Tribunale di Milano
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Obblighi e responsabilità degli amministratori
La natura contrattuale della responsabilità degli amministratori verso la società comporta che questa o il socio che agiscano hanno l’onere di allegare e dimostrare la sussistenza delle condotte, del danno e del nesso di causalità, mentre incombe sugli amministratori l’onere di dimostrare la non imputabilità del fatto dannoso, fornendo la prova positiva, con riferimento agli addebiti contestati, dell’osservanza dei doveri e dell’adempimento degli obblighi loro imposti.
L’amministratore della società ha il compito di gestire l’impresa compiendo tutte le operazioni necessarie per il conseguimento dell’oggetto sociale secondo i doveri imposti dalla legge, dall’atto costitutivo e dello statuto; le obbligazioni inerenti la carica di amministratore di società sono assai variegate, ma alcune di esse risultano puntualmente specificate e si identificano in ben determinati comportamenti, tra cui la predisposizione di un assetto organizzativo, contabile, amministrativo adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, la tenuta delle scritture contabili, la predisposizione dei bilanci, i prescritti adempimenti tributari e fiscali.
In particolare, l’amministratore ha l’obbligo, imposto dall’art. 2381, ult. co., c.c., di “agire in modo informato”: obbligo che si declina da un lato, nel dovere di attivarsi, esercitando tutti i poteri connessi alla carica, per conseguire al meglio l’oggetto sociale o per prevenire, eliminare ovvero attenuare le situazioni di criticità aziendale di cui sia, o debba essere, a conoscenza; dall’altro, in quello di informarsi, affinché tanto la scelta di agire quanto quella di non agire risultino fondate sulla conoscenza della situazione aziendale che lo stesso si possa procurare esercitando tutti i poteri di iniziativa cognitoria connessi alla carica con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico.
La nullità di singole clausole contrattuali si estende all’intero contratto di fideiussione solo ove sia data prova dell’inscindibile correlazione con il resto del contratto
In tema di invalidità delle clausole mutuate dal modello ABI 2003, seguendo un rilevante orientamento di legittimità (Cass. Civ. n. 29810/2017 e n. 4175/2020), il Giudice è legittimato a valutare autonomamente la nullità ex art. 1418, co. 1, c.c., in relazione all’art. 2 Legge Antitrust, del contratto a valle dell’intesa anticoncorrenziale stipulato anteriormente al provvedimento di censura dell’autorità amministrativa indipendente tenendo in ogni caso in considerazione quanto da questa – successivamente –
accertato in punto di violazione della Legge Antitrust. Ciò, sempre che l’intesa sia stata materialmente posta in essere prima della conclusione del contratto indiziato di nullità.
Inoltre, la nullità parziale della clausola pedissequa ad altra clausola di cui all’intesa ABI non importa la nullità dell’intero contratto di fideiussione in quanto non è stata fornita specifica allegazione del valore della clausola invalida all’interno del regolamento negoziale (cfr. Cass. Civ. n. 24044/2019, Tribunale di Milano n. 7093/2020, Corte appello Venezia, n. 1063/2021).
Postergazione del rimborso del finanziamento soci verso S.r.l. in liquidazione
Dalla cessione di una partecipazione societaria non consegue quale naturale negotii il trasferimento dei crediti che il socio cedente vanti verso la società, in quanto aventi fonte in un rapporto connesso ma distinto da quello sociale. Sarà quindi onere del cessionario dimostrare l’intervenuta cessione a lui anche dei crediti che altro ex socio vantava verso la società. Riguardo all’opponibilità di detta cessione alla debitrice società ceduta, saranno sufficienti la notifica del ricorso monitorio prima e la comunicazione della comparsa di risposta poi, da considerarsi atti ad ogni effetto equipollenti alla informale denuntiatio richiesta dall’art. 1264 co. 1° c.c.
La questione dell’assoggettabilità di un credito, derivante da un precedente finanziamento soci, alla postergazione di cui all’art. 2467 co. 2° c.c., non può essere posta con riguardo al momento in cui il rimborso è stato per la prima volta richiesto se la società è stata posta in liquidazione, data la persistenza delle condizioni alle quali l’art. 2467 co. 2° c.c. àncora la postergazione.
Mancata iscrizione dell’atto di cessione di quote sociali per indisponibilità dell’amministratore unico della società
Deve essere accolta la domanda con cui l’attore – che ha ceduto il 50% delle proprie quote di partecipazione ad una S.r.l. ad altro soggetto tramite scrittura privata autenticata – chiede di ordinare al Conservatore del Registro delle Imprese l’iscrizione di tale cessione, previa esecuzione di tutte quelle formalità a ciò necessarie ma alle quali cui non era stato possibile provvedere a causa dell’indisponibilità e della mancata collaborazione in tal senso da parte dell’amministratore unico della S.r.l.
Deve invece ritenersi infondata ogni considerazione sul carattere fraudolento della cessione (su cui la convenuta S.r.l., nel caso di specie, ha fondato la propria domanda riconvenzionale), non solo in quanto materia estranea alla controversia – che verte in tema di mancata iscrizione di un atto di cessione di quote sociali e non di cancellazioni di iscrizioni eseguite in assenza delle condizioni di legge – ma anche in ragione della tardiva introduzione di una prospettazione difensiva del tutto nuova nel giudizio.
Il risarcimento del danno derivante da inadempimento del contratto di cessione di azienda e la quantificazione del danno emergente
L’inadempimento del contratto di cessione di azienda, dichiarato risolto ex art. 1453 c.c., può far sorgere, in capo alla parte non inadempiente, il diritto al risarcimento del danno secondo la disciplina della responsabilità contrattuale. Per la quantificazione del danno emergente, si può fare riferimento al valore attribuito convenzionalmente dalle parti all’azienda oggetto del contratto.
Inammissibilità dell’intervento volontario autonomo oltre la prima udienza
Benché l’art. 268 c.p.c. – che consente al terzo di intervenire nel processo sino a che le parti non abbiano precisato le conclusioni accettando il processo allo stato in cui si trova e con preclusione al compimento atti non più consentiti alle parti al momento dell’intervento – sia interpretato dalla giurisprudenza di legittimità nel senso che la limitazione al compimento di atti ormai preclusi alle parti operi solamente in relazione alle istanze istruttorie, potendo il terzo formulare in ogni momento domande nuove e diverse nei confronti delle altre parti, l’esigenza di contemperare i contrapposti principi sanciti all’art. 111 Cost. impone una attenta valutazione critica dell’orientamento in parola, non potendo le esigenze di economia processuale e di giustizia sostanziale tradursi in un’eccessiva compressione della necessità che il processo si svolga nel contraddittorio e in posizione di effettiva parità tra le parti.
Considerato che la costituzione in giudizio del terzo interveniente autonomo dopo la prima udienza – quando è ormai scaduto il termine per la proposizione di domande riconvenzionali o per la chiamata in causa di terzo ex art. 167 c.p.c. – determina una compressione “anomala” del diritto di difesa delle parti, in consapevole dissenso con l’orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità, al fine di garantire un ordinato iter processuale nel pieno rispetto del contraddittorio e altresì di rapido svolgimento del processo, gli interventi autonomi di terzo nel processo devono ritenersi inammissibili se successivi alla prima udienza, in quanto formulati fuori dai termini consentiti per l’ampiamento del thema decidendum, da ritenere cogenti anche per i terzi intervenienti alla luce di una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 268, secondo comma, c.p.c.
Sull’eccezione di incompetenza funzionale e territoriale
All’interno del Tribunale presso il quale è istituita la Sezione specializzata in materia Impresa la questione inerente all’assegnazione delle cause è questione di mero riparto interno degli affari dell’ufficio giudiziario e non questione di competenza.
L’eccezione di incompetenza per territorio derogabile nelle cause relative a obbligazioni deve essere svolta dal convenuto contestando, entro il termine di decadenza stabilito dall’art. 38 c.p.c., la competenza del giudice adito in relazione a tutti i fori concorrenti sia generali, posti dall’art. 18 e 19 c.p.c., sia speciali previsti nell’art. 20 c.p.c., dovendo altrimenti la competenza del giudice adito ritenersi radicata con riferimento ad uno dei fori non contestati.
La natura della clausola di earn-out e la conseguente insussistenza di un obbligo legale di rinegoziazione.
Le clausole di earn-out sono clausole atipiche di fonte esclusivamente convenzionale: pertanto, essendo originate dall’esercizio dell’autonomia privata delle parti ed in assenza di diretti riferimenti normativi, devono essere interpretate dal Giudice nel rigoroso rispetto del regolamento d’interessi trasfuso dalle parti nella disciplina contrattuale, in applicazione dei principi ex artt. 1362 ss. c.c. Ciò trova, peraltro, un ulteriore riscontro nella natura ontologicamente aleatoria del meccanismo stesso dell’earn-out, alla stregua del quale l’an e il quantum dell’obbligazione di pagamento del segmento di prezzo supplementare sono influenzati dal verificarsi di condizioni o eventi incerti, specificatamente individuati dalle parti nell’accordo di cessione parziale o totale di partecipazioni sociali, al verificarsi dei quali opera tale clausola.
Nel caso di specie, con riferimento all’avveramento di un rischio espressamente preso in considerazione dalle parti nella formulazione di una clausola di earn-out inserita in un Accordo Quadro relativo alla cessione di partecipazioni in una società a responsabilità limitata, il Tribunale ha rilevato l’insussistenza di un obbligo di rinegoziazione della suddetta clausola ex artt. 2 Cost., 1175 e 1375 c.c., non essendo tale obbligo testualmente previsto dal contratto. Dunque, illegittima è apparsa la richiesta di parte attrice di invocare l’inadempimento di un obbligo legale di rinegoziazione del contratto al solo fine di sottrarsi al fisiologico verificarsi di una delle condizioni al cui verificarsi è subordinata l’operatività della clausola di earn-out. [Nello specifico, la clausola di earn-out concerneva la possibilità – poi effettivamente realizzatasi – per una delle parti di farsi riconoscere una somma significativamente minore rispetto a quella originariamente pattuita nella suddetta clausola, mediante un successivo accordo transattivo con le controparti pubbliche e secondo termini non manifestamente irragionevoli né contrari a buona fede].
Concorrenza potenziale, concorrenza verticale e storno di dipendenti
In tema di concorrenza sleale tra due o più imprenditori, presupposto indefettibile dell’illecito è la comunanza di clientela, la cui sussistenza va verificata anche in una prospettiva potenziale, dovendosi esaminare se l’attività di cui si tratta, considerata nella sua naturale dinamicità, consenta di configurare, quale esito di mercato fisiologico e prevedibile, sul piano temporale e geografico, e quindi su quello merceologico, l’offerta dei medesimi prodotti, ovvero di prodotti affini e succedanei rispetto a quelli offerti dal soggetto che lamenta la concorrenza sleale.
La nozione di concorrenza sleale di cui all’art. 2598 c.c. va desunta dalla ratio della norma, che impone, alle imprese operanti nel mercato, regole di correttezza e di lealtà, in modo che nessuna si possa avvantaggiare, nella diffusione e collocazione dei propri prodotti o servizi, con l’adozione di metodi contrari all’etica delle relazioni commerciali; ne consegue che si trovano in situazione di concorrenza tutte le imprese i cui prodotti e servizi concernano la stessa categoria di consumatori e che operino quindi in una qualsiasi delle fasi della produzione o del commercio destinate a sfociare nella collocazione sul mercato di tali beni.
In tema di concorrenza sleale per storno di dipendenti il giudice deve solo verificare, a prescindere dall’animus del concorrente ritenuto sleale, se lo stesso si appropri di risorse del concorrente con modalità che mettano potenzialmente a rischio la continuità aziendale dell’imprenditore nella sua capacità competitiva, ovvero provochino alterazioni che superano la soglia di quanto possa essere ragionevolmente previsto (e, dunque, che possa essere assorbito ed eliso attraverso un’adeguata organizzazione dell’impresa, impedendo dunque un effetto shock sull’ordinaria attività di offerta di beni o di servizi).
Rinuncia tacita dell’amministratore al diritto al compenso
Dalla assenza di una qualche determinazione da parte dell’assemblea dei soci di una s.r.l. in ordine al compenso spettante all’amministratore unico e dalla perdurante inerzia di quest’ultimo di fronte a tale situazione può ricavarsi l’esistenza di uno specifico accordo tra i soci – o comunque di un comportamento concludente dell’amministratore – nel senso della gratuità dell’incarico gestorio, essendo, quello al compenso, un diritto disponibile suscettibile di rinuncia attraverso una remissione del debito anche tacita (in tal senso cfr. Cass. Civ. n. 24139/2018).