hai cercato articoli in

Corte d’appello di Milano


115 risultati

Responsabilità dell’amministratore, che abbia stipulato un contratto in conflitto d’interessi, per il danno patito dalla società nell’ambito di transazione riguardante tale contratto

Qualora in forza di una transazione la società riceva meno di quanto avrebbe potuto pretendere a titolo di restituzione, l’amministratore che sia responsabile del cattivo esito dell’operazione oggetto della transazione (avendo, nella specie, stipulato un contratto in conflitto d’interessi) risponde a titolo di danno della differenza tra la somma che avrebbe dovuto essere restituita e la somma determinata in sede di transazione.

In particolare, se la responsabilità dell’amministratore deriva dall’aver agito in conflitto di interessi, per essere stato amministratore unico di una società e membro dell’organo amministrativo dell’altra nel momento in cui le due società compivano l’operazione oggetto della transazione, allora non potrà dichiarare di voler profittare ex art. 1304 c.c. della transazione nei confronti della società che ha ricevuto meno di quanto avrebbe potuto ricevere a titolo di restituzione. Infatti, mentre la società che ha effettuato il pagamento transattivo ha adempiuto un’obbligazione di carattere restitutorio, quella gravante sull’amministratore è un’obbligazione risarcitoria. Non c’è, dunque, alcuna solidarietà rilevante ai fini di cui all’art. 1304 c.c. tra la società che paga a titolo transattivo e l’amministratore che ha effettuato l’operazione alla base della transazione. Invece l’obbligazione gravante sull’amministratore sorge proprio a seguito della transazione e il danno si estrinseca nella differenza tra l’ammontare che avrebbe dovuto essere restituito e la somma concordata tra le parti che hanno sottoscritto la transazione.

Approvazione del bilancio tra passività possibili e probabili

Ai fini della redazione del bilancio d’esercizio è necessario distinguere ai sensi dell’art. 2424 bis, comma terzo, c.c. tra le passività incerte, ma valutate solamente come possibili (per le quali non deve essere previsto alcun accantonamento), e le passività incerte, ma valutate come probabili (per le quali deve essere previsto un adeguato accantonamento). Tale valutazione di possibilità e non di probabilità dell’avverarsi di un rischio, da rendere al momento di predisposizione del bilancio, può essere desunta dalla lettura complessiva della nota integrativa, essendo perciò del tutto superflua un’affermazione esplicita in tal senso; ne consegue che una tale mancanza, solo formalistica, non possa minare la chiarezza, la veridicità e la correttezza del bilancio in quanto consente comunque a ciascun soggetto di conoscere l’effettiva situazione patrimoniale e finanziaria della Società e il risultato economico dell’esercizio. La stessa è pertanto inidonea a configurare un vizio suscettibile di determinare la violazione dell’art. 2423, comma 2, c.c. e quindi la nullità della delibera che approva il bilancio medesimo.

Responsabilità da prospetto. Il caso UniPol Assicurazioni

Nelle azioni di risarcimento danni basate sulla falsa rappresentazione in bilancio della situazione dell’emittente, l’investitore deve dimostrare che l’illegittima rappresentazione della situazione patrimoniale ed economica scaturente dal bilancio abbia avuto incidenza determinante nelle proprie scelte di investimento e ciò alla luce anche della valutazione di eventuali segnali di allarme.

 

Se indubbio è il carattere stringente degli obblighi di informazioni finanziarie corrette e adeguate in capo al sottoscrittore del prospetto, incombe pur sempre sul risparmiatore la prova del nesso causale tra le inesatte e fuorvianti informazioni e le conseguenti scelte di investimento, e ciò proprio in forza della sussunzione della responsabilità nell’alveo dell’illecito aquiliano: nesso causale che può essere costruito in termini positivi per l’investitore sulla scorta di dati univoci, anche presuntivi, sia a livello oggettivo, sia a livello soggettivo.

 

Non si può aprioristicamente escludere che un investitore retail sia dotato di conoscenze finanziarie talmente sofisticate da poter competere con analisti finanziari e tanto da poter cogliere anche dati non di primo rilievo nell’esame del prospetto; tali elementi, tuttavia, devono essere adeguatamente esplicitati ad opera di chi agisce per il risarcimento del danno derivante da una supposta falsità di prospetto.

Destinazione degli utili nelle società di persone

Nelle società di persone, i soci hanno il diritto a vedersi attribuire gli utili subordinatamente all’approvazione del rendiconto, salvo patto contrario che deve essere preso all’unanimità dei soci. Tenuto conto della deformalizzazione che contraddistingue le società di persone, per la decisione di non distribuire gli utili non è richiesta una decisione assembleare e la unanime volontà dei soci può essere desunta anche da comportamenti concludenti.

Quantificazione del risarcimento del danno da violazione del diritto d’autore. Il caso Facebook / Fararound

Il risarcimento in favore del danneggiato deve essere determinato includendo sia la perdita subita (danno emergente) sia il mancato guadagno (lucro cessante) e il mancato guadagno deve essere valutato “con equo apprezzamento delle circostanze del caso”, anche tenendo conto degli utili realizzati dall’autore dell’illecito.

La valutazione dell’entità di un mancato guadagno di una parte non può che fondarsi su una previsione in ordine a ciò che sarebbe ragionevolmente potuto accadere, qualora non fosse intervenuto il fatto illecito della controparte, che ha impedito il successivo concretizzarsi dell’attività progettata; nel caso in cui si tratti di valutare il ritorno economico, ragionevolmente prevedibile, derivante dall’attuazione di un progetto innovativo, è pertanto indispensabile assumere come dato di partenza, da sottoporre ad esame, proprio la previsione di ricavo formulata dal soggetto nel momento in cui intraprende l’esecuzione del progetto ipotizzato.

E’ congruo, per la valutazione del mancato guadagno, l’utilizzo di un “income approach”, attraverso il metodo dell’attualizzazione delle royalties presunte con valore terminale a capitalizzazione perpetua. Il metodo reddituale delle c.d. “royalties presunte”, che il titolare di un’app avrebbe richiesto per autorizzare dei terzi allo sfruttamento della stessa (detto anche metodo del “prezzo di  consenso”) è, infatti, particolarmente indicato laddove si voglia arrivare alla determinazione di un valore di scambio della risorsa immateriale; il presumibile valore di mercato di una risorsa  immateriale è, pertanto, stimabile come somma delle royalties presunte (che l’impresa licenziataria pagherebbe, se la risorsa immateriale non fosse di sua proprietà), attualizzate in un orizzonte  temporale tendenzialmente di 3-5 anni, oltre a un terminal value.

Per la determinazione della royalty equitativa è congrua una percentuale del 5% dei ricavi, tenuto conto che anche la Circ. Min. del 22.9.1980, n. 32 (“Prezzo di trasferimento e valore normale nella determinazione dei redditi di imprese assoggettate a controllo estero”), in attuazione dei principi generali, da ultimo rivisti dall’OCSE nel luglio 2010, indica, come canoni congrui, percentuali fino  al 5% del fatturato.

Simulazione di cessione di quote societarie

La legittimazione all’azione di simulazione ex art 1415, comma 2, c.c. si accompagna a un interesse ravvisabile nel diritto di ciascuna parte di far valere la realtà sull’apparenza, quando il negozio dissimulato (nel caso di specie, la donazione di quote societarie) difetti dei requisiti di sostanza e di forma imposti dal legislatore. In particolare, l’interesse a ottenere il ripristino della situazione reale è naturalmente connesso alla posizione della parte contrattuale che voglia far accertare giudizialmente detta situazione e, quindi, far accertare, con l’azione di simulazione, l’inefficacia totale o parziale del contratto e i reali rapporti con la controparte.

Concorrenza sleale e rischio di confusione nell’ambito di una campagna pubblicitaria. Il caso Kiko vs Wycon

Per la sussistenza del pericolo che una campagna pubblicitaria possa creare confusione tra i produttori e i loro rispettivi prodotti, non sono i singoli dettagli (in parte comuni e in parte differenti) delle immagini, bensì l’impressione generale, che le immagini, ed eventualmente le scritte che le accompagnano, suscitano nel pubblico dei consumatori, il quale è portato ad orientare le proprie scelte d’acquisto proprio sulla base dell’apprezzamento e della condivisione dell’immagine generale che un determinato produttore propone della sua azienda; i consumatori, infatti, normalmente, non sono certamente portati ad effettuare un’analisi particolareggiata delle immagini pubblicitarie, ma nella loro mente restano impresse e quindi ricordano piuttosto le atmosfere e i mondi che tali immagini evocano.

Il rifiuto del consorzio di dotarsi di un regolarmento interno non costituisce modifica dell’oggetto sociale

Il rifiuto del consorzio di dotarsi di un regolamento interno (statutariamente previsto) non costituisce modifica dell’oggetto sociale e quindi non dà diritto di recesso alla società partecipante al consorzio stesso, posto che il fatto che il coordinamento delle attività commerciali afferenti al rapporto tra il consorzio e i singoli soci debba essere attuato secondo le modalità previste nell’apposito regolamento non costituisce una caratteristica imprescindibile dell’oggetto sociale.

Codice RG 812 2019

Determinazione del valore della quota di liquidazione e potere decisorio del giudice

Con riguardo al principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato di cui all’art. 112 c.p.c., che può ritenersi violato sia se il giudice ecceda in termini quantitativi il petitum di parte (ultrapetizione) sia se pronunci su qualcosa di diverso da quanto richiesto (extrapetizione), non si configura ultrapetizione nel caso in cui il giudice accerti un minus rispetto alla richiesta di parte, senza mutare il tipo di domanda formulata. (Nel caso di specie, la Corte d’Appello di Milano, rigettando il motivo di impugnazione sollevato dall’appellante e relativo ad una possibile violazione dell’art. 112 c.p.c. dai giudici di primo grado, ha confermato la sentenza impugnata nella parte in cui è stato ritenuto opportuno quantificare il valore di una quota sociale in una misura inferiore a quella richiesta da una delle parti).