Azione sociale di responsabilità per specifiche condotte di mala gestio e in conflitto di interessi: questioni preliminari e di merito.
Non si configura la nullità della comparsa di riassunzione per omesso inserimento dell’invito a comparire di cui all’art. 125, co.1 n.5, disp. att. c.p.c., nonché dell’indicazione delle domande specificamente rivolte dai convenuti nei confronti della terza chiamata, in quanto l’art. 125, disp. att. c.p.c., non fa alcun espresso rinvio all’art. 164 c.p.c., né prevede alcuna specifica sanzione di nullità a fronte della mancanza di qualcuno degli elementi indicati dal medesimo art. 125 disp. att. c.p.c., per cui l’eventuale giudizio di nullità potrebbe conseguire solo nell’ipotesi di inidoneità dell’atto al raggiungimento dello scopo suo proprio. In tal senso, l’atto di riassunzione del processo non dà inizio ad un nuovo procedimento, ma ha solo la funzione di consentire la prosecuzione di quello già pendente, con la conseguenza che, al fine di una corretta valutazione della sua validità, il giudice di merito deve apprezzare l’intero contenuto dell’atto come notificato, onde verificarne la concreta idoneità a consentire la ripresa del processo ed in particolare se contenga tutti gli elementi necessari alla identificazione della causa e delle ragioni della precedente sospensione. Pertanto, venendo in rilievo la pura e semplice “riassunzione” di un procedimento unitario già avviato, non vi è motivo di predicare l’esigenza di una pluralità di iniziative di riassunzione da parte di ciascuno dei soggetti che nella fase precedente la sospensione abbiano svolto domande nei confronti di altri e proprio in tal senso risulta la disciplina positiva che fa sempre ed esclusivamente riferimento ad un unico atto destinato a valere indistintamente nei confronti di tutte le parti in giudizio (dunque anche nei confronti dei terzi chiamati a seguito di riassunzione notificata dall’attore e a prescindere da ogni ulteriore iniziativa dei convenuti chiamanti).
Al di fuori di qualsiasi pretesa di integrazione degli elementi costitutivi della domanda ab origine prospettata ovvero della pretesa risarcitoria in concreto esercitata è ammissibile aggiungere al titolo di responsabilità principale ex artt. 2392-2393 c.c., invocato da principio, anche quello della responsabilità aquiliana al fine di ottenere integrale ristoro del pregiudizio sofferto pure laddove una parte del pregiudizio dovesse ritenersi riconducibile a condotte tenute e/o ad atti compiuti dai convenuti al di fuori dei confini del loro mandato gestorio.
In tema di prova per testimoni, l’amministratore di una società è incapace a testimoniare soltanto nel processo in cui rappresenti la società medesima, non potendo assumere contemporaneamente la posizione di parte e di teste, ovvero se nella causa abbia un interesse attuale e concreto, che potrebbe legittimare la partecipazione al giudizio, e non già meramente ipotetico, quale quello relativo ad una sua eventuale responsabilità verso la società (Cfr. Cass. 14987/12).
Nell’ordinamento processuale vigente manca una norma di chiusura sulla tassatività dei mezzi di prova, sicché il giudice, potendo porre a base del proprio convincimento anche prove cd. atipiche, è legittimato ad avvalersi delle risultanze derivanti dagli atti delle indagini preliminari svolte in sede penale, così come delle dichiarazioni verbalizzate dagli organi di polizia giudiziaria in sede di sommarie informazioni testimoniali (Cfr. Cass. 1593/17).
Il giudice civile può utilizzare come fonte del proprio convincimento le prove raccolte in un giudizio penale, già definito, ancorché con sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione, ponendo a base delle proprie conclusioni gli elementi di fatto già acquisiti con le garanzie di legge in quella sede e sottoponendoli al proprio vaglio critico, mediante il confronto con gli elementi probatori emersi nel giudizio civile; a tal fine, egli non è tenuto a disporre la previa acquisizione degli atti del procedimento penale e ad esaminarne il contenuto, qualora, per la formazione di un razionale convincimento, ritenga sufficiente le risultanze della sola sentenza (Cfr. Cass. 22200/10).
Va rigettata, alla luce della espressa previsione dell’art. 1227, co. 2, c.c., la richiesta risarcitoria volta ad ottenere una somma di danaro pari alle maggiori imposte versate e al minor credito maturato nei confronti dell’erario in relazione delle minori perdite fiscali dichiarate a fronte del “rigonfiamento” del magazzino, quando al momento dell’emersione dell’ammanco di magazzino – dopo l’allontanamento degli amministratori convenuti – gli attuali amministratori in carica sarebbero stati in termini per presentare la dichiarazione per il relativo periodo di imposta e comunque per la presentazione di eventuale dichiarazione integrativa a correzione di precedenti “errori od omissioni che abbiano determinato l’indicazione di un maggior reddito” (ex art. 2 D.P.R. 22.07.98 n.322). In effetti, ove gli amministratori attualmente in carica avessero agito secondo principi di ordinaria diligenza, sarebbero stati pienamente in condizione di onorare gli obblighi fiscali, su di loro indiscutibilmente gravanti, di corretta presentazione della situazione reddituale della società, secondo condotta (nella specie addirittura dovuta ex lege) pienamente idonea ad evitare le conseguenze pregiudizievoli lamentate.
L’accertamento di un preciso interesse proprio degli amministratori nella individuazione dei partners commerciali e quindi nella definizione dei relativi rapporti negoziali fa emergere in maniera inequivocabile la violazione da parte degli stessi dei fondamentali doveri (quali espressamente previsti ex art. 2391, co.1, c.c.) di precisa informazione al resto del CdA di una tale tela di rapporti ed anzi di necessaria astensione dalla conclusione a propria firma dei contratti. Proprio l’inadempimento a tali doveri e dunque più in generale la mancanza in origine di una compiuta illustrazione dell’interesse proprio della società nella definizione dei rapporti negoziali con le parti correlate rendono ancora più pregnanti gli oneri di deduzione e di prova che gravano sugli amministratori convenuti.
E’ astrattamente fondata in diritto la domanda della società attrice volta ad ottenere la restituzione degli emolumenti corrisposti agli amministratori, la quale deve essere ragionevolmente intesa come ulteriore pretesa propriamente “risarcitoria” in relazione a costi (gli emolumenti in oggetto) assunti dalla società per adempimenti (la corretta gestione degli affari sociali) in tesi di parte interamente non assolti ed anzi posti in essere in aperto e doloso contrasto con gli interessi della società, che avrebbe così subito ulteriore ed assolutamente ingiustificato aggravio patrimoniale corrispondente alla totalità degli emolumenti corrisposti agli amministratori infedeli.
Le spese sostenute dalla società attrice per l’accertamento delle responsabilità degli amministratori convenuti, sebbene documentate per quanto attiene ai rapporti con i terzi destinatari delle somme e necessitate dalle gravi infedeltà degli amministratori in questione, risultano tuttavia discutibili per l’entità degli importi concordati e corrisposti, che certamente non possono essere automaticamente riversati sugli amministratori convenuti senza adeguata giustificazione. Si ritiene pertanto legittimo procedere ad una valutazione del dovuto di carattere equitativo (nella specie pari al 25% delle somme indicate dalla società attrice).
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Daniela Russo
Avvocato del Foro di MilanoLaurea in giurisprudenza a pieni voti presso l'Università degli Studi di Parma e abilitazione all'esercizio della professione forense presso la Corte d'Appello di Milano. Tirocinio formativo presso la Sezione...(continua)