stabilita nello statuto, è necessaria una esplicita delibera assembleare, che non può considerarsi implicita in quella di approvazione del bilancio, attesa: la natura imperativa e inderogabile della previsione normativa, discendente dall'essere la disciplina del funzionamento delle società dettata, anche, nell'interesse pubblico al regolare svolgimento dell'attività economica, oltre che dalla previsione come delitto della percezione di compensi non previamente deliberati dall'assemblea (art. 2630, co. 2 c.c., abrogato dall'art. 1 del d.lgs. n. 61 del 2002); la distinta previsione delle delibera di approvazione del bilancio e di quella di determinazione dei compensi (art. 2364, n. 1 e 3 c.c.); la mancata liberazione degli amministratori dalla responsabilità di gestione, nel caso di approvazione del bilancio (art. 2434 c.c.); il diretto contrasto delle delibere tacite ed implicite con le regole di formazione della volontà della società (art. 2393, co. 2 c.c.). Conseguentemente, l'approvazione del bilancio contenente la posta relativa ai compensi degli amministratori non è idonea a configurare la specifica delibera richiesta dall'art. 2389 c.c., salvo che un'assemblea convocata solo per l'approvazione del bilancio, essendo totalitaria, non abbia espressamente discusso e approvato la proposta di determinazione dei compensi degli amministratori. [ Continua ]
14 Aprile 2023

Prova dell’esistenza di una società di fatto. Responsabilità dell’acquirente per i debiti dell’azienda ceduta

La società di fatto è una società avente tutti i requisiti previsti dall’art. 2247 c.c., senza che i partecipanti all’esercizio in comune dell’attività economica esprimano necessariamente una volizione, tesa all’adozione delle regole organizzative tipiche del fenomeno societario. Sotto il profilo sostanziale, la prova dell’esistenza di una società di fatto deve passare attraverso la dimostrazione della sussistenza, in concreto, di tre elementi fondamentali: il fondo comune, la partecipazione comune dei soci di fatto agli utili e alle perdite dell’attività e, in un’ottica prettamente soggettiva, l’affectio societatis. Sotto il profilo processuale, nell’ambito del giudizio di merito l’esistenza di una società di fatto vada provata, in difetto di un contratto scritto, attraverso il ricorso a qualunque mezzo probatorio contemplato dall’ordinamento giuridico, ivi comprese le presunzioni semplici di cui all’art. 2729 c.c., purché l’accertamento dei tre requisiti sostanziali su cui si fonda la società di fatto avvenga in maniera rigorosa. Costituisce trasferimento d’azienda ai sensi dell’art. 2112 c.c. qualsiasi operazione che comporti il mutamento della titolarità di un’attività economica qualora l’entità oggetto del trasferimento conservi, successivamente allo stesso, la propria identità, da accertarsi in base al complesso delle circostanze di fatto che caratterizzano la specifica operazione (tra cui il tipo d’impresa, la cessione o meno degli elementi materiali, la riassunzione o meno del personale, il trasferimento della clientela, il grado di analogia tra le attività esercitate). L’art. 2112, co. 2, c.c., che prevede la solidarietà tra cedente e cessionario per i crediti vantati dal lavoratore al momento del trasferimento d’azienda a prescindere dalla conoscenza o conoscibilità degli stessi da parte del cessionario, presuppone la vigenza del rapporto di lavoro al momento del trasferimento d’azienda, con la conseguenza che non è applicabile ai crediti relativi ai rapporti di lavoro esauritisi o non ancora costituitosi a tale momento, salva in ogni caso l’applicabilità dell’art. 2560 c.c., che contempla in generale la responsabilità dell’acquirente per i debiti dell’azienda ceduta, ove risultino dai libri contabili obbligatori. L’iscrizione nei libri contabili obbligatori dell’azienda è un elemento costitutivo essenziale della responsabilità dell’acquirente dell’azienda per i debiti ad essa inerenti. Pertanto, chi voglia far valere i corrispondenti crediti contro l’acquirente dell’azienda ha l’onere di provare, fra gli elementi costitutivi del proprio diritto, anche detta iscrizione, e il giudice, se non può effettuare d’ufficio l’indagine sull’esistenza o meno dell’iscrizione medesima, ben può d’ufficio rilevare che quest’ultima, quale elemento essenziale della responsabilità del convenuto, non sia stata provata. [ Continua ]

Valore soggettivo della clausola di prelazione

In linea generale, non può dirsi che la clausola di prelazione abbia di per sé la funzione di evitare ai soci non cedenti di vedere entrare soggetti non graditi nella compagine, potendo questo essere solo un effetto secondario della loro scelta di acquistare. Tuttavia, può accadere che lo statuto sociale valorizzi l’aspetto relativo al soggetto acquirente, precisando che la comunicazione al prelazionario debba contenere il nome dell’acquirente. In tali casi, la menzione del soggetto acquirente “o di società a lui riferibile” è indicazione sufficiente e sulla quale può formarsi un valido assenso del prelazionario, in quanto la limitata incertezza sul soggetto acquirente è subita allo stesso modo dai promittenti venditori. [ Continua ]

Patto di non concorrenza contenuto in un contratto di cessione di quote

L’art. 2557 c.c., in tema di divieto di concorrenza, trova applicazione analogica nel caso in cui, anziché l’azienda, siano cedute le partecipazioni di controllo di una società che esercita un’impresa commerciale. La concorrenza vietata è quella consistente nell’iniziare una nuova impresa idonea a sviare la clientela dell’azienda ceduta. L’attività concorrenziale del cedente l’azienda non può che essere un’attività d’impresa, anche se esercitata mediante lo schermo di una società o di un prestanome. Non viola il divieto di concorrenza chi svolge attività di lavoro subordinato presso una società per azioni concorrente, in cui, tuttavia, non ricopre incarichi gestori e di cui non possiede una partecipazione al capitale. È nullo, in quanto contrastante con l’ordine pubblico costituzionale (artt. 4 e 35 Cost.), il patto di non concorrenza diretto, non già a limitare l’iniziativa economica privata altrui, ma a precludere in assoluto ad una parte la possibilità di impiegare la propria capacità professionale nel settore economico di riferimento. [ Continua ]
14 Febbraio 2023

Dimissioni della maggioranza dei membri del C.d.A. e principio della prorogatio

Le dimissioni della maggioranza dei membri di un consiglio di amministrazione non ha effetto prima della loro sostituzione ad opera dell’assemblea in base al principio della prorogatio, richiamato dall’art. 2385 c.c. in materia di società per azioni e da ritenersi principio di portata generale applicabile anche alle società a responsabilità limitata. [ Continua ]
14 Febbraio 2023

Arbitrabilità dell’azione di nullità di delibera assembleare per omessa convocazione del socio

Le controversie in materia societaria possono, in linea generale, formare oggetto di compromesso, con esclusione di quelle che hanno ad oggetto interessi della società o che concernono la violazione di norme poste a tutela dell'interesse collettivo dei soci o dei terzi: a tal fine,  l'area della indisponibilità deve ritenersi circoscritta a quegli interessi protetti da norme inderogabili, la cui violazione determina una reazione dell'ordinamento svincolata da qualsiasi iniziativa di parte. Ad es., attengono a diritti indisponibili le controversie relative a delibere assembleari aventi oggetto illecito o impossibile, che danno luogo a nullità rilevabile anche d'ufficio, e quelle prese in assoluta mancanza di informazione. In tale ultimo ambito, tuttavia, non può esser sussunta la mancata convocazione di un socio, idonea, in tesi, a viziare la delibera, ma che, secondo la definizione data, non costituisce un diritto indisponibile, la cui area deve ritenersi circoscritta a quegli interessi protetti da norme inderogabili, la cui violazione determina una reazione dell'ordinamento svincolata da qualsiasi iniziativa di parte. In particolare, deve ritenersi che la controversia riguardante la nullità delle delibere assembleari per omessa convocazione di soci sia compromettibile in arbitri attesa la non coincidenza tra l'ambito delle nullità e l'area più ristretta dell'indisponibilità del diritto, dovendosi ricomprendere in quest'ultima esclusivamente le nullità insanabili, per le sole quali residua il regime dell'assoluta inderogabilità e pertanto dell'indisponibilità e non compromettibilità ad arbitri del relativo diritto. Alla luce di tale impostazione è da ritenersi ammissibile la competenza arbitrale per le controversie aventi ad oggetto, ad es., la nullità dell'assemblea per mancata convocazione del socio, in quanto tale fattispecie è soggetta al regime della sanatoria delle nullità previsto all'art. 2379-bis, co. 1, c.c. (infatti,  il diritto all'informazione del singolo socio in occasione della convocazione di assemblea è oggetto di una previsione posta a garanzia di un interesse individuale del socio stesso e non anche di soggetti terzi e, di conseguenza, da quest'ultimo disponibile e rinunciabile). Allo stesso modo, è da ritenersi  compromettibile in arbitri una controversia avente ad oggetto la nullità dell'assemblea per aver deliberato su temi estranei all'ordine del giorno. [ Continua ]

Onere probatorio nell’azione di responsabilità esercitata dal curatore fallimentare a tutela dei creditori sociali

Quella contenuta all’art. 2476, co. 6, c.c. è disposizione normativa recentemente introdotta dal legislatore al fine di chiarire definitivamente l’esperibilità, in materia di società a responsabilità limitata, dell’azione di responsabilità a tutela dei creditori sociali. La norma, in particolare, configurando un’ipotesi speciale di responsabilità aquiliana, pone, quale criterio di valutazione e di ascrivibilità della responsabilità medesima, la diligenza del comportamento dell'amministratore. Di conseguenza, il curatore che, a norma dell'art. 146, co. 2, l.fall., agisce in giudizio per far valere tale responsabilità è onerato di provare l'inosservanza da parte dell'amministratore degli obblighi inerenti la conservazione del patrimonio sociale, che tali inadempimenti sono dovuti a dolo o colpa e, infine, che hanno provocato l'insufficienza del patrimonio sociale al soddisfacimento dei crediti sociali. [ Continua ]
16 Febbraio 2024

Il danno da violazioni fiscali ha natura indiretta per gli ex soci di società estinta

Non sussiste danno diretto per il socio in conseguenza delle violazioni degli amministratori in materia fiscale qualora l’imposizione di maggiori oneri fiscali per il socio sia conseguenza dell’avvenuta estinzione della società debitrice. In tal caso, l’incidenza della pretesa tributaria sul patrimonio del socio non è la conseguenza diretta della violazione tributaria, bensì di una circostanza estranea - l’estinzione della società -, che ha reso esigibile la pretesa tributaria nei confronti degli ex soci. Questa circostanza non muta la natura del danno, che resta un danno patrimoniale per la società. Ciò è vero, a fortiori, se l’accertamento è stato diretto ai soci in seguito alla cancellazione della società con distribuzione dell’attivo. [ Continua ]
15 Ottobre 2023

Il socio nella governance della s.r.l.

Nelle azioni di responsabilità promosse individualmente dal socio contro gli amministratori di s.r.l. sussiste litisconsorzio necessario con la società medesima, in quanto l’autonoma iniziativa del socio, riconosciuta dall’art. 2476, co. 3, c.c. senza vincolo di connessione con la quota di capitale dallo stesso posseduta, non toglie che si tratta pur sempre di un’azione sociale di responsabilità, rifluendo l’eventuale condanna dell’amministratore unicamente nel patrimonio sociale e potendo solo la società (non il socio) rinunciare all’azione e transigerla. L’art. 2476 c.c. è norma cardine della disciplina della s.r.l., in quanto delinea il complessivo sistema di tutele riconosciute al socio di minoranza in tale compagine, attribuendo, in primo luogo, ai soci che non partecipano all’amministrazione ampi e inderogabili poteri di controllo, assegnando loro un ruolo chiave nei meccanismi di governance. Tale penetrante diritto di controllo sta alla base di tutti gli altri strumenti di tutela a disposizione del socio di s.r.l., in quanto propedeutico alla tutela giurisdizionale volta sia ad accertare la responsabilità degli amministratori, che a ottenere il risarcimento di un danno, sia quello subito dal patrimonio sociale, sia quello direttamente subito dal socio. Il diritto di controllo si esplicita in primo luogo nel diritto di ricevere informazioni e nel diritto di ispezione, che non subiscono alcuna restrizione di natura temporale, sicché ciascun socio che non partecipi all’amministrazione ha diritto di ispezionare tutta la documentazione contabile e amministrativa della società, anche risalente negli anni e anche quella relativa ad esercizi interessati da pregresse gestioni (con l’unico limite del divieto di abuso nel caso di richiesta di informazioni già note, ovvero nel caso di azioni di mero disturbo). In questa prospettiva si spiega altresì la scelta del legislatore di mantenere la legittimazione del singolo socio ad impugnare le delibere assembleari invalide ex art. 2479 ter c.c. All’iniziativa del singolo socio sono lasciati ampi poteri di reazione ai comportamenti illegittimi della maggioranza o degli amministratori e in tale assetto complessivo – che costituisce il nucleo tipizzante la s.r.l. – non trova alcuna giustificazione una interpretazione restrittiva della legittimazione del socio, volta a limitare l’esercizio dell’azione di responsabilità nei soli confronti degli amministratori in carica. La condizione di inesigibilità del credito ex art. 2467 c.c. presuppone che, da una parte, il finanziamento sia stato disposto e, dall’altra, il rimborso sia stato richiesto in presenza di una situazione di eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto, oppure in una situazione finanziaria della società nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento, ossia di una situazione di crisi qualificata, sostanzialmente equiparabile all’insolvenza, la quale unicamente giustifica la considerazione di un concorso virtuale tra i creditori. [ Continua ]

Principi di corretta redazione del bilancio per la rilevazione tempestiva della perdita del capitale sociale

L’art. 2424 c.c. e i principi contabili non consentono di patrimonializzare i costi amministrativi. I costi che concorrono alle immobilizzazioni immateriali, iscrivibili nell’attivo patrimoniale, non devono esaurire la propria utilità nell’esercizio di sostenimento, ma manifestare una capacità di produrre benefici economici futuri. Il presupposto fondamentale della loro iscrizione all’attivo patrimoniale sta nella possibilità di dimostrare la congruenza ed il rapporto causa-effetto tra tali costi e la futura utilità che dagli stessi l’impresa si attende di ottenere. Dunque, la capitalizzazione non è un’automatica conseguenza del fatto che i costi siano stati sostenuti. Il compenso dell’amministratore e del consulente del lavoro non sono ricompresi tra i costi patrimonializzabili. Tali esborsi non rientrano, infatti, né nei costi di impianto o ampliamento (che invece possono comprendere i costi del personale operativo che avvia le nuove attività, i costi di pubblicità sostenuti in tale ambito, i costi di assunzione e di addestramento del nuovo personale, i costi di allacciamento di servizi generali, quelli sostenuti per riadattare uno stabilimento esistente), né nei costi di sviluppo (costi di ricerca o costi per la progettazione, la costruzione e la prova di materiali, progetti, prodotti, processi, sistemi, ecc.) e neppure nei costi di avviamento (costi iniziali di acquisto dell’azienda). Ai sensi dell’art. 2426, co. 1, c.c., possono essere patrimonializzati solo gli oneri relativi al finanziamento della fabbricazione, interna o presso terzi. Gli oneri finanziari costituiscono spese dell’esercizio da imputare a conto economico nell’esercizio in cui maturano e con riferimento al principio di competenza: solo nel caso in cui siano sostenuti per l’acquisto o la costruzione di immobilizzazioni materiali, tali oneri possono essere capitalizzati aumentando il valore delle immobilizzazioni cui si riferiscono. Il principio OIC 16 prevede che la capitalizzazione degli oneri finanziari possa essere effettuata quando riguarda oneri effettivamente sostenuti, oggettivamente determinabili, entro il limite del valore recuperabile del bene. Inoltre, sono capitalizzabili solo gli interessi maturati su beni che richiedono un periodo di costruzione significativo. In mancanza dei requisiti suddetti, gli oneri finanziari non possono accrescere l’attivo patrimoniale e dunque l’amministratore non può fare affidamento su tali oneri (o meglio sulla loro capitalizzazione) per escludere che vi sia stata perdita del capitale sociale. L’art. 2485 c.c. impone all’amministratore di accertare senza indugio il verificarsi delle cause di scioglimento della società, il che significa – per l’accertamento del verificarsi della causa di cui all’art. 2484, co. 1, n. 4, c.c. – che non deve attendersi la chiusura dell’esercizio e la redazione del bilancio. Qualora si verifichino perdite che comportino la riduzione del capitale sociale al di sotto del limite legale, deve essere subito convocata l’assemblea per deliberare l’azzeramento e la ricostituzione del capitale o la trasformazione della società, al fine di impedirne lo scioglimento, sicché la mancanza di sollecitudine nella convocazione dell’assemblea costituisce causa di responsabilità degli amministratori. [ Continua ]