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Tribunale di Bologna


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Vendita online di kit adesivi raffiguranti il marchio Red Bull: contraffazione del marchio e concorrenza sleale

Con riferimento alla concorrenza sleale ex art. 2598 co. 1 n. 1 c.c., sebbene siano astrattamente compatibili e cumulabili la tutela dei segni distintivi prevista dal codice della proprietà industriale e quella prevista dal codice civile in tema di concorrenza sleale, va condiviso il principio per cui la medesima condotta può integrare sia la contraffazione della privativa industriale sia la concorrenza sleale per l’uso confusorio di segni distintivi solo se la condotta contraffattoria integri anche una delle fattispecie rilevanti ai sensi dell’art. 2598 c.c., cioè a dire che va esclusa la concorrenza sleale se il titolare della privativa industriale si sia limitato a dedurre la sua contraffazione se le due condotte consistano nel medesimo addebito integrante la violazione del segno o del brevetto. In buona sostanza, dall’illecito contraffattorio non discende automaticamente la concorrenza sleale, che – dunque – deve constare di un quid pluris rispetto alla pura violazione del segno o del brevetto, cioè di una modalità ulteriore afferente il fatto illecito, prima che la natura (reale o personale dell’azione) o i presupposti (il rapporto di concorrenza, l’idoneità dannosa, l’elemento psicologico) o le sanzioni previste dalle due tutele. [Nella fattispecie, pertanto, l’illecito concorrenziale è assorbito dalla contraffazione del marchio, per l’identità della condotta e la mancata allegazione di una connotazione confusoria ulteriore rispetto all’uso di segno uguale o simile. In definitiva, va affermato che la vendita on-line da parte della convenuta di kit di adesivi recanti i marchi registrati dell’attrice integra esclusivamente contraffazione ai sensi dell’art. 20 lett. a) (segno identico per prodotto identico) e lett. c) (segno identico per prodotti anche non affine, essendo il marchio rinomato) CPI.]

 

14 Maggio 2020

Gli interessi degli amministratori ex art. 2391 c.c. e la responsabilità degli stessi verso la società ex art. 2392 c.c.

Costituisce violazione dell’art. 2391 c.c. l’atto gestorio dell’amministratore che, concludendo operazioni negoziali in spregio alla riserva di collegialità prevista da precedente delibera consiliare, autorizzi operazioni patrimonialmente rilevanti ed onerose con parti correlate, omettendo di rendere gli altri amministratori compiutamente partecipi dei propri interessi personali.

Non sussiste responsabilità dell’amministratore, laddove – anche accertato l’inadempimento dello stesso ai propri obblighi gestori – il danno risulti mancante per la caducazione del provvedimento giudiziale posto a base della contestazione attorea (nel caso di specie, decreto ingiuntivo per prestazioni professionali rese dallo studio professionale nel quale l’amministratore convenuto aveva un interesse personale).

14 Maggio 2020

Cessione di partecipazioni sociali

Il requisito indefettibile del negozio donativo, così come di ogni altro negozio giuridico liberale, è rappresentato dall’animus donandi, la cui prova deve essere fornita da colui che prospetti in giudizio la simulazione relativa di una compravendita quale dissimulazione di una donazione diretta, non essendo tale intento automaticamente desumibile dalla sproporzione tra le due entità economiche – ovverosia valore e corrispettivo della cessione – o dall’assenza di un interesse economico in capo al cedente. Se così fosse ogni compravendita con corrispettivo meramente simbolico o sproporzionato per difetto finirebbe per dover essere intesa come dissimulante in verità un negozio giuridico liberale. In ogni caso, così come osservato dalla Giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. civ. sez. II, 10/09/2019, n. 22617), il prezzo di compravendita di una partecipazione sociale deve ritenersi inesistente – con conseguente nullità del contratto per mancanza di un elemento essenziale – quando risulti concordato un prezzo non serio, perché privo di valore e perciò meramente simbolico: ciò a maggior ragione nel caso in cui non sia stato concluso a latere della cessione un altro negozio dal quale lo stesso cedente possa aver ottenuto un vantaggio economico, giuridico o anche solo empirico da tale operazione, contrastando la stessa con il principio di razionalità degli spostamenti di ricchezza.

12 Maggio 2020

Azione di rivendica di design comunitario tra questioni di giurisdizione ed accertamento della titolarità dei diritti patrimoniali

L’azione di rivendicazione di cui all’art. 118 c.p.i. si traduce in un rimedio giuridico-processuale diverso ed alternativo opposto rispetto all’azione di nullità, in quanto finalizzato non alla rimozione erga omnes del titolo, bensì all’accertamento giudiziale della titolarità in capo al soggetto che agisce. Tale azione rientra dunque nella competenza del giudice nazionale anche con riferimento al design comunitario ai sensi dell’art. 93 del medesimo Regolamento Europeo, secondo il quale, le azioni diverse da quelle di contraffazione e nullità vanno “proposte dinanzi all’autorita giudiziaria che sarebbe competente per territorio e per materia in ordine alle azioni riguardanti il disegno o modello nazionale registrato dallo Stato stesso”.

Se, da un lato, è vero che il collegamento richiesto con la domanda principale non deve intendersi in senso restrittivo, ben potendo la domanda riconvenzionale dipendere da un titolo diverso, dall’altro, è pur vero che è, comunque, necessario (e sufficiente) che la domanda riconvenzionale sia collegata in maniera oggettiva con la pretesa principale, in modo tale da rendere necessario ed opportuno il simultaneus processus, in ossequio ai principi di economia processuale e del giusto processo (nel caso di specie il Tribunale ha reputato che la domanda riconvenzionale del convenuto – il quale inter alia aveva chiesto accertarsi la titolarità di un marchio asseritamente utilizzato da controparte – fosse inammissibile ai sensi dell’art. 36 c.p.c., non dipendendo dallo stesso titolo azionato in giudizio dall’attrice).

Sebbene l’art. 64 CPI si propone come norma dettata espressamente per le invenzioni del lavoratore subordinato, essa ha tuttavia portata generale, suscettibile di applicazione analogica anche ai rapporti di lavoro parasubordinato e autonomo.

Nei casi in cui l’attività inventiva costituisca l’oggetto della prestazione del lavoratore autonomo, del consulente o del professionista, si deve concludere che, salvo diversa pattuizione, i diritti patrimoniali derivanti dall’invenzione nascano direttamente in capo al committente che abbia commissionato l’invenzione.

11 Maggio 2020

Trattamento di fine mandato quale elemento eventuale del compenso dell’amministratore di s.r.l.

In tema di trattamento economico dell’amministratore, il trattamento di fine mandato non costituisce un accessorio del compenso, che sia dovuto per legge, ma una gratifica del tutto eventuale, che può essere riconosciuta allo stesso solo in forza di una libera contrattazione delle parti e, quindi, di una volontà positivamente espressa in tal senso.

Affinché si pervenga a una declaratoria di sospensione del processo ex art. 295 c.p.c., ovvero ex art. 337, co. 2, c.p.c., è necessario che la questione sottoposta al giudice preventivamente adito sia in rapporto di pregiudizialità necessaria con quella oggetto del secondo giudizio. La prima questione deve, pertanto, costituire un antecedente logico giuridico rispetto alla decisione della causa della quale si chiede la sospensione, di talché questa non può essere definita senza prima pervenire ad una decisione sulla causa pregiudicante. La nozione di pregiudizialità ricorre quando una situazione sostanziale rappresenti fatto costitutivo o comunque elemento della fattispecie di un’altra situazione sostanziale, sicché occorre garantire uniformità di giudicati, perché la decisione del processo principale è idonea a definire in tutto o in parte il tema dibattuto. Quando tra due giudizi esista un rapporto di pregiudizialità e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato, la sospensione del giudizio pregiudicato può essere disposta soltanto ai sensi dell’art. 337, co. 2, c.p.c. Tale disposizione, a differenza dell’art. 295 c.p.c., presuppone una valutazione discrezionale in capo al giudice, valutazione che deve necessariamente avere ad oggetto la plausibile controvertibilità della decisione di cui venga invocata l’autorità in quel processo.

30 Aprile 2020

Sulla compromettibilità in arbitri delle impugnazioni di delibere assembleari

Attengono a diritti indisponibili, come tali non compromettibili in arbitri ex art. 806 cod. proc. civ., soltanto le controversie relative all’impugnazione di deliberazioni assembleari di società aventi oggetto illecito o impossibile, le quali danno luogo a nullità rilevabile anche di ufficio dal giudice, cui sono equiparate, ai sensi dell’art. 2479 ter cod. civ., quelle prese in assoluta mancanza di informazione. Tra tali delibere non rientrano quelle di revoca degli amministratori.

28 Aprile 2020

La ripartizione dell’onere probatorio tra cedente e cessionario di quote di S.r.l.

In un contratto di promessa di cessione di quote di S.r.l. , la clausola in esame che ricollega alla mancata messa in mora una presunzione di avvenuto pagamento da parte del cessionario, comporta un’inversione dell’onere probatorio e fa gravare sul cedente una vera e propria probatio diabolica, giacché egli, qualora intenda contestare l’avvenuto pagamento, risulta onerato di dare dimostrazione del fatto che il cessionario non abbia adempiuto: prova negativa evidentemente quasi impossibile da fornire. Il patto in parola, dunque, contrasta con il disposto dell’art. 2698 c.c., secondo il quale alle parti è data la facoltà di intervenire sul regime dell’onere probatorio, salvo che l’inversione o la modificazione abbiano come effetto di rendere eccessivamente difficile all’interessato l’esercizio del diritto. La violazione di tale limite, rilevabile d’ufficio, comporta l’invalidità della clausola, che deve dunque essere ritenuta nulla e non produttiva di effetti nel caso di specie.

16 Aprile 2020

Responsabilità degli amministratori verso la società ex artt. 2392 e 2393 c.c. e verso i creditori sociali ex art. 2394 c.c.: differenti presupposti e finalità

L’azione di responsabilità dei creditori sociali nei confronti degli amministratori di società ex art. 2394 c.c., anche quando promossa dal curatore fallimentare a norma dell’art. 146 l.fall. (Cass. 24715 del 2015), non riguarda il mancato pagamento di singoli crediti e presuppone, invece, la dimostrazione che, in conseguenza dell’inadempimento delle obbligazioni ex artt. 2476, c. 1 e 2486 c.c., e della violazione del dovere di amministrare con competenza e diligenza, sia andata persa la garanzia patrimoniale generica e, cioè, che, per l’eccedenza delle passività sulle attività, il patrimonio sociale sia divenuto insufficiente a soddisfare le ragioni del ceto creditorio, situazione non necessariamente coincidente con lo stato di insolvenza o con la perdita integrale del capitale sociale (che possono verificarsi pur in presenza di attivi da liquidare idonei a soddisfare il ceto creditorio Cass. n. 28613 del 2019).

L’azione sociale è diretta semplicemente alla reintegrazione del patrimonio della fallita, l’azione dei creditori invece non si interessa del patrimonio sociale di per sé, ma quale garanzia per i terzi, e può essere accolta nel momento in cui sia dimostrata la insufficienza del patrimonio residuo a soddisfare i creditori della società fallita, e il nesso causale tra la situazione descritta e la condotta colposa dell’amministratore. Va altresì rilevato che secondo l’orientamento tradizionale l’azione dei creditori è volta a far valere una responsabilità extracontrattuale, non contrattuale, con la conseguente diversa ripartizione dell’onere della prova: spetta quindi all’attore la dimostrazione sia della condotta colposa, e illecita, posta in essere dall’amministratore che del danno causato, in nesso di causa effetto rispetto alla condotta.

16 Aprile 2020

Convocazione dell’assemblea dei soci nelle srl

La giurisprudenza di merito e di legittimità consente di convocare l’assemblea al socio di s.r.l., che abbia la partecipazione di almeno un terzo nel capitale sociale ex art. 2479 c.c.. Una tale facoltà deve ritenersi esercitabile sia nel caso di inerzia dell’organo amministrativo della società (cfr. Cass. civ., Sez. 1, Sentenza n. 10821 del 25/05/2016), sia, secondo una parte consistente e autorevole della giurisprudenza di merito, anche in difetto di inerzia, nelle situazioni in cui il socio intenda convocare direttamente l’assemblea per sottoporle delle questioni. Secondo una teoria più estensiva, non esorbita dai propri poteri il socio, che possieda almeno in terzo del capitale sociale, come previsto dall’art.2379 co.1 c.c. [ovvero addirittura come avviene nella fattispecie, il 100% del capitale sociale] che convochi direttamente l’assemblea, e ciò nemmeno a fronte di una disposizione statutaria, che riserva tale potere al solo organo amministrativo.
Anche aderendo a tale teoria, e quindi ritenendo la legittimazione dei soci a convocare l’assemblea, e regolare sotto questo profilo la convocazione, la mancata tempestiva ricezione dell’avviso di convocazione all’amministratore destinatario – sì spedita ben prima di otto giorni dalla data dell’assemblea ai sensi degli artt. 2479 bis co. 1 c.c. – deve ritenersi dirimente e di portata assorbente su ogni altra questione: l’art. 2479 bis c. 4 c.c. prevede che il presidente dell’assemblea deve verificare la regolarità della costituzione dell’assemblea, mentre, al successivo comma 5, richiede per l’adozione della delibera che siano presenti o, per lo meno, che siano informati della riunione tra gli altri, tutti gli amministratori. Di conseguenza, la decisione dell’assemblea non validamente convocata deve essere dichiarata nulla ex art. 2479 ter co. 3 c.c., in quanto assunta in assenza assoluta di informazione.

16 Aprile 2020

Contratto di trasferimento di azioni: clausola di revisione del prezzo e suoi effetti

La clausola di revisione del corrispettivo concordato per la cessione di azioni, che prevede integrazioni o diminuzioni di prezzo in relazione al diverso valore dell’indebitamento netto alla data del trasferimento delle azioni, da accertarsi mediante apposita audit in caso di disaccordo tra le parti, non implica un obbligo incondizionato di pagamento del prezzo stabilito, che escluda la ordinaria proponibilità delle eccezioni, e quindi, la sospensione del pagamento, in attesa della revisione del prezzo; non vi è pertanto ragione di escludere la possibilità dell’acquirente di avvalersi della eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c.

Conseguentemente, in presenza di una variazione dell’indebitamento netto, che risulti assai superiore a quello utilizzato nella contrattazione come parametro per la determinazione del prezzo, la sospensione dell’adempimento delle obbligazioni a carico del compratore si giustifica, in via di eccezione, ex art. 1460 c.c.