Tribunale di Milano
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Abuso della maggioranza e aumento del capitale senza sovrapprezzo
L’abuso del diritto di voto da parte del socio maggioranza che determina l’annullabilità della deliberazione assembleare si configura allorché il socio eserciti consapevolmente il suo diritto di voto in modo tale da ledere le prerogative degli altri soci senza perseguire alcun interesse sociale, in violazione del dovere di comportarsi secondo buona fede nell’esecuzione del contratto sociale.
La previsione dell’aumento di capitale “alla pari” cioè senza la previsione del sovrapprezzo corrispondente al maggior valore del patrimonio sociale rispetto al capitale nominale non può costituire sintomo di abuso della maggioranza, in presenza della previsione del diritto di opzione a favore di tutti i soci
Natura dell’azione di responsabilità ex art. 2476, sesto comma, c.c. (ora rubricato al settimo comma)
L’art. 2476, sesto comma, c.c., (ora rubricato al settimo comma) che al pari dell’art. 2395 c.c. attribuisce al singolo socio o al terzo l’azione individuale di responsabilità per far valere il diritto al risarcimento del danno direttamente cagionato nella loro sfera giuridica dagli atti dolosi o colposi degli amministratori, configura una responsabilità di tipo extracontrattuale, con la conseguenza che grava sul danneggiato l’onere di provare, innanzitutto, il fatto illecito addebitato all’amministratore e, quindi, il pregiudizio che ne è direttamente derivato nel suo patrimonio (nel caso di specie gli amministratori hanno dolosamente programmato l’inadempimento degli impegni assunti con la banca attrice sulla base del contratto di anticipazione su crediti commerciali, dirottando i pagamenti dei clienti su altro conto corrente bancario dopo aver ricevuto l’accredito del finanziamento).
Lo sviamento di clientela, tra quadro indiziario e idonea prova della condotta anticoncorrenziale
In tema di concorrenza sleale per sviamento di clientela, l’illiceità della condotta non dev’essere ricercata episodicamente, bensì attraverso l’acquisizione sistematica di clienti del precedente datore di lavoro, mentre è da ritenere fisiologico il fatto che il nuovo imprenditore, nella sua opera di proposizione e promozione sul mercato della sua nuova attività, acquisisca o tenti di acquisire anche alcuni clienti già in rapporti con l’impresa alle cui dipendenze aveva prestato lavoro. Né il mero dato contabile del calo di fatturato del soggetto che lamenta l’illecito, a fronte del notevole fatturato prodotto dal soggetto che avrebbe posto in essere l’illecito, può essere letto in chiave indiziaria, essendo del tutto compatibile, in mancanza di idonea prova di condotta anticoncorrenziale, anche con l’ingresso nel mercato di un nuovo competitor, dotato della capacità occorrente per rispondere alla domanda di mercato nel settore.
Fideiussione ordinaria e onere probatorio in materia di illeciti antitrust
Ai fini dell’accertamento dell’illecito antitrust, sussiste l’onere di allegazione e dimostrazione di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie, tra i quali rientra quello della stessa esistenza di un’intesa illecita all’epoca della sottoscrizione del contratto impugnato.
L’onere probatorio non è assolto qualora manchi la dimostrazione di un’intesa avente come oggetto o per effetto quello di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale attraverso la fissazione di specifiche condizioni contrattuali in materia di garanzie fideiussorie per operazioni specifiche.
La semplice presenza nei contratti di pattuizioni che derogano alle norme civilistiche menzionate in materia di fideiussione non possono di per se, in quanto norme pacificamente derogabili, determinare alcun illecito antitrust, posto che la condizione per ritenere integrata tale violazione delle regole del mercato è che la loro applicazione tendenzialmente uniforme e coordinata da parte degli operatori del settore determini come sua conseguenza una restrizione delle possibilità di scelta del consumatore.
Iscrizione del trasferimento di quote di s.r.l. nel Registro delle Imprese e diritto di voto
Costituisce principio generale desumibile dalla specifica disciplina dell’efficacia delle vicende traslative della titolarità della quota sociale, prevista dall’art. 2470, co. 1 e 2, c.c. in funzione delle esigenze di certezza e trasparenza dell’organizzazione dell’ente, che, ai fini della corretta individuazione del soggetto legittimato all’esercizio dei diritti sociali nell’ambito endo-societario e, in particolare, all’esercizio del potere di voto in assemblea, rilevi solo l’iscrizione nel Registro delle Imprese del trasferimento, a prescindere dal momento in cui si sia prodotto l’effetto traslativo fra le parti o dalla conoscenza che ne avesse l’organo sociale.
La specifica disciplina dell’art. 2470, co. 1, c.c., secondo cui il trasferimento della partecipazione sociale ha effetto nei confronti della società solo dal momento del deposito dell’atto traslativo per l’iscrizione nel Registro delle Imprese, comporta di per sé che in ambito endo-societario la qualità di socio di s.r.l. vada attribuita specificatamente ai soggetti il cui atto di acquisto della partecipazione risulti iscritto nel Registro delle Imprese, senza che tale qualità possa quindi essere contestata, sempre a fini endo-societari, dagli organi sociali in riferimento a vicende di cessione pur realizzatesi tra i soci (o tra i soci e terzi) uti singuli ma non iscritte nel Registro delle Imprese.
La disciplina dell’art. 2470 c.c., co. 1, c.c., in quanto ispirata da esigenze di trasparenza e certezza delle situazione dominicali o organizzative connesse alla partecipazione sociale e genericamente riferita all’effetto del trasferimento della partecipazione sociale nei confronti della società include, in via di interpretazione estensiva, tutte le vicende della quota sociale traslative o costitutive, volontarie o forzose, che incidano con carattere di realità sulla disponibilità della partecipazione e sull’esercizio dei diritti ad essa connessi, oltre che tutte le vicende della partecipazione che, comunque, ammettano all’esercizio dei diritti sociali un soggetto diverso dal titolare. L’interpretazione estensiva della norma richiamata non collide, infatti, con il principio di tassatività delle iscrizioni nel Registro delle Imprese ed è funzionale alle esigenze di pubblicità e certezza delle vicende delle partecipazioni sociali che incidono sensibilmente sull’organizzazione dell’ente.
Anche l’acquisizione a seguito di vendita forzata della partecipazione sociale e la nomina di un custode, ai sensi dell’art. 520 c.p.c., legittimato all’esercizio del diritto di voto in luogo del socio debitore, sono vicende che devono essere iscritte nel Registro delle Imprese affinché possano avere efficacia nei confronti della società. E che anche ai fini della corretta individuazione del soggetto legittimato all’esercizio del diritto di voto in assemblea relativamente alla quota sociale espropriata, debba farsi esclusivo riferimento alle risultanze del Registro delle Imprese in ordine al soggetto che al momento della sua convocazione o riunione rivestiva la qualità di socio o la qualità di un diverso soggetto legittimato ad esprimerlo, ai sensi dell’art. 2471 bis c.c. e dell’art. 2352 c.c.
Prova della decadenza del marchio per non uso
L’uso del marchio che impedisce la decadenza deve essere effettivo, non meramente simbolico, non sporadico e per quantitativi di prodotti non irrilevanti. Sotto il profilo probatorio, la dimostrazione del non uso del marchio ai fini della decadenza ex artt. 24-26 c.p.i. può essere desunta da tutte le prove versate in giudizio (v. Cass. S. U. 18647/10) secondo il generale principio di acquisizione della prova, secondo il quale tutte le risultanze istruttorie concorrono a formare il convincimento del giudice, indipendentemente dalla loro provenienza ed anche in ragione dell’ulteriore, consolidato principio che connette l’onere della prova alla vicinanza di essa, tenuto conto che proprio la titolare dei marchi oggetto di contestazione si troverebbe nella condizione di poter dimostrare, più di ogni altro, di avere usato i marchi registrati nel corso del quinquennio utile a tale verifica.
La mancanza, nelle fatture di vendita, di qualsiasi riferimento certo a prodotti recanti il marchio o agli altri segni oggetto di marchio, o l’assenza di corrispondenza con i codici dei prodotti recanti il marchio, impedisce di ritenere provato l’uso effettivo di quest’ultimo; né pare potersi dedurre in maniera automatica o consequenziale che il fatto che detti prodotti in diverse fatture provenissero dalla società titolare, per ciò solo, avrebbero recato i marchi in questione, soprattutto se le fatture emesse comprendevano prodotti di abbigliamento recanti marchi diversi e ivi specificamente indicati, con ciò dovendosi ritenere che l’attività di tale società fosse dedita alla commercializzazione di prodotti di varia natura e provenienza.
Anche il mero fatto della presenza di un marchio su un sito web è, di per sé, insufficiente a provarne l’uso effettivo nei termini richiesti dalla giurisprudenza comunitaria e nazionale, posto che la mera allegazione delle pagine in questione nulla dice in merito all’intensità dell’uso o ad altre circostante a tal fine astrattamente rilevanti, come ad esempio il numero delle visualizzazioni di esse, gli ordini dei prodotti trasmessi mediante tale modalità di acquisto nel territorio di riferimento, le registrazioni al sito che i frequentatori spesso sono invitati a sottoscrivere anche a fini promozionali, il traffico di informazioni e di contatti intercorso con particolari categorie di utenti del sito (distributori, rivenditori ecc., in relazione alla presenza di un’”area riservata” rilevabile dalle raffigurazioni depositate).
Anche la presenza dei prodotti recanti il marchio su siti di e-commerce di rilievo internazionale non sarebbe comunque idonea a dare conto dell’uso diretto ed effettivo dei marchi in questione da parte della titolare o di suoi aventi causa. In effetti tali promozioni ed offerte di vendita non provengono dalla società convenuta e di fatto non è dato sapere le effettive disponibilità di tali prodotti, tenuto conto che il quadro complessivo di sostanziale assenza di prove circa l’immissione in commercio sul territorio nazionale di prodotti recanti tali marchi può verosimilmente ricondurre tali offerte o alla residua circolazione di prodotti già da tempo commercializzati dalla convenuta o a prodotti immessi in commercio al di fuori del territorio nazionale e comunitario.
Deve negarsi che la mera titolarità della ragione sociale contenente il segno registrato come marchio possa di per se stessa dare luogo ad un uso effettivo di tale marchio nel contraddistinguere prodotti, nell’accezione di tale presupposto fatta propria dalla giurisprudenza comunitaria. L’uso delimitato alla ragione sociale di un soggetto che non risulta aver utilizzato sui propri prodotti o servizi il segno registrato non può impedire il maturare della decadenza dei marchi per non uso, in ragione delle esigenze che essi continuino a garantire l’identità di origine dei prodotti o dei servizi per i quali sono stati registrati, con esclusione degli usi simbolici tesi soltanto a conservare i diritti conferiti dal marchio e che sarebbero integrati dalla mera conservazione di una ragione sociale cui non corrisponda l’attività necessaria per il mantenimento delle registrazioni in un ambito produttivo e commerciale di effettivo rilievo.
La non cedibilità dell’autorizzazione amministrativa per l’esercizio dell’attività
Le autorizzazioni amministrative, relative allo svolgimento di determinate attività, hanno carattere personale e come tali non sono riconducibili ai beni che compongono l’azienda, né possono essere cedute. Pertanto, le espressioni con le quali, nei negozi relativi alla cessione di azienda, si dichiari che il venditore cede le relative licenze commerciali vanno intese nel senso più limitato dell’assunzione di un obbligo a rinunciare alle medesime e a non opporsi alla concessione di una nuova licenza in capo al nuovo titolare dell’azienda. La rinuncia all’autorizzazione amministrativa da parte del venditore, dunque, costituisce il mezzo per rendere possibile l’ottenimento dell’autorizzazione per il lecito esercizio dell’attività acquistata dall’acquirente.
Il danno diretto nell’azione di responsabilità ex art. 2395 c.c.
La prospettazione da parte del socio o del terzo di un danno meramente riflesso rispetto alla lesione alla garanzia patrimoniale della società non integra le condizioni essenziali per l’accoglimento dell’azione ex art. 2395 c.c. Infatti, l’azione individuale del socio o del terzo nei confronti dell’amministratore di una società di capitali non è esperibile quando il danno lamentato costituisce solo il riflesso del pregiudizio al patrimonio sociale, giacché l’art. 2395 c.c. esige che il singolo socio, o il terzo, sia stato danneggiato direttamente dagli atti colposi o dolosi dell’amministratore, mentre il diritto alla conservazione del patrimonio sociale appartiene unicamente alla società.
A norma dell’art. 2395 c.c., il terzo (o il socio) è legittimato, anche dopo il fallimento della società, all’esperimento dell’azione (di natura aquiliana) per ottenere il risarcimento dei danni subiti nella propria sfera individuale, in conseguenza di atti dolosi o colposi compiuti dall’amministratore, solo se questi siano conseguenza immediata e diretta del comportamento denunciato e non il mero riflesso del pregiudizio che abbia colpito l’ente, ovvero il ceto creditorio per effetto della cattiva gestione, essendo altrimenti proponibile la diversa azione (di natura contrattuale) prevista dall’art. 2394 c.c., esperibile, in caso di fallimento della società, dal curatore ai sensi dell’art. 146 l.fall.
Il curatore fallimentare ha legittimazione attiva unitaria, in sede penale come in sede civile, all’esercizio di qualsiasi azione di responsabilità ammessa contro gli amministratori di qualsiasi società, anche per i fatti di bancarotta preferenziale commessi mediante pagamenti eseguiti in violazione del pari concorso dei creditori. La destinazione del patrimonio sociale di una società in sofferenza patrimoniale alla garanzia dei creditori va considerata nella prospettiva della prevedibile procedura concorsuale, che espone i creditori alla falcidia fallimentare, e il pagamento preferenziale in una situazione di dissesto può comportare per la massa dei creditori una minore disponibilità patrimoniale cagionata appunto dall’inosservanza degli obblighi di conservazione del patrimonio sociale in funzione di garanzia dei creditori.
Il pagamento preferenziale può arrecare un danno solo ai singoli creditori rimasti insoddisfatti, ma non alla società, perché si tratta di operazione neutra per il patrimonio sociale, che vede diminuire l’attivo in misura esattamente pari alla diminuzione del passivo conseguente all’estinzione del debito.
Acquisto di partecipazioni effettuato sulla base di dati economici errati e responsabilità dei revisori: in particolare, il nesso causale
Qualunque sia la connotazione legale della responsabilità invocata in un’azione risarcitoria (se cioè, per inadempimento di una preesistente obbligazione fra danneggiante e danneggiato ovvero, in assenza di quella, ex lege aquilia), la struttura della fattispecie postula che tra la condotta inadempiente o contra ius addebitata al danneggiante e il danno patito dal danneggiato deve sussistere un nesso di causalità, sia pur adeguata e di carattere probabilistico, tale per cui sia allegato, e dimostrato, dall’attore (su cui incombono entrambi detti oneri) che la condotta commissiva od omissiva del convenuto sia stata, se non causa determinante, quantomeno concausa efficacemente concorrente della lesione subita nella propria sfera giuridico-economica. In presenza di un allegato concorso causale, se non si può negare il nesso eziologico fra condotta e danno solo perché vi sono più cause possibili ed alternative, il giudice deve comunque stabilire quale tra esse sia “più probabile che non”, in concreto ed in relazione alle altre, e, quindi, idonea a determinare in via autonoma il danno evento. Qualora tale accertamento non sia possibile, trova applicazione il principio generalissimo dettato dall’art. 41 c.p., in virtù del quale il concorso di cause preesistenti, simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall’azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra dette cause e l’evento in forza della riconducibilità a tutte di quest’ultimo: salvo che, in concreto, si verifichi l’esclusiva efficienza causale di una di esse [nella specie, il Tribunale ha rigettato la domanda dell’investitore che aveva confessoriamente dichiarato in un separato giudizio di essersi determinato all’acquisto delle azioni in ragione degli stretti rapporti con alcuni amministratori dell’emittente e delle rassicurazione e sollecitazioni ricevute dagli stessi].
Intese vietate dalla normativa antitrust: estensione della nullità delle singole clausole all’intero negozio fideiussorio
L’estensione all’intero contratto di fideiussione della nullità che colpisce la singola parte o la singola clausola ha portata eccezionale ed è a carico di chi ha interesse a far cadere del tutto l’assetto di interessi programmato fornire la prova dell’interdipendenza del resto del contratto dalla clausola o dalla parte nulla, restando precluso al giudice di rilevare d’ufficio l’effetto estensivo della nullità parziale all’intero contratto. Tale prova consiste nella dimostrazione che la porzione colpita da invalidità non ha un’esistenza autonoma, né persegue un risultato distinto, ma è in correlazione inscindibile con il resto, nel senso che i contraenti non avrebbero concluso il contratto senza quella parte del suo contenuto colpita da nullità.
Il provvedimento n. 55/2005 della Banca d’Italia, che ha accertato la presenza di clausole idonee a restringere la concorrenza in seno allo schema contrattuale di fideiussione omnibus predisposto dall’ABI (Associazione Bancaria Italiana), vale quale prova privilegiata dell’illecito antitrust soltanto con riferimento alle fideiussioni prestate nel periodo di tempo oggetto di esame della Banca medesima. Al fine di accertare l’esistenza a monte di un’intesa vietata, grava sulla parte attrice l’onere dell’allegazione e della dimostrazione di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie d’illecito concorrenziale di cui all’art. 2 della legge n.287/90.