Caso UBER: concorrenza sleale per violazione di norme imperative in materia di trasporto pubblico non di linea
Il rapporto di concorrenza richiede la sussistenza di una “comunanza di clientela”, da accertarsi anche in via potenziale. In particolare, il rapporto di concorrenza tra due o più imprenditori derivante dal contemporaneo esercizio di una medesima attività industriale o commerciale in un ambito territoriale anche solo potenzialmente comune comporta che la comunanza di clientela non è data dalla identità soggettiva dei clienti, bensì dall’insieme dei consumatori che sentono il medesimo bisogno di mercato e, pertanto, si rivolgono a tutti i prodotti, uguali ovvero affini o succedanei a quelli posti in commercio dall’imprenditore che lamenta la concorrenza sleale, che sono in grado di soddisfare quel bisogno.
Quando il mercato ha regole eterodeterminate che impongono limiti all’attività d’impresa, il mancato rispetto di tali regole da parte di alcuni di alcuni operatori (non importa se convinti o meno di essere vincolati alle stesse) integra una condotta contraria alla legge; ove poi il mancato rispetto di dette regole determini una posizione di vantaggio sul mercato con correlativo pregiudizio dei concorrenti, tale comportamento incide sulla dinamica concorrenziale e diviene quindi anche concorrenzialmente illegittimo in quanto contrario ai principi della correttezza professionale che permeano l’intero sistema e che sono espressamente richiamati dall’art. 2598 n. 3 c.c.. Seppure è vero che la violazione delle norme pubblicistiche non basta da sola a determinare un comportamento di concorrenza sleale né quest’ultima può essere individuata semplicemente a fronte della determinazione di una diminuzione dell’avviamento altrui o a fronte dell’applicazione di prezzi inferiori da parte del concorrente per il medesimo servizio, è altrettanto vero che la violazione di norme pubblicistiche può avere un effetto distorsivo sul mercato quando è proprio l’omesso rispetto della normativa vincolante di settore che consente al competitor di realizzare risparmi di costo, di semplificare in maniera sostanziale la propria attività organizzativa e di vigilanza e di proporsi sul mercato con prezzi più bassi.
L’atto di concorrenza sleale di cui all’art. 2598 n. 3 c.c. può essere compiuto anche indirettamente e, alla luce di ciò, deve affermarsi la responsabilità (e, dunque, la legittimazione passiva) della società “madre” per illeciti della controllata ogni qualvolta si sia in presenza di una direzione unitaria, di una unicità dell’entità economica e, dunque, di una consapevolezza della controllante circa le attività delle controllate.
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Carmine Di Benedetto
Dottorando di ricerca in Diritto privato, diritto romano e cultura giuridica europea presso l'Università di Pavia. Laurea in Giurisprudenza (110/110 con lode) presso Università Commerciale Luigi Bocconi, Milano, 2013....(continua)