Tribunale di Milano
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Uso effettivo del marchio valido ad escludere la decadenza per non uso
Ai sensi dell’art. 2556 c.c., per le imprese soggette a registrazione, nei contratti che hanno per oggetto il trasferimento della proprietà o il godimento dell’azienda è stabilito l’onere della forma scritta ad probationem che, se non opera rispetto ai terzi, certamente opera con riguardo alle parti contraenti. Una cessione incrociata di quote societarie non può valere quale contratto di cessione d’azienda, e ciò a fortiori se non vede come parte il soggetto che si sostiene aver acquisito l’azienda.
Risulta ammissibile la domanda di decadenza per non uso di marchio registrato, proposta dall’attrice in via di reconventio reconventionis, in via subordinata e condizionata al rigetto della domanda principale, prima dello spirare del termine fissato dall’art. 183, comma 5, c.p.c. e in conseguenza della domanda riconvenzionale di condanna al pagamento di una somma per l’illecito utilizzo del marchio.
Per orientamento costante l’uso del marchio che impedisce la decadenza deve essere effettivo, non meramente simbolico e non sporadico e deve riguardare quantitativi di prodotti non irrilevanti. In ragione della funzione distintiva che assolve il marchio e per lo statuto di libera appropriabilità dei segni, è meritevole di tutela solo quel marchio che sia oggetto di reale interesse da parte del titolare e che, dunque, raggiunga nel suo utilizzo una certa soglia di significatività attraverso una presenza reale sul mercato, idonea a radicare un collegamento rispetto al prodotto e una seria presenza concorrenziale presso i consumatori. La valutazione dell’effettività dell’uso del marchio deve basarsi sull’insieme dei fatti e delle circostanze atti a provare che esso è oggetto di uno sfruttamento commerciale reale, sicché occorre a tal fine prendere in considerazione in modo specifico gli usi considerati giustificati, nel settore economico interessato, per mantenere o creare quote di mercato per le merci o i servizi tutelati dal marchio, la natura di tali merci o servizi, le caratteristiche del mercato, l’ampiezza e la frequenza dell’uso del marchio. Secondo la giurisprudenza nazionale, l’uso del marchio idoneo ad impedire la decadenza deve essere tale da avere conseguenze economiche sul mercato, onde si richiede la dimostrazione di un’effettiva distribuzione del prodotto presso il pubblico e di una presenza certa sul mercato capace di incidere sulla sfera dei concorrenti.
L’uso idoneo ad evitare la decadenza del marchio può essere ricondotto anche all’attività di un terzo purché vi sia il consenso del titolare. L’art. 24 c.p.i. richiede soltanto che l’uso del marchio sia consentito e, in tal modo, dà rilevanza a qualunque atto permissivo del titolare che non necessariamente deve coincidere con la concessione in uso propria del contratto di licenza.
Colui che agisce per la declaratoria di decadenza di un marchio, e che ha l’onere di provare il non uso di quel marchio nell’intero territorio nazionale, può assolverlo anche in via indiretta e presuntiva, purché con la prova di circostanze significative e concordanti idonee ad evidenziare tale non uso.
Il semplice invio di una diffida stragiudiziale è qualificabile come atto puramente conservativo e non rappresenta una modalità di esercizio del segno in conformità alla sua funzione tipica che è quella di distinguere sul mercato beni o servizi.
Il mero rinnovo della registrazione del marchio non integra un uso effettivo valido ad escluderne la decadenza se non associato ad un utilizzo effettivo in funzione distintiva.
Nullità degli atti nella procedura di accordo di composizione della crisi da sovraindebitamento
Il controllo di validità degli atti del procedimento degli atti della procedura di accordo e della procedura di liquidazione del patrimonio del sovraindebitato spetta agli organi della procedura ex artt. 26 e 36 l. fall., norme applicabili anche alle procedure di sovraindebitamento in quanto espressioni di un principio di portata generale nell’ambito delle procedure concorsuali dirette da un giudice.
La regola contenuta nell’art. 2929 c.c., secondo cui la nullità degli atti esecutivi che hanno preceduto la vendita e l’assegnazione non ha effetto riguardo all’acquirente o all’assegnatario, non è applicabile alle nullità che riguardino proprio la vendita o l’assegnazione, cioè quando si tratti di vizi che direttamente le concernono ovvero ad esse obbligatoriamente prodromici.
La nullità di una vendita per collusione tra l’aggiudicatario e gli organi della procedura può essere fatta valere mediante l’introduzione di azione autonoma successiva alla collusione nel procedimento esecutivo se il debitore prova di aver avuto conoscenza della collusione dopo la chiusura della procedura esecutiva, dovendo, altrimenti, il vizio essere fatto valere mediante gli strumenti tipici endo-procedimentali di impugnazione degli atti esecutivi o della procedura concorsuale. La collusione tra creditore e aggiudicatario presuppone la consapevolezza della nullità e l’esistenza di un accordo in danno dell’esecutato, intervenuto tra acquirente e creditore.
Nullità degli atti compiuti dagli organi della procedura di liquidazione del patrimonio del sovraindebitato
Il controllo di validità degli atti del procedimento concorsuale spetta agli organi della procedura da sovraindebitamento ex artt. 26 e 36 l.fall., norme applicabili anche alle procedure ex l. 3/2012, esprimendo un principio di portata generale nell’ambito delle procedure concorsuali dirette da un giudice; il controllo è endo-procedimentale e non è ammissibile un controllo/riesame delle medesime questioni in via giudiziale autonoma.
La nullità di una vendita, effetto della collusione tra l’aggiudicatario e gli organi della procedura, può essere fatta valere mediante l’introduzione di azione autonoma successiva alla collusione nel procedimento esecutivo se gli atti di vendita sono esenti da vizi formali e se l’attore prova di aver avuto conoscenza della collusione dopo la chiusura della procedura esecutiva, dovendo, altrimenti, il vizio essere fatto valere mediante gli strumenti tipici endo-procedimentali di impugnazione degli atti esecutivi o della procedura concorsuale. Inoltre, la regola contenuta nell’art. 2929 c.c., secondo cui la nullità degli atti esecutivi che hanno preceduto la vendita e l’assegnazione non ha effetto riguardo all’acquirente o all’assegnatario, non è applicabile alle nullità che riguardino proprio la vendita o l’assegnazione, cioè quando si tratti di vizi che direttamente le concernono ovvero ad esse obbligatoriamente prodromici.
Accordi di puntuazione e responsabilità precontrattuale
L’art. 1362 c.c., sebbene al primo comma prescriva all’interprete di indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti senza limitarsi al senso letterale delle parole, non svaluta l’elemento letterale del contratto, ma, al contrario, intende ribadire che, qualora la lettera della convenzione, per le espressioni usate, riveli con chiarezza e univocità la volontà dei contraenti e non vi sia divergenza tra la lettera e lo spirito della convenzione, una diversa interpretazione non è ammissibile.
Il recesso delle trattative può essere causa di responsabilità precontrattuale quando sia privo di giustificato motivo. Affinché possa ritenersi integrata la responsabilità precontrattuale, è necessario che: tra le parti siano in corso trattative; le trattative siano giunte a uno stadio idoneo a far sorgere nella parte che invoca l’altrui responsabilità il ragionevole affidamento sulla conclusione del contratto; la controparte, cui si addebita la responsabilità, le interrompa senza un giustificato motivo; pur nell’ordinaria diligenza della parte che invoca la responsabilità, non sussistano fatti idonei a escludere il suo ragionevole affidamento nella conclusione del contratto. Dunque, perché le trattative possano considerarsi affidanti è necessario che nel corso di esse le parti abbiano preso in considerazione almeno gli elementi essenziali del contratto, come la natura delle prestazioni o l’entità dei corrispettivi.
La responsabilità precontrattuale derivante dalla violazione della regola di condotta, posta dall’art. 1337 c.c. a tutela del corretto dipanarsi dell’iter formativo del negozio, costituisce una forma di responsabilità extracontrattuale, cui vanno applicate le relative regole in tema di distribuzione dell’onere della prova. Ne consegue che, qualora gli estremi del comportamento illecito siano integrati dal recesso ingiustificato di una parte, non grava su chi recede l’onere della prova che il proprio comportamento corrisponda ai canoni di buona fede e correttezza, ma incombe viceversa sull’altra parte l’onere di dimostrare che il recesso esuli dai limiti della buona fede e correttezza postulati dalla norma de qua.
Notificazione a mezzo del servizio postale e querela di falso
Nella notificazione a mezzo del servizio postale, l’attività legittimamente delegata dall’ufficiale giudiziario all’agente postale, in forza del disposto dell’art. 1 l. n. 890 del 1982, gode della stessa fede privilegiata dell’attività direttamente svolta dall’ufficiale giudiziario. Pertanto, detta relazione di notifica, eseguita dall’agente postale, fa prova fino a querela di falso delle dichiarazioni e dei fatti avvenuti in sua presenza, ivi compresa l’identità del destinatario che lo ha sottoscritto in sua presenza. Pertanto, il destinatario che intenda contestare di aver mai apposto la sua firma sull’avviso ha l’onere di impugnare il documento con la querela di falso.
Boicottaggio e disdetta dal contratto di concessione di vendita
Il fenomeno del boicottaggio consiste in un comportamento contrario ai principi di correttezza professionale di interferenza nelle altrui relazioni commerciali, tramite comportamenti volti all’induzione alla violazione di relazioni commerciali già esistenti o all’impedimento di future relazioni e realizzato attraverso il rifiuto a contrarre (boicottaggio primario), oppure esercitando pressioni su altri imprenditori affinché si astengono da rapporti commerciali con un certo imprenditore, onde estrometterlo dal mercato o ostacolarne l’attività e la permanenza (boicottaggio secondario).
Il contratto di concessione di vendita costituisce un contratto atipico, non inquadrabile tra quelli di scambio con prestazioni periodiche, avente natura di contratto normativo, dal quale deriva per il concessionario/distributore il duplice obbligo di promuovere la formazione di singoli contratti di compravendita e di concludere contratti di puro trasferimento dei prodotti che gli vengono forniti alle condizioni fissate nell’accordo iniziale.
Il concessionario, per adempiere ai propri obblighi contrattuali, è tenuto ad effettuare specifici investimenti, mirati all’allestimento di una rete distributiva rispondente alle peculiari esigenze del concedente, nonché idonea a soddisfare pienamente criteri da questo prefissati. È, dunque, connaturale alla stessa struttura e funzione del contratto, che si atteggia come un contratto quadro o di tipo normativo, una certa soggezione del concessionario all’ingerenza, operata dal concedente, sfera decisionale ed organizzativa dei singoli rivenditori, che, in caso di scioglimento del rapporto, comporta la difficoltà per il concessionario stesso di conservare – come parte del suo patrimonio – gli investimenti fatti per promuovere e provvedere alla vendita degli altrui prodotti, ciò ragionevolmente in ragione della durata del contratto e della misura degli impegni pattuiti.
L’istituto della disdetta e l’istituto del recesso sono due strumenti giuridici contrattuali diversi. Il primo consente alle parti di impedire il rinnovo automatico di un contratto, ed è normalmente previsto con apposite clausole nei contratti a termine, unitamente, di regola, alla previsione di un termine congruo di preavviso. Il secondo, invece, in deroga al principio generale secondo cui “il contratto ha forza di legge tra le parti e non può essere sciolto se non per reciproco consenso tra le parti o per i motivi stabiliti dalla legge” (art. 1372 c.c.), consente alle parti di sottrarsi unilateralmente al vincolo contrattuale, determinandone lo scioglimento: si tratta di una facoltà che opera o nei casi previsti dalla legge o perché previsto espressamente dalle parti, che lo introducono in apposite clausole contrattuali.
Sulla revoca in assenza di giusta causa dell’amministratore
Il rapporto intercorrente tra la società di capitali e il suo amministratore è di immedesimazione organica e a esso non si applicano né l’art. 36 cost., né l’art. 409, co. 1, n. 3, c.p.c. Ne consegue che è legittima la previsione statutaria di gratuità delle relative funzioni. La rinuncia al compenso da parte dell’amministratore può trovare espressione in un comportamento concludente del titolare che riveli in modo univoco una sua volontà dismissiva del relativo diritto. Le norme di cui agli artt. 2383, co. 3, e 1725, co. 2, c.c., riferite al rapporto societario di amministrazione, sono derogabili, sia perché hanno ad oggetto rapporti puramente patrimoniali, sia perché non hanno riflessi né su diritti di terzi né su aspetti concernenti la struttura corporativa dell’ente. Non sussistono, dunque, motivi per ritenere non disponibile per via statutaria la disciplina delle conseguenze della cessazione del rapporto amministrativo per effetto di revoca.
Il diritto al risarcimento dell’amministratore revocato in assenza di giusta causa sorge a seguito di un atto giusto della società amministrata – configurandosi la revoca dell’amministratore quale diritto potestativo, salvo il caso estremo dell’abuso – talché esso è più propriamente qualificabile in termini di diritto a un indennizzo, avendo l’art. 2383, co. 3, c.c. utilizzato il sintagma “risarcimento del danno” per assicurare all’amministratore avente diritto il pieno ristoro del pregiudizio subito piuttosto che per affermarne la derivazione da fatto ingiusto. Sul piano più propriamente organizzativo / corporativo si può riconoscere meritevole di tutela l’interesse della società a estendere al massimo, per via statutaria, il proprio diritto potestativo di revoca, negando accesso, a fronte della decisione di revoca, a valutazioni o pretese di sorta circa il fondamento di quella decisione, nonché alle correlative controversie.
Il pregiudizio ai diritti della persona (onore, reputazione, identità personale, ecc.) subito dall’amministratore revocato in assenza di giusta causa è distinto da quello derivante dalla lesione del diritto alla prosecuzione della carica sino a naturale scadenza. Il danno ulteriore ai diritti della persona si può verificare allorché, ad esempio, eventuali dichiarazioni contenute rese in occasione della revoca costituiscano un’attività ingiuriosa o diffamatoria, animata da colpa o da dolo, posta in essere dalla società, lesiva del prestigio professionale dell’amministratore; oppure quando le concrete modalità della cessazione del rapporto, esterne alla deliberazione, si palesino contra ius. Tuttavia, di tali ulteriori e diversi danni l’amministratore deve offrire puntuale allegazione. Tale puntuale allegazione dovrebbe estrinsecarsi, da un lato, nell’individuazione del diritto leso e, dall’altro, nella chiara e specifica allegazione delle dichiarazioni/deliberazioni o comportamenti lesivi di quei diritti.
Concorrenza sleale: esclusa l’imitazione servile di un prodotto se la sua forma è priva di capacità distintiva
In tema di concorrenza sleale per confusione dei prodotti, l’imitazione rilevante ai sensi dell’art. 2598, n. 1, c.c. non esige la riproduzione di qualsiasi forma del prodotto altrui, ma solo di quella che investe le caratteristiche esteriori dotate di efficacia individualizzante, in quanto idonee, per capacità distintiva, a ricollegare il prodotto ad una determinata impresa, sempreché la ripetizione dei connotati formali non si limiti a quei profili resi necessari dalle caratteristiche funzionali del prodotto.
[Nel caso di specie, il Collegio ha escluso la sussistenza dell’illecito concorrenziale per imitazione servile in quanto ha ritenuto che la forma del prodotto contestato (i.e., un dispositivo elettrico incapsulato di colore giallo) fosse definita esclusivamente dalle sue caratteristiche tecniche e che la colorazione gialla del prodotto non integrasse un elemento distintivo tale da consentire l’individuazione dell’illecito.]
Finanziamenti infragruppo postergati e responsabilità di amministratori e sindaci
Nella situazione in cui la holding, operando già a patrimonio netto negativo e quindi in modo tale da traslare sui propri creditori il rischio delle sue nuove iniziative imprenditoriali, esegue finanziamenti nei confronti di una società controllata operativa a sua volta sull’orlo dell’insolvenza non sono configurabili i cc.dd. vantaggi compensativi che presuppongono l’operatività secondo criteri di economicità di tutte le società del gruppo in modo tale che l’impiego delle risorse a favore di una controllata sia effettivamente compensato nel patrimonio della controllante dal risalire dei proventi dell’attività della controllata operativa in misura tale da assicurare il soddisfacimento anche del suo ceto creditorio. Non valgono, quindi, a configurare vantaggi compensativi per la massa dei creditori della holding che opera a patrimonio netto negativo né la destinazione del finanziamento alla riduzione del passivo della controllata di cui hanno beneficiato solo i suoi creditori, né la liberazione dalle garanzie prestate tramite un’altra società controllata di cui si è avvantaggiata semmai solo la massa dei creditori della controllata garante.
L’art. 2467 c.c. si applica anche ai finanziamenti eseguiti dai soci amministratori di società per azioni.
Impugnativa della delibera e sopravvenuta carenza di interesse ad agire per il fallimento della società
In tema di impugnazione delle deliberazioni assembleari della società, il sopravvenuto fallimento di quest’ultima comporta il venir meno dell’interesse ad agire per ottenere una pronuncia di annullamento dell’atto impugnato, quando l’istante non deduca e argomenti il suo perdurante interesse, avuto riguardo alle utilità attese dopo la chiusura della procedura fallimentare. Pertanto, rispetto alla delibera relativa all’autorizzazione all’azione di responsabilità nei confronti dell’amministratore, il fallimento priva di qualsivoglia interesse il suo annullamento, tenuto conto che sarà il curatore fallimentare, nei modi e nei tempi previsti dalla legge, a valutare nella sua autonomia la sussistenza dei presupposti per agire nei confronti degli ex amministratori, previa autorizzazione del giudice delegato. Per cui alcun beneficio recherebbe l’eventuale pronuncia favorevole alla società attrice, né la sussistenza di una eventuale e astratta possibilità di ritorno della società in bonis può essere sufficiente a radicare in capo all’attrice un interesse concreto e attuale alla emissione di un provvedimento nel merito.