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Diritti e compenso dell’autore della collana all’interno del rapporto di lavoro

Nell'ambito di un rapporto di lavoro (comunque denominato e di qualsiasi natura: subordinato, autonomo, di collaborazione) contenente la commissione delle opere pubblicate, all’autore può – deve – riconoscersi la paternità delle opere, ossia il diritto cd. morale d’autore, mentre i diritti patrimoniali sorgono originariamente (o, secondo altra tesi, sono normalmente e immediatamente trasferiti) in capo al datore di lavoro o al committente, salva la prova di un diverso accordo tra le parti, e all’autore nulla spetta, oltre a quanto già riconosciutogli con il contratto di lavoro. Diversamente, se l’opera è creata fuori da un qualsiasi rapporto di lavoro, il rapporto tra autore ed editore è regolato dal contratto di edizione, e all’autore spetta una percentuale sul prezzo di copertina degli esemplari venduti, o una somma a stralcio. In assenza di un contratto scritto tra le parti, distinto da quello di lavoro, non può ritenersi dimostrata la stipula né di un contratto d'opera, né di un contratto di edizione. Nel caso in cui i volumi oggetto di causa risultino parti di più ampie collane, è a maggior ragione ragionevole escludere che essi possano presumersi il frutto dell’autonoma iniziativa di una autrice freelance anziché l’esecuzione di un progetto editoriale, basato sulla ragionevole previsione della redazione delle opere da pubblicare, poggiante sull’impegno assunto nei confronti della committente, anziché sulla libera iniziativa degli autori. Il compenso per l’opera è quindi da ritenersi già compreso nello stipendio riconosciuto, eventualmente spettando al lavoratore diritti – da fare valere avanti al giudice del lavoro – se fossero state affidate mansioni eccedenti quelle riconducibili alla qualifica attribuita. [ Continua ]
19 Febbraio 2025

Difetto di giurisdizione del giudice italiano sulla domanda cautelare di riattivazione di un profilo Instagram oscurato

Non trova applicazione l’art. 35 del Regolamento (UE) n. 1215/2012 e pertanto non sussiste la giurisdizione italiana c.d. esorbitante in relazione a una domanda cautelare di ripristino o riattivazione di una pagina Instagram proposta nei confronti della società proprietaria della piattaforma con sede in Irlanda, che aveva provveduto a disattivare tale pagina, in un caso in cui la società ricorrente, che non può qualificarsi consumatore, abbia validamente sottoscritto la clausola di deroga della giurisdizione contenuta nelle condizioni d’uso della piattaforma e la misura cautelare non possa o non debba essere eseguita in Italia. Il provvedimento richiesto, infatti, avente ad oggetto un obbligo di fare, non può che essere eseguito dove le scelte vengono adottate e l'autonomia negoziale viene esercitata, ossia presso la sede irlandese della società resistente, mentre non assume rilievo ed è inconferente rispetto all’ordine di ripristino del profilo Instagram ogni riferimento alla localizzazione degli effetti di quest’ultimo. [ Continua ]
19 Febbraio 2025

Tutela cautelare avverso la prosecuzione illegittima dell’utilizzo del marchio dell’affiliante dopo la risoluzione del contratto di affiliazione commerciale

Deve essere inibita, ai sensi dell’art. 131 c.p.i., la condotta della società che si è posta in violazione sia della disposizione negoziale che la obbligava a non utilizzare un marchio figurativo registrato a seguito della risoluzione per inadempimento di un contratto di affiliazione commerciale, sia dell’art. 20 del c.p.i., il quale attribuisce al titolare di un marchio registrato il diritto di vietare a terzi, tra le altre condotte, quella di usare nell’attività economica un segno identico al marchio per prodotto o servizi identici a quelli per cui esso è stato registrato (lett. a). Ricorrono, infatti, tanto il requisito del fumus boni iuris, in quanto l’utilizzo del marchio quando sia revocato il consenso del titolare è privo di un titolo giustificativo, nonché in relazione alla apparente identità dei servizi commercializzati dalla resistente con quelli per cui il marchio è stato registrato, ed esso si presenta dunque idoneo a generare nel pubblico il rischio di confusione, quanto il requisito del periculum in mora, in considerazione dell’attualità del fenomeno contraffattorio, e della potenzialità espansiva del danno, poiché suscettibile di provocare effetti pregiudizievoli nei rapporti economici di mercato non integralmente riparabili per equivalente monetario, oltre che difficilmente quantificabili all’esito del giudizio di merito. [ Continua ]
6 Marzo 2025

Profili di illiceità dell’adozione come denominazione sociale di un segno identico a una ditta e un marchio registrato anteriori

È illecita sotto plurimi profili la condotta consistente nell’utilizzo di una denominazione sociale identica tanto al nome breve di un’associazione attrice precedentemente costituita e operante nello stesso settore imprenditoriale, quanto al marchio denominativo registrato su domanda anteriore. Essa, infatti, viola sia l’art. 2563 c.c. a tutela della ditta dell’imprenditore, sia gli artt. 2569 c.c. e 20 e 22 del c.p.i. a tutela del marchio registrato, sia infine l’art. 2958 n. 1, c.c. in materia di concorrenza sleale confusoria. In mancanza, tuttavia, di allegazione e prova da parte dell’attrice della sussistenza di un qualsiasi pregiudizio risarcibile riconducibile alla adozione, da parte della società convenuta, di una denominazione sociale identica al proprio marchio registrato e alla propria ditta/nome in forma abbreviata, non è possibile addivenire ad una liquidazione equitativa del danno ai sensi dell’art. 1226 c.c. e la relativa domanda dev'essere rigettata. [ Continua ]
6 Marzo 2025

Prova della validità del brevetto per modello di utilità allo stato di domanda per la parte che agisce in contraffazione e nullità del patto di non concorrenza

La parte che agisce in contraffazione sfruttando la protezione provvisoria conferita dalla domanda di brevetto o di registrazione non può invocare a suo favore alcuna presunzione di validità per un brevetto (nella specie, per modello di utilità) che non è stato ancora concesso, ma è necessario che dimostri la sussistenza dei requisiti di brevettabilità della sua invenzione. In tal caso, infatti, non trova applicazione né la presunzione di validità del titolo (non ancora rilasciato), né la regola generale che pone su colui che impugna (anche in via di eccezione) un titolo di proprietà industriale, l’onere di provare la nullità o la decadenza dello stesso (art. 121, comma 1, c.p.i.). Ne discende che incombe sulla ricorrente nel procedimento cautelare ove ha proposto la domanda di inibitoria per contraffazione l’onere di dimostrare la verosimile sussistenza dei presupposti di brevettabilità del modello di utilità di cui rivendica la tutela. In particolare, se con riferimento al requisito della novità estrinseca dell’invenzione non può esserle chiesta la prova di una circostanza negativa, qual è l’insussistenza di anteriorità opponibili distruttive, nondimeno chi agisce in giudizio ha l’onere di dimostrare, quantomeno nei limiti del fumus boni iuris, la sussistenza dell’originalità (o novità intrinseca) del trovato oggetto della domanda di brevetto per modello di utilità azionata. Nel contesto di un contratto di affiliazione, il patto di non concorrenza post-contrattuale è valido, in quanto non restrittivo della concorrenza, soltanto a condizione che (tra le altre) “sia indispensabile per proteggere il «know-how» trasferito dal fornitore all’acquirente” (art. 5, par. 3, lett. c) Reg. UE n. 330/2010) e che “la durata di quest’obbligo di non concorrenza sia limitata ad un periodo di un anno a decorrere dalla scadenza dell’accordo” (lett. d) dello stesso articolo). Qualora l’affiliante non fornisca alcuna valida indicazione su quale sia il patrimonio di conoscenze pratiche non brevettate “segreto”, “sostanziale” ed “individuato” trasferito , e in particolare se esso abbia ad oggetto conoscenze segrete, anziché nozioni tecniche generalmente note nell’ambiente, né se tali conoscenze, ove effettivamente segrete, siano significative e utili per l’attività svolta dall’ex affiliata dopo l’avvenuta risoluzione del contratto, deve presumersi la nullità di un patto di non concorrenza post-contrattuale della durata di due anni successivi alla cessazione dello stesso per qualsiasi motivo, trattandosi di pattuizione restrittiva della concorrenza ai sensi dell’art. 101, par. 1, TFUE e dell’art. 2 L. n. 287/1990. [ Continua ]