Tribunale di Roma
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Emissione di decreto ingiuntivo in presenza di una clausola compromissoria statutaria
Atteso che la disciplina del procedimento arbitrale non contempla[va] l’emissione di provvedimenti cautelari, l’esistenza di una clausola compromissoria non esclude la competenza del giudice ordinario ad emettere un decreto ingiuntivo, ma impone a quest’ultimo, in caso di successiva opposizione fondata sull’esistenza della detta clausola, la declaratoria di nullità del decreto opposto e la sua contestuale revoca.
Quello cui lo statuto demanda una decisione da adottare in assenza di qualunque formalità e procedura costituisce arbitrato irrituale. La deferibilità ad arbitri irrituali di una determinata controversia è da considerare non già una questione di competenza, bensì di merito perché direttamente inerente alla validità o all’efficacia o all’interpretazione del compromesso o della clausola compromissoria.
Sul rapporto tra responsabilità dell’amministratore di fatto e di diritto
Dal momento che la responsabilità dell’amministratore discende dalla mera accettazione della nomina, invocare la natura formale della carica o allegare di aver seguito le istruzioni impartite da terzi non esime l’amministratore di diritto dalla responsabilità per “mala gestio”. Al contrario, poiché quest’ultimo deve salvaguardare l’integrità del patrimonio dell’ente e destinarlo a fini sociali, qualora egli non abbia espletato attività di controllo e non abbia impedito la distrazione delle risorse sociali, andrà incontro a responsabilità, stante la negligente esecuzione del contratto. In particolare, l’amministratore di diritto non può invocare la sua posizione di gestore di comodo o “testa di legno”, allo scopo di andare esente dalla responsabilità derivante dal compimento o dall’omesso impedimento atti di mala gestio: infatti, l’amministratore di diritto e l’amministratore di fatto sono solidalmente responsabili qualora, essendo a conoscenza di atti pregiudizievoli, non abbiano fatto il possibile per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne gli effetti dannosi.
Cessione di partecipazioni: interpretazione della clausola di riparto delle sanzioni derivanti da accertamenti fiscali
Compenso degli amministratori di società capitali
Con riferimento al compenso spettante all’amministratore di società di capitali giova premettere che dal contenuto dell’art. 2389 c.c. si desume che l’ordinamento riconosce agli amministratori delle società di capitali il diritto ad un compenso per l’attività da essi svolta per conto della società in adempimento del mandato ricevuto (naturalmente oneroso, ex art. 1709 c.c.). La pretesa dell’amministratore di una società al compenso per l’opera prestata ha natura di diritto soggettivo.
In aderenza all’art. 2389, ove lo statuto nulla disponga in merito al compenso dell’amministratore, competente per la relativa determinazione è l’assemblea dei soci, che può provvedervi sia con la medesima delibera di nomina dei soggetti preposti alle funzioni gestorie, sia con autonoma e separata deliberazione. Sicchè, ove nulla disponga al riguardo lo statuto ovvero l’assemblea si rifiuti o ometta di procedere alla relativa liquidazione o, ancora, lo determini in misura assolutamente inadeguata, il compenso deve intendersi indeterminato e quindi deve essere giudizialmente determinato, su domanda dell’amministratore, in applicazione del richiamato art. 1709 c.c., anche mediante liquidazione equitativa. Rimangono prive di effetti altre eventuali forme di determinazione, tra cui l’accordo orale eventualmente intervenuto fra amministratore e socio di maggioranza, con conseguente attribuzione del carattere di indebito oggettivo al compenso corrisposto, sulla base di un simile accordo, in mancanza del fatto costitutivo previsto dalla legge.
Sequestro giudiziario e conservativo delle quote sociali
Nel procedimento cautelare proposto ante causam è necessario che il ricorso contenga la precisa indicazione non solo del provvedimento cautelare richiesto, ma anche della causa petendi e del petitum del giudizio di merito, cui è prodromica l’azione cautelare, onde consentire alla controparte di poter adeguatamente difendersi in merito alla cautela invocata ed al giudice di compiere un adeguato accertamento sulla propria competenza a provvedere e sulla strumentalità della misura rispetto al diritto da cautelare.
La concessione di una misura cautelare ante causam va valutata nell’ottica della sua accessorietà rispetto al merito e della sua finalità di garantire la conservazione dell’utilità pratica che la decisione definitiva attribuirà alla parte, previo riconoscimento dei relativi diritti. La futura decisione sul merito costituisce altresì il limite per il contenuto del provvedimento cautelare sotto il profilo sia oggettivo che soggettivo, non potendo esso attribuire alle parti beni che le stesse non potrebbero conseguire per effetto della sentenza.
Il sequestro giudiziario può essere concesso nell’ambito di una controversia sulla proprietà o sul possesso non soltanto quando sia esperita azione di rivendica, ma anche in ipotesi di azioni personali aventi per oggetto la restituzione della cosa da altri detenuta, in quanto il termine “possesso”, usato dall’art. 670 c.p.c. unitamente a quello di “proprietà”, non va inteso in senso strettamente letterale, rientrando in esso anche la detenzione.
Ai fini dell’applicabilità dell’art. 670 c.p.c., legittimati a chiedere il sequestro giudiziario sono non soltanto i titolari dei diritti reali, ma anche i titolari di diritti personali relativi a beni mobili o immobili, poiché la controversia sulla proprietà o il possesso può sussistere non solo quando siano esperite le tipiche azioni a presidio di tali diritti, ma anche quando si tratti di azioni personali ad effetto la restituzione della cosa da altri detenuta.
Può sussistere il nesso di strumentalità tra il sequestro giudiziario delle quote sociali e l’ azione di merito volta al trasferimento coattivo delle stesse. Infatti, si è in presenza di una controversia sulla proprietà o il possesso ex art. 670 c.p.c., non soltanto quando siano o saranno esperite le caratteristiche azioni di rivendica, di manutenzione o di reintegrazione, ma anche nel caso in cui sia stata proposta o debba proporsi un’azione contrattuale che, se accolta, importi condanna alla restituzione di un bene, come nelle ipotesi di azioni personali aventi ad oggetto la restituzione della cosa da altri detenuta.
Per la concessione del sequestro giudiziario, non si richiede, come per il sequestro conservativo, che ricorra il pericolo, concreto ed attuale, di sottrazione o alterazione del bene, essendo sufficiente, ai fini dell’estremo dell’opportunità richiesto dall’art. 670 n. 1 c.p.c., che lo stato di fatto in pendenza del giudizio comporti la mera possibilità, sia pure astratta, che si determinino situazioni tali da pregiudicare l’attuazione del diritto controverso.
Ai fini della configurabilità di un definitivo vincolo contrattuale è necessario che tra le parti sia raggiunta l’intesa su tutti gli elementi dell’accordo, non potendosene ravvisare pertanto la sussistenza là dove, raggiunta l’intesa solamente su quelli essenziali ed ancorchè riportati in apposito documento (cosiddetto “minuta” o “puntuazione”), risulti rimessa ad un tempo successivo la determinazione degli elementi accessori.
Sulla tempestività della convocazione assembleare e sull’abuso di potere nell’adozione di delibere assembleari
Deve presumersi che l’assemblea dei soci sia validamente costituita ogni qual volta i relativi avvisi di convocazione siano stati spediti agli aventi diritto almeno otto giorni prima dell’adunanza (o nel diverso termine eventualmente in proposito indicato dall’atto costitutivo); tale presunzione può essere vinta nel caso in cui il destinatario dimostri che, per causa a lui non imputabile, egli non abbia affatto ricevuto l’avviso di convocazione o lo abbia ricevuto così tardi da non consentirgli di prendere parte all’adunanza, in base a circostanze di fatto il cui accertamento e la cui valutazione in concreto sono riservati alla cognizione del giudice di merito.
L’abuso o eccesso di potere è causa di annullamento delle deliberazioni assembleari allorquando la delibera non trovi alcuna giustificazione nell’interesse della società – per essere il voto ispirato al perseguimento da parte dei soci di maggioranza di un interesse personale antitetico a quello sociale –, ovvero sia il risultato di una intenzionale attività fraudolenta dei soci maggioritari diretta a provocare la lesione dei diritti di partecipazione e degli altri diritti patrimoniali spettanti ai soci di minoranza uti singuli. Al di fuori di tali ipotesi, resta preclusa ogni possibilità di controllo in sede giudiziaria sui motivi che hanno indotto la maggioranza alla votazione della delibera. Nel concreto, è dunque necessario dimostrare l’esercizio fraudolento ovvero ingiustificato del potere di voto, non potendo l’abuso consistere nella mera valutazione discrezionale del socio dei propri interessi, ma dovendo concretarsi nella intenzionalità specificamente dannosa del voto, ovvero nella compressione degli altrui diritti in assenza di apprezzabile interesse del votante.
L’esame del merito della delibera è ammesso solo in presenza di indici oggettivi che consentano di sospettare la violazione di vincoli imposti dall’ordinamento alla maggioranza; della prova di tali indizi è onerata la parte che assume l’illegittimità della deliberazione. Grava, cioè, sul socio di minoranza l’onere di provare che il socio di maggioranza abbia abusato del proprio diritto. Poiché l’abuso presuppone un controllo di merito del giudice, il socio di minoranza, oltre a provare la arbitraria e fraudolenta preordinazione della delibera da parte dei soci maggioritari, dovrà preventivamente fornire quei sintomi di illiceità, tali da consentire al giudice l’analisi delle motivazioni della delibera, per poter verificare se effettivamente abuso vi sia stato. La presenza del fine fraudolento, la cui prova può essere data anche induttivamente, dimostrando che lo scopo apparentemente perseguito dalla società è in realtà inesistente, costituisce non solo un sintomo del vizio della decisione impugnata, ma anche il limite alla tutela della minoranza.
Sostituzione della delibera nulla per irregolare convocazione del socio di s.r.l.
Ha legittimazione ad agire in giudizio per l’accertamento dell’invalidità della delibera assembleare per irregolare convocazione il socio che, benché al momento dell’introduzione del giudizio risultasse aver perso la qualifica di socio, sia stato nelle more reintegrato nella compagine sociale in forza di provvedimenti cautelari di sospensione delle precedenti delibere di esclusione.
L’avvenuta sostituzione, in pendenza di giudizio, della delibera impugnata con altra delibera adottata in conformità della legge comporta la cessazione della materia del contendere ai sensi dell’art. 2377 co. 8 c.c., a sua volta richiamato dall’art. 2479 ter c.c. in tema di società a responsabilità limitata. A tal riguardo, non assume rilevanza il fatto che l’invalidità dedotta dal ricorrente sia riconducibile alla fattispecie della nullità. Invero, costituisce ius receptum il principio di diritto secondo il quale la sanatoria dei vizi, contemplata dall’art. 2377 c.c., opera anche in caso di nullità della delibera; specie ove la nullità dipenda da vizi che, seppur radicali, afferiscono a profili di natura formale, quali quelli inerenti alla convocazione dei soci. Né può parlarsi di assoluta inesistenza della delibera impugnata, trattandosi di atto collegiale che, seppur affetto dal vizio di convocazione dell’attore, è in ogni caso univocamente riferibile all’assemblea dei soci della convenuta ed al contempo espressivo della volontà collegiale manifestata dai partecipanti mediante l’esercizio dei rispettivi diritti di voto.
Tuttavia, il vizio di convocazione del socio attore rileva sul piano della regolamentazione delle spese di lite, poiché dimostra l’originaria fondatezza della domanda attorea. Tale vizio non può ritenersi sanato dal fatto che il voto del socio irregolarmente convocato sarebbe stato comunque ininfluente ai fini del raggiungimento del quorum deliberativo. Al riguardo va osservato che in tema di società a responsabilità limitata, la deliberazione dell’assemblea assunta senza la convocazione di uno dei soci è da ritenersi nulla poiché l’omessa convocazione comporta la mancanza, in concreto, di un elemento essenziale dello schema legale della deliberazione assembleare che determina l’inesistenza giuridica di quest’ultima.
Responsabilità di amministratori e sindaci di società consortile
La società consortile non ha una propria disciplina, dovendosi, per l’effetto, applicare di volta in volta le norme previste per il tipo di società scelto all’atto di relativa costituzione. Ne deriva che, linea di principio, ove i soci abbiano così costituito il consorzio sotto forma di società di persone o di capitali dovrà applicarsi la disciplina della corrispondente tipologia di compagine.
Dalla qualificazione della responsabilità degli amministratori ex art. 2476 c.c. in termini di responsabilità contrattuale (colposa) deriva che, mentre sulla società che agisce grava l’onere di dimostrare la sussistenza delle violazioni agli obblighi, i pregiudizi concretamente sofferti ed il nesso eziologico tra l’inadempimento ed il danno prospettato, per converso compete all’amministratore l’onere di dimostrare la non imputabilità a sé del fatto danno, ovvero di fornire la prova positiva, con riferimento agli addebiti contestati, dell’osservanza dei doveri e dell’adempimento degli obblighi posti a suo carico. Deve, infatti, ritenersi operante la presunzione di colpa di cui al generale disposto dell’art. 1218 c.c., con la conseguenza che la società che agisce con il rimedio di cui all’art. 2476 c.c. non è tenuta ad offrire la prova positiva del cennato elemento soggettivo. Il tutto, in ogni caso, nei limiti dell’art. 1223 c.c., con la conseguenza che all’amministratore di società di capitali legato ad essa da un rapporto di mandato che, pure, si sia reso responsabile di condotte illecite, non potrà imputarsi ogni effetto patrimoniale dannoso che la società sostenga di aver subìto ma, al contrario, soltanto quei pregiudizi che si pongano quale conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento ascrittogli.
Quanto ai doveri dei sindaci in generale, giova rammentare che il controllo del collegio sindacale non è circoscritto all’operato degli amministratori, estendendosi, invero, a tutta l’attività sociale, con funzione di tutela non solo dell’interesse dei soci, ma anche di quello, concorrente, dei creditori sociali.
I sindaci possono essere chiamati a rispondere dei danni sofferti dalla società ovvero dai creditori sociali sia nel caso in cui l’evento lesivo sia conseguenza del mancato o negligente adempimento dei doveri di verità e segretezza che la legge pone specificamente a carico dell’organo di controllo, sia nel caso in cui il pregiudizio lamentato sia conseguenza, anche ed innanzitutto, di un comportamento doloso o colposo degli amministratori, che i sindaci avrebbero potuto e dovuto prevenire nell’espletamento dei loro compiti. Originando quindi la responsabilità dei sindaci sia per fatto proprio che per omissione del controllo, è chiaro che, vigente il principio di colpevolezza, la responsabilità concorrente del collegio sindacale per i fatti dannosi ascrivibili agli amministratori sussisterà solo nel caso in cui ai sindaci potrà in ogni caso addebitarsi il mancato o negligente espletamento dei compiti di controllo. Segnatamente, i sindaci rispondono non per il fatto in sé degli amministratori foriero di danni, ma solo se ed in quanto, in relazione all’evento lesivo oggetto di doglianza, sia configurabile, a loro carico, la violazione dell’obbligo di esercitare il controllo sull’amministrazione della società con la diligenza richiesta dal comma primo dell’art. 2407 c.c., di denunciare le irregolarità riscontrate e di assumere, se necessario, le iniziative sostitutive dell’organo gestorio.
La responsabilità concorrente dei sindaci, pur trovando uno dei suoi presupposti nell’illegittimo comportamento degli amministratori, resta pur sempre una responsabilità per fatto proprio dei componenti dell’organo di controllo, postulando che i sindaci siano venuti meno al loro dovere di vigilare sugli amministratori e di impedire il compimento di attività illegittime ad opera di costoro; il tutto, peraltro, con l’importante conseguenza che detta responsabilità potrà essere affermata solo ove sia in concreto dimostrata anche l’esistenza di un nesso di causalità tra l’inosservanza dell’obbligo di controllo gravante sui sindaci ed il pregiudizio prodotto dall’illecito comportamento degli amministratori.
Scissione parziale e responsabilità di amministratori e sindaci per atti distrattivi
Nel giudizio di accertamento della responsabilità degli amministratori e sindaci per atti distrattivi, l’attuazione di una scissione parziale implicante una cessione in favore di altra società di un patrimonio netto attivo non costituisce, di per sé, espressione di una condotta distrattiva in danno della società scissa. In tal senso depone il dettato normativo offerto dall’art. 2506-quater, co. 3 c.c. È dunque lo stesso legislatore ad ipotizzare, disciplinandola normativamente, l’eventualità di un conferimento in favore della società beneficiaria di un attivo patrimoniale di importo superiore alle passività contestualmente attribuite.
Ed invero, il giudizio di illiceità in sé dell’operazione presuppone non una mera comparazione tra i valori dell’attivo e del passivo trasferiti, quanto piuttosto una valutazione in concreto che, tenendo conto della effettiva situazione debitoria in cui operava la società al momento della scissione, consenta di connotare l’operazione – in sé astrattamente lecita – come volutamente depauperatoria del patrimonio aziendale e pregiudizievole per i creditori nella prospettiva della procedura concorsuale. L’accoglimento della domanda richiede pertanto una prova della dolosa preordinazione di tale operazione straordinaria a fini distrattivi.
D’altro canto, merita sicuramente accoglimento la domanda tesa al ristoro delle ulteriori voci di danno subite dalla società che siano conseguenza, diretta o indiretta, dell’operazione straordinaria di scissione che, benché non intrinsecamente distrattiva, si poneva come funzionale al perseguimento di interessi personali dei soli soci amministratori ed in aperto contrasto con le esigenze aziendali ed organizzative della predetta società.
Unitamente agli amministratori dovranno rispondere, in solido e per le rispettive quote di pertinenza, anche i sindaci che abbiano omesso di attivare gli strumenti di controllo loro riconosciuti dall’ordinamento – primo fra tutti il ricorso ex art. 2409 c.c. teso ad ottenere un accertamento giudiziale di gravi irregolarità gestorie potenzialmente lesive per la società – durante l’intero periodo preso in considerazione, essendo gli illeciti gestori compiuti dall’organo amministrativo senz’altro riscontrabili dai sindaci e, al contempo, prevenibili o censurabili in caso di tempestiva attivazione da parte di questi ultimi.
Azione di responsabilità da direzione e coordinamento esercitata dal curatore
In caso di fallimento di una società, la clausola compromissoria contenuta nello statuto della stessa non è applicabile all’azione di responsabilità proposta dal curatore ai sensi dell’art. 146 L.F.
L’art. 2497 c.c. è applicabile anche nelle ipotesi in cui il potere di etero-direzione competa ad un soggetto pubblico (enti locali compresi) purché diverso dallo Stato, e la relativa partecipazione in società (o anche la costituzione in una società in house) venga attuata non solo per scopi lucrativi, ma anche per la realizzazione di finalità istituzionali che richiedano lo svolgimento di attività economica o finanziaria da realizzare attraverso la società partecipata.
La mera titolarità, in capo ad un ente, di una posizione di controllo e di conseguenti poteri di direzione nei confronti di altra società non implica, di per sé, la responsabilità dello stesso per ogni scelta ed attività posta in essere dagli amministratori preposti alla gestione della società eterodiretta. Al contrario, la responsabilità ex art. 2497, comma 1, c.c. presuppone che il pregiudizio alla redditività ed al valore della partecipazione dei soci (di minoranza) della società eterodiretta, e/o la lesione dell’integrità del patrimonio sociale, con susseguente insufficienza dello stesso al soddisfacimento dei creditori sociali, sia portato e conseguenza di attività e scelte poste in essere in esecuzione di direttive ascrivibili alla cd. holding ed integranti esercizio abusivo ed illegittimo dell’attività di direzione e coordinamento, in violazione dei principi di corretta gestione societaria ed imprenditoriale della società eterodiretta.
L’attività di direzione e coordinamento si distingue dall’amministrazione di fatto della società controllata: l’ente dirigente non agisce compiendo esso stesso atti di gestione della società eterodiretta rilevanti verso i terzi e/o spendendo il nome della stessa sì da generare un effetto di imputazione alla medesima eterodiretta dei suoi atti; l’ente dirigente, invece, influenza o determina le scelte operate dagli amministratori della società diretta, che si tradurranno in atti gestori rilevanti verso i terzi compiuti, in esecuzione delle direttive, dagli amministratori della stessa eterodiretta.