Tribunale di Milano
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Garanzie contrattuali in un contratto di cessione di partecipazioni
La competenza esclusiva in capo alla cessionaria degli utili e delle perdite di un determinato esercizio non esclude l’operatività di una garanzia contrattuale con riferimento al mancato assolvimento di oneri tributari per il medesimo esercizio, non potendosi automaticamente considerare una perdita dell’esercizio il pagamento delle imposte dovute, degli interessi e delle relative sanzioni.
In caso di garanzia della cedente in materia tributaria, deve ritenersi che l’obbligo di indennizzo non sorga con il PVC, ma solo con l’avviso di accertamento ed è pertanto dal ricevimento dell’avviso di accertamento che decorre l’eventuale termine decadenziale previsto contrattualmente.
La dichiarazione di rinuncia ex art. 306 c.p.c. non accettata dall’altra parte non può portare alla declaratoria di estinzione. Tuttavia, la rinuncia alla domanda, a differenza della rinuncia agli atti del giudizio, non richiede l’adozione di forme particolari e non necessita di accettazione della controparte con estinzione dell’azione.
Dei presupposti per l’esperimento dell’azione ex art. 2476 co. 7 c.c.
L’inadempimento contrattuale delle obbligazioni della società delle quali risponde la stessa con il suo patrimonio, il fatto di non aver consentito la consultazione della contabilità sociale e l’omessa predisposizione tempestiva dei bilanci o il fatto che in essi non sia stata rappresentata una posta passiva relativa al credito di un socio, non integrano un danno patrimoniale individuale (neppure astrattamente) configurabile come conseguenza immediata e diretta di una condotta illecita dell’amministratore, che sia presupposto per l’esperimento dell’azione ex art. 2476 co. 7 c.c.
OPA obbligatoria su titoli AIM: competenza sezioni specializzate e vincolatività delle determinazioni del Panel
Le società italiane medio piccole le cui azioni sono negoziate in mercati alternativi sono assoggettate a oneri e regole meno rigorose rispetto a quelle quotate in borsa. Ai sensi di legge, le società i cui titoli sono negoziati su AIM Italia non sarebbero soggette alla disciplina delle offerte pubbliche obbligatorie. Tuttavia, a tutela degli investitori, il Regolamento Emittenti AIM Italia prevede, all’art. 6 bis (anche mediante il richiamo alla Scheda Sei), che gli statuti di queste emittenti debbano inserire precise previsioni in materia di offerta pubblica di acquisto. Tale Regolamento, sostanzialmente, richiede che lo statuto sociale renda applicabili, su base volontaria, le previsioni degli artt. 106 e 109 t.u.f. in tema di offerta obbligatoria successiva totalitaria. Le predette regole non sono amministrate da Consob ma da un panel di esperti nominati da Borsa Italiana. Tale disciplina è coerente con quanto previsto dall’art. 106 t.u.f., che, al verificarsi di alcune circostanze tassativamente elencate dalla legge, affida alla Consob il potere di rettificare al rialzo il prezzo dell’OPA, mediante l’adozione di un apposito provvedimento. Nel caso di società le cui partecipazioni sono quotate in AIM Italia, qualunque interessato può ricorrere al panel in base alle disposizioni sopra richiamate di cui alla Scheda Sei del predetto Regolamento, recepite nei singoli statuti.
L’intervento del panel va equiparato a quello di un collegio di probiviri, la cui terzietà è garantita dal fatto che la nomina dei singoli esperti è demandata a Borsa Italiana, avente la funzione di prevenire o dirimere ogni questione o controversia che possa insorgere durante lo svolgimento dell’offerta, comprese quelle relative alla determinazione del prezzo. Tale intervento, in quanto necessariamente preventivo, è destinato ad avere efficacia nei confronti non solo dei soci che vi hanno fatto ricorso, ma anche di tutti gli altri soci. Diversamente ragionando, le decisioni del panel relative alla determinazione del prezzo avrebbero efficacia di mera raccomandazione nei confronti dei soli soci hanno attivato l’intervento degli arbitri, sicché in tal modo verrebbe vanificata la funzione di regolamentazione preventiva dello svolgimento dell’offerta che il sistema riconosce agli arbitri. Considerato che la normativa di settore demanda al panel, ovvero a un collegio di probiviri, e non a Consob, il potere di dirimere tutte le controversie relative all’interpretazione ed esecuzione delle clausole statutarie che disciplinano l’offerta pubblica di acquisto, l’origine dei poteri decisori del collegio dei probiviri è volontaria (negoziale), con la conseguenza che, nel caso di società emittenti AIM Italia, eventuali richiami al potere autoritativo di Consob appaiono inconferenti.
In base a quanto previsto nella Scheda Sei allegata al Regolamento Emittenti AIM, le determinazioni del panel sulle controversie relative all’interpretazione ed esecuzione della clausola in materia di offerta pubblica di acquisto sono rese secondo diritto, con rispetto del principio del contraddittorio. Il ricorso agli arbitri, dotati di effettiva terzietà, assume la stessa valenza di un arbitrato rituale, da cui consegue la vincolatività/obbligatorietà delle decisioni assunte nei confronti della società e dei soci. Conseguentemente, salvo che vi siano contestazioni circa la manifesta infondatezza o iniquità delle conclusioni cui è giunto il panel, il tribunale non può entrare nel merito dei criteri applicati per giungere a tale determinazione, ma solo accertare e dichiarare la vincolatività per tutte le parti (società e azionisti) di tale decisione.
La ratio giustificatrice del foro speciale di cui all’art. 23 c.p.c. va ricercata nella considerazione che il giudice del luogo in cui si trova la sede della società è quello più idoneo a conoscere della controversia avente ad oggetto il “rapporto sociale”, mentre le controversie che riguardano le vicende traslative delle partecipazioni sociali, a cui può naturalmente accedere il mutamento soggettivo della compagine sociale come effetto del passaggio di proprietà delle quote, non vale a trasformare la lite in una controversia avente ad oggetto il rapporto sociale. D’altro canto, l’art. 3, co. 2, lett. a, d.lgs. 168/2003 individua l’esistenza della competenza per materia delle sezioni specializzate in materia di impresa, riferendola alle cause e ai procedimenti relativi a rapporti societari, ivi compresi quelli concernenti l’accertamento, la costituzione, la modificazione o l’estinzione di un rapporto societario; ancora, la successiva lett. b specifica che rientrano al pari nella competenza del giudice specializzato anche le cause e i procedimenti relativi ai trasferimenti delle partecipazioni sociali o ogni altro negozio avente ad oggetto partecipazioni sociali o i diritti inerenti, vicende traslative ritenute non assimilabili a (o comunque non ricomprese in) quelle inerenti “ai rapporti societari”, tanto da giustificare una separata e autonoma menzione. Ne deriva che una controversia relativa alla corretta determinazione del prezzo di cessione di partecipazioni sociali è inidonea a incidere sulla “vita” della società, che resta del tutto estranea alla soluzione della questione.
Abuso della regola di maggioranza e sindacato del giudice
La società è frutto, ai sensi dell’art. 2247 c.c., di un contratto nell’esecuzione del quale le parti devono attenersi ai principi generali e ai limiti di derivazione negoziale; le determinazioni prese dai soci durante lo svolgimento del rapporto associativo debbono, invero, essere considerate, a tutti gli effetti, come veri e propri atti preordinati alla migliore esecuzione del contratto sociale, donde l’estensione anche alle deliberazioni assembleari del principio di buona fede ex art. 1375 c.c.
In applicazione del principio di buona fede in senso oggettivo al quale deve essere improntata l’esecuzione del contratto di società, la cosiddetta regola di maggioranza consente al socio di esercitare liberamente e legittimamente il diritto di voto per il perseguimento di un proprio interesse fino al limite dell’altrui potenziale danno. L’abuso della regola di maggioranza (altrimenti detto abuso o eccesso di potere) è, quindi, causa di annullamento delle deliberazioni assembleari allorquando la delibera non trovi alcuna giustificazione nell’interesse della società per essere il voto ispirato al perseguimento da parte dei soci di maggioranza di un interesse personale antitetico a quello sociale, oppure sia il risultato di una intenzionale attività fraudolenta dei soci maggioritari diretta a provocare la lesione dei diritti di partecipazione e degli altri diritti patrimoniali spettanti ai soci di minoranza uti singuli.
L’onere di provare che il socio di maggioranza abbia abusato del proprio diritto di voto grava sul socio di minoranza che assume l’illegittimità della deliberazione. Il sindacato del giudice deve rimanere nei limiti della verifica della legittimità dell’agire della maggioranza, non potendo spingersi nel merito dell’attività gestoria e, quindi, riguardare i motivi che hanno indotto la maggioranza dei soci ad adottare una delibera piuttosto che un’altra, in assenza della prova di un animus nocendi nei termini detti.
Operazione in conflitto di interessi e rimborso dei finanziamenti soci
Ai fini della configurabilità dell’esistenza di un conflitto di interessi tra la società e il suo amministratore occorre accertare in concreto l’esistenza di un interesse dell’amministratore incompatibile, contrastante e inconciliabile con quello della società dal medesimo amministrata, non rilevando quale elemento sufficiente la circostanza che l’amministrazione delle due controparti contrattuali sia in capo alla stessa persona. La mera coincidenza nella stessa persona dei ruoli di amministratore delle contrapposte parti contrattuali non costituisce, invero, circostanza ed elemento sufficiente per la configurazione di un conflitto di interessi.
In caso di azione giudiziale del socio per la restituzione del finanziamento effettuato in favore della società, il giudice del merito deve verificare se la situazione di crisi prevista dall’art. 2467, co. 2, c.c. sussista, oltre che al momento della concessione del finanziamento, anche a quello della decisione, trattandosi di fatto impeditivo del diritto alla restituzione del finanziamento rilevabile dal giudice d’ufficio, in quanto oggetto di un’eccezione in senso lato, sempre che la situazione di crisi risulti provata ex actis, secondo quanto dedotto e prodotto in giudizio.
Il credito del socio, in presenza di un finanziamento concesso nelle condizioni di eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto o laddove sarebbe stato ragionevole un conferimento subisce una postergazione legale, la quale non opera una riqualificazione del prestito da finanziamento a conferimento con esclusione del diritto al rimborso, ma incide sull’ordine di soddisfazione dei crediti. L’effetto della postergazione è automatico, non dipendendo da una conoscenza effettiva dello stato della società o dall’intenzione delle parti, e impone al giudice, richiesto del rimborso, di accertare, sulla base delle risultanze processuali in atti, se la situazione sociale ricada in una delle fattispecie ex art. 2467 c.c., co. 2, c.c. L’eccessivo squilibrio nell’indebitamento o la situazione finanziaria in cui sarebbe stato ragionevole un conferimento, da verificare sia al momento del prestito, sia della richiesta di rimborso e, quindi, in caso di controversia, della decisione giudiziale, costituiscono fatto impeditivo del diritto al rimborso oggetto di eccezione in senso lato.
Applicabilità della clausola compromissoria alla controversia sul valore di liquidazione della quota del socio receduto
La clausola compromissoria, contenuta nello statuto di una società, la quale preveda la devoluzione ad arbitri delle controversie connesse al contratto sociale, deve ritenersi estesa alla controversia riguardante il recesso del socio dalla società, sicché il socio, pur receduto, è dunque astretto dal vincolo compromissorio per tutto quanto attiene alle vicende sociali, trattandosi di conflitti che attengono comunque al sodalizio di impresa. La cessazione per qualunque causa del rapporto sociale non comporta l’inapplicabilità nei rapporti tra la società e l’ex socio della clausola arbitrale eventualmente contenuta nello statuto, la quale continua a spiegare i suoi effetti in ordine alle controversie aventi matrice nel contratto sociale, tra le quali devono essere ricompresi i conflitti nascenti dall’esercizio da parte del socio del diritto di recesso.
La controversia attinente alla liquidazione della quota del socio receduto, sebbene sorta successivamente alla sua fuoriuscita dalla compagine sociale, ha ad oggetto un credito che ha la sua fonte nel contratto sociale ed è assoggettata all’efficacia della clausola compromissoria: si tratta, infatti, di contesa attinente alla vicenda estintiva del rapporto sociale rispetto al singolo contraente che, considerata nel suo complesso, a prescindere dall’immediata operatività dello scioglimento del vincolo, ricomprende anche la fase della liquidazione del valore della quota del socio receduto, esaurendosi solo con il pagamento della somma dovuta.
La rinuncia tacita da parte dei soci ai diritti di prelazione e gradimento previsti dallo statuto
Decisioni dei soci nelle società di persone e diritto alla percezione dei dividendi
Nelle società di persone, che non hanno personalità ma solo soggettività giuridica e un’autonomia patrimoniale c.d. imperfetta, le decisioni dei soci non sono soggette al metodo collegiale: invero, non esiste l’organo sociale assemblea, così come non esiste l’organo consiglio di amministrazione, propri, invece, delle società di capitali. Sicché i soci deliberano liberamente, senza l’obbligo della osservanza di formalità e la volontà dai medesimi espressi, all’unanimità o a maggioranza, non si manifesta attraverso l’assemblea, salvo ciò non sia, legittimamente, previsto nello statuto, ma attraverso la raccolta interna del consenso dei singoli soci, come si desume anche da disposizioni quali quelle di cui agli artt. 2256 e 2301 c.c., le quali richiedono “il consenso degli altri soci” e non già “l’autorizzazione della società”. Sul tema della necessità di una volontà unanime o maggioritaria dei soci, deve ritenersi che sussista la necessità di raccogliere il consenso unanime dei soci laddove si tratti di decidere aspetti organizzativi di base (legali o convenzionali) della società, mentre sia sufficiente quello della sola maggioranza quando si tratti di decidere su temi che attengono alla gestione dell’impresa (come l’approvazione del rendiconto, o la revoca dell’amministratore).
Ciascun socio dispone del proprio diritto alla distribuzione degli utili e, quindi, certamente non sarebbe sufficiente il consenso della maggioranza a negarla, come potrebbe avvenire in una società di capitali ove la distribuzione degli utili è rimessa alla volontà collegiale dell’assemblea, essendo bensì necessario il consenso di ciascuno dei soci, che all’esito dell’approvazione del rendiconto che ne attesta l’esistenza, matura il relativo diritto ex art. 2262 c.c. In assenza della previsione, anche statutaria, di specifiche formalità, l’espressione della volontà contrattuale dei soci di una società di persone può avvenire anche in forma tacita, per effetto di atti non formali, ma di facta concludentia.
Rettifica del prezzo di cessione di partecipazioni sociali
Azione sociale di responsabilità, infedeltà patrimoniale e sviamento di clientela
L’azione sociale di responsabilità ex art. 2476, co. 1, c.c., ha natura contrattuale; conseguentemente, quanto al riparto dell’onere della prova, il creditore che agisce in giudizio, sia per l’adempimento del contratto, sia per la risoluzione e il risarcimento del danno, deve fornire la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto, limitandosi ad allegare l’inadempimento della controparte, su cui incombe l’onere della dimostrazione del fatto estintivo costituito dall’adempimento. In particolare, spetta alla società attrice allegare l’inadempimento, ovvero indicare il singolo atto gestorio che si pone in violazione dei doveri degli amministratori posti dalla legge o dallo statuto e il danno derivante da tale inadempimento, mentre è onere dei convenuti contrastare lo specifico addebito, fornendo la prova dell’esatto adempimento.
La valutazione in sede giudiziale della convenienza delle scelte gestionali è riservata in linea generale alla discrezionalità dell’amministratore (c.d. business judgment rule), essendo il sindacato del merito di tali scelte limitato ai casi di palese irragionevolezza delle stesse, desumibile dal fatto che l’amministratore non abbia usato le necessarie cautele e assunto le informazioni rilevanti. Si tratta, peraltro, di una valutazione da condurre necessariamente ex ante, non potendosi affermare l’irragionevolezza di una decisione dell’amministratore per il solo fatto che essa si sia rivelata ex post economicamente svantaggiosa per la società.
L’art. 2634 c.c. sanziona penalmente gli amministratori che, avendo un interesse in conflitto con quello della società, al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o altro vantaggio, compiono o concorrono a deliberare atti di disposizione dei beni sociali, cagionando intenzionalmente alla società un danno patrimoniale. Con specifico riferimento alla situazione di conflitto di interessi, onde ritenere configurata la predetta fattispecie, si richiede che vi sia un antagonismo di interessi effettivo, attuale e oggettivamente valutabile, tra l’agente e la società, a causa del quale il primo, nell’operazione economica che deve essere deliberata, si trova obiettivamente in una posizione antitetica rispetto a quella dell’ente, tale da pregiudicarne gli interessi patrimoniali.
Il tentativo di sviare la clientela rientra nel normale gioco della concorrenza; un dato comportamento può essere considerato illecito allorché lo sviamento sia provocato, direttamente o indirettamente, con un mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale. L’illiceità della condotta non dev’essere ricercata episodicamente, ma va desunta dalla qualificazione tendenziale dell’insieme della manovra posta in essere per danneggiare il concorrente, o per approfittare sistematicamente del suo avviamento sul mercato. Pertanto, mentre è contraria alle norme di correttezza imprenditoriale l’acquisizione sistematica, da parte di un ex dipendente che abbia intrapreso un’autonoma attività imprenditoriale, di clienti del precedente datore di lavoro il cui avviamento costituisca, soprattutto nella fase iniziale, il terreno dell’attività elettiva della nuova impresa (più facilmente praticabile proprio in virtù delle conoscenze riservate precedentemente acquisite), deve ritenersi fisiologico il fatto che il nuovo imprenditore, nella sua opera di proposizione e promozione sul mercato della sua nuova attività, acquisisca o tenti di acquisire anche alcuni clienti già in rapporti con l’impresa alle cui dipendenze aveva prestato lavoro. La fisiologia del passaggio, ove ecceda la normale tollerabilità, necessita di indagini e istruttoria al fine di verificare se sia stato posto in essere un piano di attività preordinato e sviluppato proprio al fine di determinare un massiccio esodo.