Tribunale di Roma
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Nullità della delibera assembleare di cooperativa per impossibilità dell’oggetto
In tema di invalidità delle deliberazioni assembleari delle società di capitali vige il principio in virtù del quale la regola generale è quella dell’annullabilità. La nullità è infatti limitata ai soli casi di impossibilità o illiceità dell’oggetto che ricorrono quando il contenuto della deliberazione confligga con norme dettate a tutela degli interessi generali, che trascendono l’interesse del singolo socio, dirette ad impedire deviazioni dallo scopo economico-pratico del rapporto di società, con la conseguenza che la violazione di norme di legge, anche di carattere imperativo in materia societaria, comporta la mera annullabilità della delibera. Il legislatore, quindi, ha inteso relegare la nullità in ipotesi residuali e tassative di invalidità delle deliberazioni, prediligendo il rimedio meno grave dell’annullabilità.
La delibera assembleare avente ad oggetto la rinuncia ai crediti vantati da tutti i soci verso la società, finalizzata a ripianare le perdite, è nulla per impossibilità dell’oggetto, in quanto non idonea ad estinguere anche i crediti vantati dai soci assenti, i quali, non avendo prestato alcun consenso, non possono essere in tal modo obbligati a rinunciare al proprio diritto.
Presupposti dell’azione revocatoria
Nel caso di atto dispositivo eseguito a titolo oneroso, in ottica di tutela del terzo avente causa – il quale comunque ha versato un controvalore a fronte del negozio stipulato in suo favore – appare necessario che l’attore, oltre a provare la conoscenza in capo al debitore del pregiudizio arrecato alle ragioni creditorie con l’atto dispositivo, dimostri che anche il terzo ne fosse a conoscenza o, perlomeno, ne avesse la conoscibilità.
Qualora la disposizione a titolo oneroso sia stata posta in essere prima dell’esistenza del credito, il creditore sarà chiamato a provare anche la c.d. partecipatio fraudis, ossia che il terzo, avente causa, fosse a conoscenza della dolosa preordinazione dell’alienazione, da parte del debitore, con riguardo al credito. La prova della participatio fraudis del terzo può essere ricavata anche da presunzioni semplici.
Azione sociale di responsabilità e azione dei creditori: natura delle azioni e unitarietà delle stesse quando esercitate dal curatore
L’azione contro amministratori, liquidatori e sindaci, esercitata dal curatore del fallimento ex art. 146 l.f. compendia in sé tanto l’azione sociale di responsabilità quanto il rimedio accordato ai creditori a fronte della inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale ed è diretta alla reintegrazione del patrimonio della società, visto unitariamente come garanzia sia dei soci che dei creditori sociali. Detta azione ha carattere unitario ed inscindibile, risultando frutto della confluenza in un unico rimedio delle due diverse azioni di cui agli artt. 2393 e 2394 c.c. Pertanto, proprio in ragione della unitarietà ed inscindibilità dell’azione di responsabilità, il curatore può impostare la domanda di risarcimento contro gli amministratori e i sindaci avvalendosi del regime che, in relazione alla fattispecie concreta, si palesi più favorevole. Così, potrà giovarsi delle più favorevoli regole che governano il riparto dell’onere della prova nelle azioni di responsabilità contrattuale (quale è, indubbiamente, l’azione sociale di responsabilità) e, del pari, potrà avvalersi del regime della prescrizione che, in relazione alla fattispecie concreta, risulti più favorevole.
La maturazione del termine prescrizionale – in entrambi i casi di durata quinquennale – deve essere valutata in riferimento allo specifico dies a quo relativo a ciascuna delle due azioni. Quanto all’azione sociale di responsabilità, l’art. 2393, co. 4, c.c. prevede che la predetta azione “può essere esercitata entro cinque anni dalla cessazione dell’amministratore dalla carica”. Tuttavia, un’analoga disposizione non si rinviene nell’art. 2476 c.c., con la conseguenza che in riferimento all’azione sociale di responsabilità nei confronti di amministratori di s.r.l. rimane operante il termine prescrizionale breve di cinque anni previsto in via generale dall’art. 2949 c.c. per i diritti derivanti dai rapporti sociali. Sicché, in virtù del principio di cui all’art. 2935 c.c., detto termine decorre dal giorno in cui il diritto al risarcimento può essere fatto valere e, dunque, dal verificarsi dell’evento dannoso ovvero dalla data di commissione dell’illecito foriero di pregiudizi al patrimonio sociale o, se successivo, dal prodursi dei relativi effetti pregiudizievoli. Con riferimento, invece, all’azione di responsabilità di cui all’art. 2394 c.c., il dies a quo per il computo del termine di prescrizione – pur sempre quinquennale – va rinvenuto nel momento in cui sia divenuta manifesta ed oggettivamente percepibile all’esterno l’insufficienza del patrimonio sociale al soddisfacimento dei creditori. E tanto sempre in forza del disposto dell’art. 2935 c.c. e alla luce del dettato del secondo comma dell’art. 2394 c.c., il quale dispone che “l’azione può essere proposta dai creditori quando il patrimonio sociale risulta insufficiente al soddisfacimento dei loro crediti”. Ne consegue che il termine di prescrizione quinquennale per l’esercizio dell’azione sociale di responsabilità ai sensi dell’art. 2393 c.c. e dell’azione di responsabilità dei creditori sociali ex art. 2394 c.c. decorre: (i) per l’azione sociale di responsabilità, dal momento in cui il danno diventa oggettivamente percepibile all’esterno, manifestandosi nella sfera patrimoniale della società (termine il cui decorso rimane sospeso, ex art. 2941, n. 7, c.c. fino alla cessazione dell’amministratore dalla carica) e (ii) per l’azione di responsabilità dei creditori, dal momento dell’oggettiva percepibilità, da parte dei creditori stessi, dell’insufficienza del patrimonio a soddisfare i crediti che risulti da qualsiasi fatto che possa essere conosciuto. Allorquando le due azioni vengano esercitate congiuntamente dal curatore fallimentare ai sensi dell’art. 146 l.f., sussiste in ogni caso una presunzione iuris tantum di coincidenza tra il dies a quo di decorrenza della prescrizione e la dichiarazione di fallimento, ricadendo sugli amministratori convenuti la prova contraria della diversa data anteriore di insorgenza dello stato di incapienza patrimoniale, con la deduzione di fatti sintomatici di assoluta evidenza.
L’azione sociale, anche se esercitata dal curatore fallimentare, ha natura contrattuale. Ne consegue che, mentre sull’attore (società o procedura fallimentare) grava esclusivamente l’onere di dedurre le violazioni agli obblighi gravanti sugli amministratori e provare il nesso di causalità tra queste ed il danno verificatosi, incombe, per converso, sugli amministratori l’onere di riscontrare la non ascrivibilità del fatto dannoso, fornendo l’evidenza, con riferimento agli addebiti contestati, dell’osservanza dei doveri e dell’adempimento degli obblighi loro imposti. L’inadempimento si presumerà colposo e, quindi, non spetterà al fallimento attore fornire la prova della colpa degli amministratori, mentre spetterà al convenuto amministratore evidenziare di avere adempiuto il proprio “munus” con diligenza ed in assenza di conflitto di interessi con la società, ovvero che l’inadempimento è stato determinato da causa a lui non imputabile ex art. 1218 c.c., ovvero, ancora, che il danno è dipeso dal caso fortuito o dal fatto di un terzo. Il soggetto che agisce con l’azione in argomento è, però, onerato della allegazione e della prova, sia pure mediante presunzioni, dell’esistenza di un danno concreto, cioè del depauperamento del patrimonio sociale, di cui chiede il risarcimento, e della riconducibilità della lesione al fatto dell’amministratore inadempiente, quand’anche cessato dall’incarico. In ciò, infatti, consiste il danno risarcibile, il quale è un quid pluris rispetto alla condotta asseritamente inadempiente. In difetto di tale allegazione e prova la domanda risarcitoria difetterebbe, infatti, di oggetto.
Di contro, l’azione spettante ai creditori sociali ai sensi dell’art. 2394 c.c. costituisce conseguenza dell’inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale e presuppone l’assenza di un preesistente vincolo obbligatorio tra le parti e un comportamento dell’amministratore funzionale a una diminuzione del patrimonio sociale di entità tale da rendere lo stesso inidoneo per difetto ad assolvere la sua funzione di garanzia generica (art. 2740 c.c.), con conseguente diritto del creditore sociale di ottenere, a titolo di risarcimento, l’equivalente della prestazione che la società non è più in grado di compiere. Condizione indefettibile per l’utile esercizio dell’azione di cui all’art. 2394 c.c. è che il patrimonio della società risulti insufficiente a soddisfare il credito. A tal proposito, l’insufficienza patrimoniale dovrà essere individuata nell’eccedenza delle passività sulle attività del patrimonio netto dell’impresa, ovverosia in una situazione in cui l’attivo sociale, raffrontato ai debiti della società, risulti insufficiente al soddisfacimento di questi ultimi. Essa va distinta, dunque, dall’eventualità della perdita integrale del capitale sociale, dal momento che quest’ultima evenienza può verificarsi anche quando vi sia un pareggio tra attivo e passivo perché tutti i beni sono assorbiti dall’importo dei debiti e, quindi, tutti i creditori potrebbero trovare di che soddisfarsi nel patrimonio della società. L’insufficienza patrimoniale, del resto, è una condizione più grave e definitiva della mera insolvenza, indicata dall’art. 5 l.f. come incapacità di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni, potendosi una società trovare nell’impossibilità di far fronte ai propri debiti ancorché il patrimonio sia integro, così come potrebbe accadere l’opposto, vale a dire che l’impresa presenti una eccedenza del passivo sull’attivo, pur permanendo nelle condizioni di liquidità e di credito richieste (per esempio ricorrendo ad ulteriore indebitamento). Quanto agli altri elementi costitutivi dell’azione sociale in esame, essi vanno individuati nell’ascrivibilità, agli amministratori, di una condotta illegittima e la sussistenza di un rapporto di causalità tra tale condotta ed il pregiudizio subito dal patrimonio della persona giuridica.
La responsabilità risarcitoria dell’amministratore va riconnessa non ad una qualunque condotta illecita od omissione delle cautele ed iniziative dovute per legge e per statuto, ma solo a quelle condotte di mala gestio che, oltre ad integrare violazione degli obblighi gravanti sull’amministratore in forza della carica rivestita, risultino, altresì, foriere di danni per il patrimonio sociale. In altri termini, la parte che agisca per far valere la responsabilità dell’amministratore ha l’onere di dedurre specifici inadempimenti o inosservanze, non potendo limitarsi ad una generica deduzione dell’illegittimità dell’intera condotta ovvero alla mera doglianza afferente “i risultati negativi” delle scelte gestorie.
Diritto di recesso del socio di s.r.l. per mutamento dell’oggetto sociale in via di fatto e azione individuale di responsabilità
Il mutamento dell’oggetto sociale idoneo a legittimare il recesso del socio può verificarsi in via di fatto se in concomitanza con atti gestori che, pur non incidendo sul dato formale relativo all’oggetto sociale determinato dallo statuto, ne comportano una modifica sostanziale, tale da legittimare l’esercizio del diritto di recesso da parte del socio dissenziente. Il cambiamento rilevante dell’oggetto sociale che comporti una modificazione radicale dell’attività tale da rendere l’oggetto dell’impresa effettivamente diverso da quello precedente è quello in cui la mutatio si traduca in un’attività sensibilmente difforme da quella precedentemente esercitata [nel caso di specie, una holding avente come oggetto sociale l’assunzione di partecipazioni in altre società, e il compimento di operazioni immobiliari solo in via strumentale e comunque non prevalente, aveva ceduto l’unico asset, costituito dalla totalità del capitale sociale di s.p.a., conservando solo i beni immobili di proprietà di quest’ultima].
L’azione individuale di responsabilità nei confronti degli amministratori ex art. 2476 c.c. non è esperibile quando il danno lamentato costituisca solo il riflesso del pregiudizio al patrimonio sociale [nel caso di specie, il danno oggetto di domanda risarcitoria sarebbe derivato dalla cessione delle quote della società partecipata a condizioni che, ad opinione dell’attrice, sarebbero state ingiustificatamente peggiori rispetto a quelle offerte da precedenti potenziali acquirenti].
Dimissioni della maggioranza dei membri del C.d.A. e principio della prorogatio
Le dimissioni della maggioranza dei membri di un consiglio di amministrazione non ha effetto prima della loro sostituzione ad opera dell’assemblea in base al principio della prorogatio, richiamato dall’art. 2385 c.c. in materia di società per azioni e da ritenersi principio di portata generale applicabile anche alle società a responsabilità limitata.
Principio di libertà delle forme ed esercizio del diritto di prelazione nella cessione di quote di s.r.l.
Nei rapporti tra le parti, in forza del principio di libertà delle forme, la cessione di quota di s.r.l. è valida ed efficace in virtù del semplice consenso manifestato dalle stesse, non richiedendo la forma scritta né ad substantiam, né ad probationem. La forma di cui all’art. 2470 c.c. rileva solo ai fini dell’opponibilità nei confronti della società. Ne deriva che, in presenza di un contratto di opzione di acquisto di quote di una s.r.l., che conferisca ad una parte la facoltà di accettare la proposta di vendita formulata dalla controparte, il momento del definitivo effetto traslativo è segnato dall’accettazione dello stipulante, non essendo richiesta né l’adozione di una forma particolare né la stipulazione con un unico atto di cessione ed in un unico contesto temporale [nel caso di specie, due soci titolari dell’intero pacchetto societario avevano espresso chiaramente una volontà di dismissione della propria quota in contrasto con l’esercizio del diritto di prelazione sulla quota dell’altro].
Sostituzione della delibera consiliare: estinzione degli effetti della delibera sostituita e risvolti processuali
In applicazione della disciplina di cui all’art. 2377, co. 8, c.c., una volta accertato che l’assemblea dei soci, regolarmente riconvocata, abbia validamente deliberato sugli stessi argomenti della deliberazione impugnata, non si può procedere alla dichiarazione di nullità o all’annullamento della deliberazione impugnata. Dopo la sostituzione, l’annullamento della prima delibera è precluso, in ogni caso, per effetto della cessazione della materia del contendere, essendo riservato al giudice della impugnazione della seconda delibera, specie nell’ipotesi in cui il giudizio sia pendente, ogni sindacato sulla legittimità dell’atto di rinnovo. Tale tesi si fonda sul presupposto dell’efficacia estintiva degli effetti della deliberazione sostituita da attribuirsi alla nuova deliberazione avente lo stesso oggetto della prima: la nuova delibera, invero, priva di ogni effetto la delibera che ha sostituito e mantiene tale sua efficacia fin tanto che non venga annullata per essere, a sua volta, contraria alla legge o allo statuto. Ne consegue che la sua eventuale non conformità alla legge o allo statuto – prevista dall’art. 2377 c.c. quale condizione per l’operatività della preclusione all’annullamento della delibera impugnata – potrebbe privarla di tale efficacia estintiva degli effetti della prima delibera solo se venisse annullata a seguito di un autonomo giudizio di impugnazione. Tale giudizio non può essere introdotto nell’ambito del giudizio di impugnazione avente per oggetto la delibera sostituita – stante la diversità dell’oggetto e la conseguente novità dell’eventuale domanda così introdotta in tale giudizio –, né essere oggetto di un accertamento incidentale ai soli fini della verifica delle condizioni di operatività della norma contenuta nell’art. 2377, co. 8, c.c., stante la necessità, allo scopo di privare di efficacia la delibera successivamente adottata, di una pronuncia costitutiva di annullamento, per sua natura incompatibile con un accertamento incidenter tantum. Al giudice dell’impugnazione della prima delibera, pertanto, è preclusa ogni valutazione circa la validità della delibera sostitutiva, con la sola eccezione della possibilità di rilevare, ove ricorrano, vizi comportanti la nullità della stessa delibera a norma dell’art. 2379 c.c. Tale nullità, infatti, comportando l’improduttività di qualsiasi effetto della (seconda) delibera, rilevabile anche d’ufficio, senza necessità di alcuna pronuncia costitutiva, potrebbe essere assoggettata, indipendentemente dall’impugnazione da parte degli interessati, a sindacato incidentale in seno al processo originato dall’impugnazione della delibera originaria.
Presupposti per l’annullamento del contratto stipulato dall’amministratore in conflitto di interessi ex art. 2475 ter c.c.
La norma di cui all’art. 2475 ter c.c. disciplina l’applicazione nel diritto societario del generale principio sancito, per i contratti, all’art. 1394 c.c. (e di cui pure costituisce ipotesi applicativa specifica il contratto concluso dal rappresentante con sé stesso, ex art. 1395 c.c.), secondo cui la volontà di concludere il contratto è viziata – con conseguente annullabilità del negozio – nel caso in cui il rappresentante lo abbia stipulato in conflitto con gli interessi del rappresentato, se il conflitto era conosciuto o quantomeno conoscibile dal terzo contraente. Tale rimedio caducatorio si applica agli amministratori unici, agli amministratori delegati con poteri rappresentativi e anche gestori (rientranti nella delega loro conferita), agli amministratori muniti di poteri di rappresentanza, ma privi dei corrispondenti poteri di gestione, nonché agli amministratori rappresentanti in regime di amministrazione disgiuntiva. Quanto agli elementi necessari per l’annullamento del contratto, la norma richiede, su di un piano oggettivo, che sussista un interesse dell’amministratore nell’affare, che può essere di qualunque natura e, quindi, patrimoniale o meno. Non è invece richiesto che vi sia una assoluta incompatibilità tra la realizzazione dell’interesse sociale – anche solo potenzialmente leso dal negozio – e quello personale dell’amministratore. Dal punto di vista soggettivo, è necessario e sufficiente che la situazione di conflitto di interessi appaia riconoscibile al terzo contraente.
Gli elementi integranti la fattispecie di cui all’art. 2475 ter c.c. debbono essere interpretati nel senso che, affinché ricorra la situazione di conflitto di interessi, è necessario un rapporto di incompatibilità tra le esigenze del rappresentato e quelle personali del rappresentante (o di un terzo che egli a sua volta rappresenti) e tale rapporto – da riscontrare non in termini astratti ed ipotetici, ma con riferimento specifico al singolo atto, e che costituisce causa d’annullabilità per vizio della volontà negoziale (sempre che detta situazione sia conosciuta o conoscibile dall’altro contraente) – è ravvisabile rispetto al contratto le cui intrinseche caratteristiche consentano l’utile di un soggetto solo passando attraverso il sacrificio dell’altro.
L’art. 2475 ter c.c. presuppone che l’amministratore, portatore di un interesse in conflitto con la società, abbia avuto la possibilità di influire sul contenuto negoziale dell’atto. Al contrario, ove egli si sia per ipotesi limitato a recepire all’interno del contenuto negoziale la volontà dei soci cristallizzatasi in una decisione della società, verrebbe meno la ratio che giustifica l’applicazione della norma: tale soluzione appare coerente con la norma di ordine generale di cui all’art. 1395 c.c., che esclude l’annullabilità del contratto con sé stesso in caso di predeterminazione del contenuto del contratto da parte dello stesso rappresentato.
L’esistenza di un conflitto d’interessi tra la società parte del contratto che si assume viziato ed il suo amministratore non può farsi discendere genericamente dalla mera coincidenza nella stessa persona dei ruoli di amministratore delle due società contraenti, ma deve essere accertata in concreto, sulla base di una comprovata relazione antagonistica di incompatibilità degli interessi di cui siano portatori, rispettivamente, la società – che sostiene di aver stipulato il contratto contro la propria volontà – e il suo amministratore e della riconoscibilità della stessa da parte dell’altro contraente.
Annullamento della delibera assembleare assunta con il voto di un socio in conflitto di interessi
L’annullamento della delibera ex art. 2373 c.c. richiede, oltre all’esistenza del conflitto di interessi, due distinte condizioni, che devono sussistere entrambe: la decisività del voto espresso dal socio in conflitto di interessi e la dannosità, almeno potenziale, della deliberazione medesima per la società. Ai fini dell’annullamento della delibera è, pertanto, irrilevante che la medesima consenta al socio il conseguimento di un suo personale interesse (ovvero anche dell’interesse di un terzo il cui medesimo socio sia portatore) se, nel contempo, non risulti pregiudicato l’interesse sociale. Il vizio rilevante ai fini dell’annullamento di una deliberazione assembleare ricorre solo nel caso in cui la delibera medesima sia diretta al soddisfacimento di interessi extra-sociali, in danno della società.
In relazione alle deliberazioni assunte dalla universalità dei soci, in presenza di tutti i componenti del consiglio di amministrazione e del collegio sindacale è escluso in radice che sia stato arrecato alcun vulnus di natura informativa e che, per l’effetto, la decisione non sia stata regolarmente adottata.
Arbitrabilità dell’azione di nullità di delibera assembleare per omessa convocazione del socio
Le controversie in materia societaria possono, in linea generale, formare oggetto di compromesso, con esclusione di quelle che hanno ad oggetto interessi della società o che concernono la violazione di norme poste a tutela dell’interesse collettivo dei soci o dei terzi: a tal fine, l’area della indisponibilità deve ritenersi circoscritta a quegli interessi protetti da norme inderogabili, la cui violazione determina una reazione dell’ordinamento svincolata da qualsiasi iniziativa di parte. Ad es., attengono a diritti indisponibili le controversie relative a delibere assembleari aventi oggetto illecito o impossibile, che danno luogo a nullità rilevabile anche d’ufficio, e quelle prese in assoluta mancanza di informazione. In tale ultimo ambito, tuttavia, non può esser sussunta la mancata convocazione di un socio, idonea, in tesi, a viziare la delibera, ma che, secondo la definizione data, non costituisce un diritto indisponibile, la cui area deve ritenersi circoscritta a quegli interessi protetti da norme inderogabili, la cui violazione determina una reazione dell’ordinamento svincolata da qualsiasi iniziativa di parte. In particolare, deve ritenersi che la controversia riguardante la nullità delle delibere assembleari per omessa convocazione di soci sia compromettibile in arbitri attesa la non coincidenza tra l’ambito delle nullità e l’area più ristretta dell’indisponibilità del diritto, dovendosi ricomprendere in quest’ultima esclusivamente le nullità insanabili, per le sole quali residua il regime dell’assoluta inderogabilità e pertanto dell’indisponibilità e non compromettibilità ad arbitri del relativo diritto. Alla luce di tale impostazione è da ritenersi ammissibile la competenza arbitrale per le controversie aventi ad oggetto, ad es., la nullità dell’assemblea per mancata convocazione del socio, in quanto tale fattispecie è soggetta al regime della sanatoria delle nullità previsto all’art. 2379-bis, co. 1, c.c. (infatti, il diritto all’informazione del singolo socio in occasione della convocazione di assemblea è oggetto di una previsione posta a garanzia di un interesse individuale del socio stesso e non anche di soggetti terzi e, di conseguenza, da quest’ultimo disponibile e rinunciabile). Allo stesso modo, è da ritenersi compromettibile in arbitri una controversia avente ad oggetto la nullità dell’assemblea per aver deliberato su temi estranei all’ordine del giorno.