Tribunale di Milano
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La distinzione tra contratto autonomo di garanzia e fideiussione
Il contratto autonomo di garanzia (c.d. garantievertrag), espressione dell’autonomia negoziale ex art. 1322 c.c., ha la funzione di tenere indenne il creditore dalle conseguenze del mancato adempimento della prestazione gravante sul debitore principale, contrariamente al contratto del fideiussore, il quale garantisce l’adempimento della medesima obbligazione principale altrui, attesa l’identità tra prestazione del debitore principale e prestazione dovuta dal garante. Inoltre, la causa concreta del contratto autonomo è quella di trasferire da un soggetto ad un altro il rischio economico connesso alla mancata esecuzione di una prestazione contrattuale, sia essa dipesa da inadempimento colpevole oppure no, mentre con la fideiussione, nella quale solamente ricorre l’elemento dell’accessorietà, è tutelato l’interesse all’esatto adempimento della medesima prestazione principale.
Mentre il fideiussore è un vicario del debitore, l’obbligazione del garante autonomo si pone in via del tutto autonoma rispetto all’obbligo primario di prestazione, essendo qualitativamente diversa da quella garantita, perché non necessariamente sovrapponibile ad essa e non rivolta all’adempimento del debito principale, bensì a indennizzare il creditore insoddisfatto mediante il tempestivo versamento di una somma di denaro predeterminata, sostitutiva della mancata o inesatta prestazione del debitore.
Il contratto autonomo di garanzia si caratterizza rispetto alla fideiussione per l’assenza dell’accessorietà della garanzia, derivante dall’esclusione della facoltà del garante di opporre al creditore le eccezioni spettanti al debitore principale, in deroga all’art. 1945 c.c., dalla conseguente preclusione del debitore a chiedere che il garante opponga al creditore garantito le eccezioni nascenti dal rapporto principale, nonché dalla proponibilità di tali eccezioni al garante successivamente al pagamento effettuato da quest’ultimo, là dove l’accessorietà della garanzia fideiussoria postula, invece, che il garante ha l’onere di preavvisare il debitore principale della richiesta di pagamento del creditore, ai sensi dell’art. 1952, co. 2, c.c., all’evidente scopo di porre il debitore in condizione di opporsi al pagamento, qualora esistano eccezioni da far valere nei confronti del creditore. Peraltro, se l’inserimento in un contratto di fideiussione di una clausola di pagamento “a prima richiesta e senza eccezioni” vale di per sé a qualificare il negozio come contratto autonomo di garanzia, in quanto incompatibile con il principio di accessorietà che caratterizza il contratto di fideiussione, salvo quando vi sia un’evidente discrasia rispetto all’intero contenuto della convenzione negoziale, tuttavia, in presenza di elementi che conducano comunque ad una qualificazione del negozio in termini di garanzia autonoma, l’assenza di formule come quella anzidetta non è elemento decisivo in senso contrario.
Se la durata della fideiussione è correlata non alla scadenza dell’obbligazione principale ma al suo integrale adempimento, l’azione del creditore nei confronti del fideiussore non è soggetta al termine di decadenza di cui all’art. 1957 c.c.
Nel caso di condizioni generali di contratto, l’obbligo della specifica approvazione per iscritto a norma dell’art. 1341 c.c. della clausola vessatoria è rispettato anche nel caso di richiamo numerico a clausole, onerose e non, purché non cumulativo, salvo che, in quest’ultima ipotesi, non sia accompagnato da un’indicazione, benché sommaria, del loro contenuto, ovvero che non sia prevista dalla legge una forma scritta per la valida stipula del contratto.
Patto collusivo volto a contenere i costi dell’OPA obbligatoria
Morte dell’unico socio accomandatario
Se alla morte del de cuius è venuta meno la pluralità dei soci ex art. 2272, n. 4, c.c. (richiamato direttamente dall’art. 2308 c.c. e indirettamente dall’art. 2323 c.c.) e al contempo non vi sono più i soci accomandatari (art. 2323 .c.c.), queste due autonome fattispecie possono condurre ciascuna allo scioglimento della società in caso di mancata ricostituzione della pluralità dei soci entro il semestre successivo. In caso di concorso tra cause di scioglimento del singolo rapporto sociale e cause di scioglimento della società diverse da quella prevista dall’art. 2284 c.c., prevale quella verificatasi e perfezionatasi per prima.
Le due disposizioni di cui agli artt. 2284 e 2272, n. 4, c.c. risultano compatibili, visto che la loro operatività si svolge su piani diversi e che ciascuna di esse conserva un proprio ambito applicativo. Pertanto, anche in caso di morte del socio in una società costituita da due soli soci rimangono comunque attivabili tutte le opzioni previste dall’art. 2284 c.c. Ove i superstiti optino per lo scioglimento della società, su tale decisione gli eredi, o legatari, del de cuius non possono incidere, giacché la loro posizione non è quella di soci, non essendo subentrati in tale veste al de cuius, ma di meri creditori della quota di liquidazione del loro dante causa. In tale ipotesi, quindi, cessa immediatamente il diritto a vedersi liquidata la quota del proprio dante causa nell’arco dei sei mesi dalla sua morte, e al fine di conseguire il valore di detta quota essi dovranno necessariamente attendere la conclusione delle operazioni relative alla liquidazione della società. In tale sede gli eredi del socio defunto, unitamente ai soci superstiti, potranno partecipare alla divisione dell’eventuale attivo, quale residuerà dopo l’estinzione di tutte le passività sociali. Invero, il diritto alla liquidazione della quota rimane attratto nel più esteso ambito della liquidazione della società, prodotta da tale scioglimento, e nella relativa sede è tutelabile. Gli eredi non assumono tuttavia la qualità di soci della società in liquidazione, partecipando solo alla distribuzione dell’eventuale attivo e, dunque, per converso, non dovendo anticipare le spese di liquidazione.
Il prezzo della compravendita è tale da determinare la carenza di causa del contratto solo laddove sia concordato un prezzo obiettivamente non serio o perché privo di valore reale e perciò meramente apparente e simbolico, o perché programmaticamente destinato nella comune intenzione delle parti a non essere pagato. Da ciò consegue che la pattuizione di un prezzo notevolmente inferiore al valore di mercato della cosa venduta, ma non del tutto privo di valore, può rilevare sotto il profilo dell’individuazione del reale intento negoziale delle parti e della effettiva configurazione e operatività della causa del contratto, ma non può determinare la nullità del medesimo per la mancanza di un requisito essenziale.
La prova privilegiata nell’abuso di posizione dominante
Ai fini del risarcimento del danno per violazione delle disposizioni sul diritto della concorrenza, l’art. 7 d.lgs. 19 gennaio 2017, n. 3 dev’essere interpretato nel senso che la decisione definitiva con cui l’autorità garante della concorrenza e del mercato accerta una violazione antitrust costituisce prova privilegiata, nei confronti dell’autore della condotta, della sussistenza del comportamento contestato, salvo che, in sede risarcitoria, sia possibile offrire prove di segno contrario. L’effetto derivante dalla natura di prova privilegiata è, però, circoscritto alla natura della violazione e alla sua portata materiale, personale, temporale e territoriale, ma non anche al nesso di causalità e all’esistenza e quantificazione del danno, da indagarsi specificamente in sede risarcitoria, dinanzi al giudice civile, secondo gli ordinari criteri di imputazione dell’onere della prova.
Pur tenendo conto della possibile asimmetria informativa esistente tra le parti nell’accesso alla prova, va mantenuto fermo l’onere dell’attore, che agisce per il risarcimento del danno da violazione antitrust, di indicare, in modo sufficientemente plausibile, i seri indizi dimostrativi della fattispecie denunciata come idonea ad alterare la libertà di concorrenza e a ledere il suo diritto di godere del beneficio della competizione commerciale, con la precisazione che si deve trattare di elementi di cui egli possa essere in possesso o ai quali possa comunque accedere nella sua ordinaria attività e senza particolari difficoltà. Spetta, invece, al giudice l’onere di valorizzare gli strumenti di indagine e conoscenza che le norme processuali già prevedono, interpretando estensivamente le condizioni stabilite dal codice di procedura civile in tema di esibizione di documenti, richiesta di informazioni e consulenza tecnica d’ufficio, al fine di esercitare, anche officiosamente, quei poteri d’indagine, acquisizione e valutazione di dati e informazioni utili per ricostruire la fattispecie anticoncorrenziale denunciata. Sussiste, però, un onere per la parte attrice di dare conto di tutti gli elementi di cui possa essere in possesso o ai quali possa comunque accedere nella sua ordinaria attività e senza particolari difficoltà.
Il metodo di accertamento di tipo statistico della violazione antitrust, basato sulla frequenza dell’evento indagato all’interno di un campione rappresentativo, può essere utilizzato dall’autorità amministrativa ai fini dell’adozione del provvedimento sanzionatorio, ma non è, invece, ammesso nell’ambito del processo civile, al fine di inferire l’esistenza del fatto ignoto. La mera successione temporale di eventi, sulla base delle quali sono costruite le rilevazioni statistiche, non è, infatti, idonea a dare conto della corretta ricostruzione delle catene causali che portano alla valutazione di singoli eventi. Un apporto cognitivo di tale natura potrebbe, invero, rivestire al più un mero carattere indiziario o rafforzativo e confermativo di altri elementi di prova, dal complesso dei quali poter accertare il fatto da provare.
La responsabilità per danni diretti ex art. 2395 c.c. e onere probatorio
L’art. 2395 c.c. costituisce la norma di chiusura del sistema codicistico della responsabilità civile degli amministratori di società di capitali, la cui applicazione richiede la verifica in ordine alla sussistenza di fatti illeciti imputabili agli amministratori stessi, vale a dire di comportamenti dolosi o colposi cui siano riconducibili in via immediata i danni derivati direttamente nel patrimonio del socio o del terzo, secondo le regole in tema di responsabilità extracontrattuale. In specie, l’azione individuale prevista dalla norma in commento postula la lesione di un diritto soggettivo patrimoniale del socio o del terzo che non sia conseguenza del depauperamento del patrimonio della società. Orbene, la responsabilità dell’amministratore nei confronti del terzo non scaturisce dal mero inadempimento contrattuale posto in essere nella gestione della società e ad essa imputabile, bensì deve concretizzarsi in un’ulteriore azione degli amministratori costituente illecito extracontrattuale, direttamente lesiva di un diritto soggettivo patrimoniale del terzo. Costituisce, dunque, illecito rilevante ai sensi dell’art. 2395 c.c. ogni fatto, doloso o colposo, commesso dagli amministratori in occasione dell’esercizio delle loro funzioni gestorie, che rechi al terzo un danno ingiusto tale da riverberarsi direttamente nel suo patrimonio.
Trattandosi di responsabilità aquiliana, il terzo danneggiato è onerato della prova dei presupposti, soggettivi e oggettivi, di tale responsabilità. Tanto premesso, l’accoglimento dell’azione risarcitoria proposta a norma dell’art. 2395 c.c. richiede l’accertamento non solo della condotta contra legem ma anche, al pari di ogni altra azione risarcitoria, l’allegazione e prova del danno lamentato e del nesso causale intercorrente tra questo e la condotta stessa.
Tra le condotte contra legem suscettibili di generare responsabilità in capo agli amministratori e alla società vi è la propalazione di informazioni false o incomplete o comunque decettive in ordine alla situazione economico-patrimoniale della società stessa, informazioni in base alle quali il socio o il terzo abbiano determinato proprie scelte di investimento, o disinvestimento, relative alla società stessa, quali acquisti di partecipazioni da altri soci, vendite di partecipazioni, sottoscrizioni di aumenti di capitale, ecc.
In presenza di una domanda risarcitoria ex art. 2395 c.c., incombe sul terzo danneggiato l’onere di provare, sulla scorta del principio del “più probabile che non”, la ricorrenza delle falsità e l’idoneità della prospettazione non veritiera a trarre in inganno il contraente, di fatto determinando la conclusione del contratto. In particolare, incombe sull’acquirente l’onere di allegare e dimostrare che per effetto della rappresentazione illegittima della situazione patrimoniale ed economica contenuta nel bilancio, egli abbia acquistato le azioni di quella società.
Accordi di risanamento, meritevolezza del contratto e divieto di patto commissorio
Il diritto dei contratti non impone un’uguaglianza assoluta tra le parti riguardo a condizioni, termini e vantaggi economici e contrattuali. Pertanto, non è la discrepanza tra prestazione e controprestazione a rendere un contratto immeritevole di tutela ai sensi dell’art. 1322 c.c., purché tale differenza sia stata compresa ed accettata in piena libertà ed autonomia dalle parti stesse.
Il divieto di patto commissorio e la conseguente sanzione di nullità radicale sono estesi a qualsiasi negozio, tipico o atipico, quale che ne sia il contenuto, che sia in concreto impiegato per conseguire il fine, riprovato dall’ordinamento, dell’illecita coercizione del debitore. Pertanto, in ogni ipotesi in cui quest’ultimo sia costretto ad accettare il trasferimento di un bene a scopo di garanzia, nell’ipotesi di mancato adempimento di una obbligazione assunta per causa indipendente dalla predetta cessione, è ravvisabile un aggiramento del divieto di cui agli artt. 1963 e 2744 c.c.
Nell’ambito dell’accertamento di una eventuale violazione del divieto di patto commissorio, il giudice di merito non deve limitarsi a un esame formale degli atti posti in essere dalle parti, ma deve considerarne la causa in concreto e, in caso di operazione complessa, valutare gli atti medesimi alla luce di un loro potenziale collegamento funzionale, apprezzando ogni circostanza di fatto rilevante e il risultato stesso che l’operazione negoziale era idonea a produrre e, in concreto, ha prodotto. Rientra in detta articolata casistica anche l’ipotesi in cui le parti pongano in essere più negozi, tra loro uniti da un vincolo di collegamento, configurabile anche quando siano stipulati tra soggetti diversi, purché essi risultino concepiti e voluti come funzionalmente connessi e interdipendenti, al fine di un più completo ed equilibrato regolamento degli interessi, ove dalla loro disamina emerga un assetto di interessi complessivo tale da far ritenere che il procedimento negoziale attraverso il quale venga compiuto il trasferimento di un bene dal debitore al creditore sia effettivamente collegato, piuttosto che alla funzione di scambio, a uno scopo di garanzia.
A prescindere dalla natura obbligatoria o reale del contratto o dei contratti che le parti pongono in essere, ovvero dal momento temporale in cui l’effetto traslativo sia destinato a verificarsi, nonché dagli strumenti negoziali destinati alla sua attuazione e, persino, dall’identità dei soggetti che abbiano stipulato i negozi collegati, complessi o misti, si configura una violazione del divieto di cui all’art. 2744 c.c. qualora tra le diverse pattuizioni sia dato ravvisare un rapporto di interdipendenza tale che le stesse risultino funzionalmente preordinate a realizzare una situazione del tutto analoga a quella vietata dalla legge.
La conversione di crediti in azioni, lungi dal costituire una violazione del patto commissorio o di altra disposizione imperativa prevista dall’ordinamento, oltre a essere una prassi frequente sia nell’ambito di società in bonis sia nell’ambito delle procedure di ristrutturazione dei debiti, è un’ipotesi ritenuta lecita dal legislatore, tanto da essere espressamente prevista e disciplinata nell’ipotesi di concordato preventivo (art. 160, co. 1, lett. a, l. fall.) e pacificamente avallata dalla giurisprudenza di legittimità.
Rilevanza dei vizi dei beni ricompresi nel patrimonio sociale nella cessione di partecipazioni
La cessione delle azioni di una società di capitali o di persone fisiche ha come oggetto immediato la partecipazione sociale e solo quale oggetto mediato la quota parte del patrimonio sociale che tale partecipazione rappresenta. Sicché le carenze o i vizi relativi alle caratteristiche e al valore dei beni ricompresi nel patrimonio sociale – e, di riverbero, alla consistenza economica della partecipazione – possono giustificare la risoluzione per difetto di qualità della cosa venduta ai sensi dell’art. 1497 c.c. o l’annullamento del contratto per error in obiecto (necessariamente attinente ai diritti e obblighi che, in concreto, la partecipazione sociale sia idonea ad attribuire e non al suo valore economico), solo se il cedente abbia fornito, a tale riguardo, specifiche garanzie contrattuali; ovvero nel caso di dolo di un contraente, quando il mendacio o le omissioni sulla situazione patrimoniale della società siano accompagnate da malizie e astuzie volte a realizzare l’inganno e idonee, in concreto, a sorprendere una persona di normale diligenza.
Estinzione del giudizio con sentenza
Qualora la rinuncia agli atti del giudizio e la conseguente accettazione pervengano dopo la rimessione della causa al collegio per la decisione, il provvedimento che definisce il giudizio deve, quanto alla forma, essere reso con sentenza ex art. 307, co. 4, c.p.c.
Esclusione del socio di cooperativa: interesse ad agire per l’accertamento della legittimità della delibera e riflessi sul rapporto contrattuale con la società
In termini generali l’interesse ad agire, costituendo una condizione per far valere il diritto sotteso mediante l’azione, si identifica nell’esigenza di ottenere un risultato utile giuridicamente apprezzabile e non conseguibile senza l’intervento del giudice. In particolare, nell’azione di mero accertamento esso presuppone uno stato di incertezza oggettiva sull’esistenza di un rapporto giuridico, tale da arrecare all’interessato un pregiudizio concreto e attuale, che si sostanzia in un’illegittima situazione di fatto continuativa. L’interesse ad agire che connota l’azione di accertamento presuppone, dunque, la violazione del diritto vantato dall’attore mediante la contestazione del convenuto che minando la certezza della sua esistenza arreca concreto pregiudizio al suo titolare [Nel caso di specie, mancando ogni contestazione da parte del socio escluso, rimasto anche contumace nel giudizio, la domanda di accertamento della legittimità dell’esclusione del socio avanzata dalla società è stata dichiarata inammissibile].
Solo la risoluzione di diritto del rapporto contrattuale di locazione dell’alloggio che lega il socio alla cooperativa può giustificare la condanna del convenuto alla restituzione dell’abitazione e al pagamento dell’indennità di occupazione sino alla data dell’effettivo rilascio, e solo una specifica previsione contrattuale o statutaria può stabilire tra il rapporto sociale e il rapporto contrattuale espressione della finalità mutualistica una interdipendenza tale che dallo scioglimento dell’uno derivi anche di diritto lo scioglimento dell’altro.
Principio di veridicità del bilancio e redazione dell’ordine del giorno
L’illegittima appostazione a bilancio di un fondo rischi generico non verificabile nella sua genesi, rilevazione e stima si traduce in un grave difetto di chiarezza del bilancio che ne determina la nullità.
L’appostazione di un credito verso l’erario di consistenza diversa da quella dichiarata all’agenzia delle entrate, rende nullo il bilancio per la violazione del principio di veridicità e chiarezza.
L’indicazione, nell’avviso di convocazione dell’assemblea dei soci, dell’elenco delle materie da trattare ha la duplice funzione di rendere edotti i soci circa gli argomenti sui quali essi dovranno deliberare, per consentire la loro partecipazione all’assemblea con la necessaria preparazione ed informazione, e di evitare che sia sorpresa la buona fede degli assenti a seguito di deliberazione su materie non incluse nell’ordine del giorno. A tal fine, tuttavia, non è necessaria un’indicazione particolareggiata delle materie da trattare, ma è sufficiente un’indicazione sintetica, purché chiara e non ambigua, specifica e non generica, la quale consenta la discussione e l’adozione da parte dell’assemblea dei soci anche delle eventuali deliberazioni consequenziali ed accessorie.