Tribunale di Genova
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Ricorso cautelare per violazione dei diritti derivanti da un marchio europeo che contraddistingue monopattini elettrici
È inammissibile il ricorso cautelare ex art. 120 co. 6 bis c.p.i. e 700 c.p.c. volto ad un mero accertamento negativo della violazione di diritti esclusivi del titolare di un marchio registrato. L’art. 120 comma 6 bis c.p.i. riconosce implicitamente l’ammissibilità di azionare in via cautelare una tutela finalizzata a preservare – nel tempo necessario allo svolgimento di un giudizio di merito – gli effetti di una pronuncia di mero accertamento. È necessario valutare se la domanda cautelare richiesta in vista di una domanda di merito di mero accertamento negativo sia assistita non solo dai presupposti del fumus boni iuris e del periculum in mora, ma – ancor prima – dalla condizione dell’azione dell’interesse ad agire ossia se il petitum richiesto sia idoneo ad assicurare l’utilità che la parte si propone di conseguire in caso di esito vittorioso della causa. In presenza di una situazione di incertezza, l’interesse ad agire in via cautelare sussiste ogni qualvolta la tutela cautelare richiesta abbia un effettivo nesso di strumentalità rispetto alla sentenza di mero accertamento. Ove invece la domanda cautelare abbia ad oggetto il mero accertamento del diritto, esercitabile in via autonoma, tenendo un determinato comportamento, esclusivamente in virtù dei propri poteri sostanziali, senza necessità di cooperazione, viene meno l’interesse ad agire in via cautelare. In altre parole, la certezza giuridica che costituisce l’unica utilità ricavabile da una dichiarazione di mero accertamento non può scaturire da una pronuncia cautelare.
Cessione ramo d’azienda e conseguente trasferimento dei diritti di proprietà intellettuale
La cessione di ramo d’azienda relativo alla produzione di determinati prodotti comporta il trasferimento di tutte le componenti inerenti tale ramo, e quindi anche del marchio identificativo dei prodotti stessi, stante lo stretto collegamento sussistente tra il marchio e l’impresa.
Azionisti di risparmio, limitazione del diritto d’opzione e prezzo d’emissione al di sotto della parità. Il caso Carige-Malacalza.
Il rappresentante comune degli azionisti di risparmio di società emittenti azioni quotate non è legittimato a far valere in giudizio i pregiudizi patrimoniali in thesi prodottisi nelle sfere patrimoniali dei singoli azionisti di risparmio, rappresentando la sua legittimazione straordinaria a “tutelare gli interessi comuni” di questi, ai sensi dell’art. 2418 c.c. cui l’art. 147, c. 3, del testo unico della finanza rinvia, una eccezione al principio generale stabilito dall’art. 81 c.p.c., a mente del quale “nessuno può far valere nel processo in nome proprio un diritto altrui”.
Aumento di capitale di Banca Carige
L’art. 2379 ter, co. 2, c.c. si riferisce anche ai casi di annullabilità della delibera. Tale disposizione, dando attuazione all’intento della riforma del 2003 di conferire massimo grado di certezza e stabilità alle deliberazioni societarie, preclude l’impugnazione, e dunque anche la sospensione, delle deliberazioni di aumento di capitale delle s.p.a. aperte, ricollegando l’effetto preclusivo all’iscrizione nel registro delle imprese dell’attestazione della sua esecuzione, anche parziale. La norma intende escludere la relativa tutela reale, impedendo, pur in presenza di vizi di legittimità che determinerebbero l’annullabilità o la nullità della delibera, che, a mezzo dell’impugnazione, l’aumento di capitale sia bloccato temporaneamente (con la sospensione) o definitivamente, totalmente o parzialmente.
L’art. 147 t.u.f., ponendo a carico del rappresentante comune degli azionisti di risparmio gli obblighi e i poteri previsti dall’art. 2418 c.c., gli attribuisce il compito di tutelarne gli interessi comuni, che non comprendono i diritti soggettivi dei singoli azionisti. Il riconoscimento in capo al rappresentante comune della rappresentanza processuale della categoria degli azionisti di risparmio deve essere interpretato restrittivamente, in quanto costituisce un’eccezione al principio generale stabilito dall’art. 81 c.p.c., secondo cui nessuno può far valere nel processo in nome proprio un diritto altrui. Il criterio distintivo per l’individuazione delle domande che il rappresentante comune è legittimato a proporre è rappresentato dall’interesse comune degli azionisti di risparmio: quando la domanda è volta a tutelare una pluralità di interessi individuali, difetta la ratio che ha portato al conferimento del potere di rappresentanza processuale in favore del rappresentante comune.
L’ordinamento assicura al socio, allo scopo di preservare l’interesse economico alla conservazione e alla reddittività del suo investimento, la possibilità di essere attivamente partecipe nell’organizzazione societaria e quindi di incidere sull’assetto societario sia tramite il diritto di voto, che tramite il diritto all’impugnazione delle delibere. Il diritto partecipativo del socio consente a quest’ultimo di influire sulla attività della società, oltre che a reagire ad una deliberazione assembleare viziata. Pertanto, il comportamento del socio che, partecipando all’assemblea ed esprimendo il proprio voto contrario, avrebbe potuto impedire l’adozione di una determinata delibera e, successivamente, omesso anche di chiedere la sospensione dell’esecuzione, domandi il risarcimento del danno prodotto dalla medesima deliberazione deve ritenersi abusiva. La strada percorsa dalla riforma del diritto societario del 2003 è stata quella di riconoscere la legittimazione all’azione di annullamento delle delibere delle società per azioni ai soci ordinari muniti del diritto di voto che rappresentano una determinata parte del capitale sociale (l’uno per mille nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio) e di prevedere per i soci ordinari che non sono legittimati all’impugnativa il diritto al risarcimento del danno loro cagionato dalla non conformità della delibera alla legge o allo statuto. La tutela risarcitoria, dunque, muove, in linea di principio, da un’esigenza di tutela del socio di minoranza cui verrebbe imposta dalla maggioranza una delibera illegittima o illecita. Di conseguenza, la domanda risarcitoria avanzata dal socio titolare di una partecipazione che gli consentirebbe di agire per l’annullamento della delibera non è meritevole di accoglimento, sia per violazione dell’art. 1227 c.c., che esclude il diritto al risarcimento dei danni che il danneggiato avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza, sia in ragione del divieto di venire contra factum proprium, espressione del divieto di abusare di un proprio diritto attraverso un uso strumentale di esso, sia per contrarietà ai canoni di correttezza e buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c., applicabili anche all’esecuzione del contratto sociale.
L’art. 2372 c.c. prevede che coloro ai quali spetta il diritto di voto possono farsi rappresentare nell’assemblea e che la rappresentanza debba essere conferita per iscritto. Inoltre, ai sensi dell’art. 135 undecies t.u.f., la società con azioni quotate, salvo diversa clausola statutaria, deve designare per ciascuna assemblea un rappresentante, al quale i titolari del diritto di voto possano conferire una delega con istruzioni di voto su tutte o su alcune delle proposte all’ordine del giorno. Il contenuto del modulo di delega e le modalità di esercizio del voto sono disciplinate dall’art. 134 del Regolamento Emittenti. Ai sensi dell’art. 135 undecies, co. 2, t.u.f., dunque, la delega per le società con azioni quotate viene rilasciata, nel pieno rispetto della forma scritta prescritta dall’art. 2372, co. 1 c.c., mediante la sottoscrizione di un modulo di delega, il cui contenuto minimo è disciplinato dal Regolamento Emittenti. La ratio dell’art. 135 undecies t.u.f. è quella di agevolare la larga partecipazione al voto a mezzo di delega nelle società quotate ad azionariato diffuso, per le quali è prevista obbligatoriamente, salvo diversa disposizione statutaria, la figura del rappresentante designato. In tal caso, i requisiti di forma previsti dalla legge risultano attenuati, in ragione dell’affidabilità del medesimo rappresentante designato, soggetto professionalmente qualificato, e sono limitati alla compilazione del modulo di delega, che deve contenere almeno i dati del modello 5A allegato al Regolamento Emittenti e deve essere compilato con l’inserimento di indicazioni specifiche sul documento di identità, sul potere di firma e sui titoli azionari detenuti dal delegante. Diverso è il caso all’art. 135 novies t.u.f., che regola il rilascio della delega individuale dal socio al rappresentante, con facoltà di designare uno o più sostituti o di autorizzare il delegato a farsi sostituire da un soggetto di propria scelta. Tale disposizione, per garantire la certezza sulla provenienza dell’atto di delega, sul suo contenuto e sull’identità del delegante, prevede al quinto comma che il rappresentante possa, in luogo dell’originale, consegnare o trasmettere una copia, anche su supporto informatico, della delega attestando sotto la propria responsabilità la conformità all’originale e l’identità del delegante. È previsto inoltre che il rappresentante conservi l’originale della delega e tenga traccia delle istruzioni di voto eventualmente ricevute per un anno a decorrere dalla conclusione dei lavori assembleari.
Come per le scelte di gestione adottate dagli amministratori e dai liquidatori di società, così anche per quelle dei commissari straordinari vige la business judgment rule, in base alla quale, salvo manifesta irragionevolezza delle scelte, desumibile dal fatto che non siano state adottate le necessarie cautele ed assunte le informazioni rilevanti, esse sono tendenzialmente insindacabili in sede giudiziale. È, dunque, in termini di ragionevolezza che deve essere valutata la scelta dei commissari in ordine alla limitazione del diritto di opzione dei soci ordinari sull’aumento di capitale. In particolare, per escludere o limitare il diritto d’opzione è sufficiente che l’interesse sociale sia serio e consistente, tale da giustificare che, nella scelta del modo di realizzare l’aumento di capitale, sia ritenuto preferibile, perché ragionevolmente più conveniente, il sacrificio totale o parziale del diritto di opzione dei soci.
Per interpretare correttamente l’art. 2441, co. 6, c.c., occorre considerare che il riferimento al “valore del patrimonio netto” (e non al “patrimonio netto”) attiene al valore effettivo del patrimonio, quale risultante da un processo valutativo e non al suo valore contabile quale risultante dal bilancio. Ciò comporta che in determinate circostanze l’assemblea possa discostarsi dal valore contabile e fissare un prezzo ancora più basso, se ciò si renda necessario per il buon esito dell’aumento di capitale. Inoltre, la determinazione del prezzo di emissione delle nuove azioni in caso di esclusione del diritto d’opzione non può essere frutto di una mera operazione aritmetica consistente nel dividere il patrimonio netto per il numero delle azioni in circolazione, in quanto è lo stesso art. 2441, co. 6, c.c. a prevedere che gli amministratori debbano illustrare in una apposita relazione per l’assemblea i criteri adottati per la determinazione del prezzo di emissione e il collegio sindacale (o, nelle società quotate, la società di revisione) debba esprimere il proprio parere sulla congruità del prezzo di emissione delle azioni. La determinazione del prezzo di emissione, nel caso di aumento del capitale con esclusione del diritto d’opzione, è, dunque, espressione di una valutazione che deve contemperare diversi interessi: da una parte, l’interesse dei vecchi soci a che le azioni non vengano offerte ai nuovi soci ad un prezzo più basso di quello effettivo e, dall’altra, l’interesse della società a realizzare l’aumento di capitale, interesse che sarebbe vanificato se l’assemblea fosse costretta a fissare un prezzo troppo alto, slegato dall’effettivo valore delle azioni, in quanto nessun terzo sarebbe mai interessato a sottoscrivere azioni a un prezzo più alto di quello effettivo.
Il valore di mercato di un titolo azionario dipende normalmente dalla diversità dei diritti che il titolo incorpora: il mercato esprime, infatti, una stima in termini economico-patrimoniali di tali diritti. Di conseguenza, non potrebbe ritenersi arbitrario un rapporto di cambio che sia differenziato in ragione delle diverse quotazioni delle azioni ordinarie e delle azioni di risparmio della società incorporata. Tali quotazioni sono, infatti, in grado di pesare i diritti patrimoniali e amministrativi propri delle due categorie di azioni. La determinazione del valore delle azioni sulla base delle quotazioni ricevute sul mercato costituisce, del resto, un criterio non solo rispondente a un canone di ragionevolezza, ma sintomaticamente fatto proprio dal legislatore, se pure ad altri fini. Vanno citati, in proposito, l’art. 2437 ter c.c. sui criteri di determinazione del valore delle azioni in caso di recesso del socio, che impone, salvo diverse disposizioni statutarie, di liquidare le azioni quotate sui mercati regolamentati facendo riferimento alla media dei prezzi di chiusura delle medesime nell’ultimo semestre, e l’art. 2441 c.c., sul diritto di opzione in caso di nuove emissioni di azioni o di obbligazioni convertibili, che prescrive di tener conto, nel prezzo delle azioni quotate, oltre che del patrimonio netto, anche dell’andamento delle quotazioni per lo stesso arco di tempo. Sono, queste, disposizioni che oltretutto sconfessano, sul piano del diritto positivo, l’assunto secondo cui il valore delle azioni vada meccanicamente ricavato dalla quota di patrimonio che nominalmente rappresentano: ed è, anzi, significativo che l’art. 2437 ter, co. 1, c.c. richieda agli amministratori di tener conto dell’eventuale valore di mercato delle azioni anche per i titoli non quotati.
Assenza di subordinazione tra il contratto di licenza d’uso del marchio e il contratto principale di agenzia
La locatrice del marchio è legittimata a pretendere, sulla base di un titolo contrattuale di cui non è stata contestata la validità, il pagamento dei canoni anche per il periodo successivo alla risoluzione del contratto principale, a nulla rilevando che il marchio non sia stato registrato. Il rapporto di locazione del marchio è pertanto svincolato da ogni altro rapporto in essere fra i contraenti ed in assenza di comunicazione di formale recesso dal contratto di locazione del marchio, il canone previsto resta dovuto anche per il periodo successivo alla risoluzione del contratto principale di agenzia.
L’illecito utilizzo del marchio registrato per prodotti vegani e risarcimento del danno
L’utilizzo di un marchio di proprietà altrui senza autorizzazione del legittimo titolare costituisce una violazione dei diritti di proprietà intellettuale e atto di concorrenza sleale ai sensi dell’art. 2598 n.1 c.c., che comporta la condanna al risarcimento del danno ai sensi dell’art. 125 c.p.i. comma 2 per l’illecito utilizzo del marchio, in misura non inferiore a quello dei canoni che l’autore della violazione avrebbe dovuto pagare, qualora avesse ottenuto una licenza dal titolare del diritto leso. [Nel caso di specie, l’Organo Giudicante ha ritenuto che fosse altresì dovuto il risarcimento del danno morale, ai sensi dell’art. 125 comma 1 c.p.i., ravvisabile nel fatto che la concessione in licenza del marchio per cui è causa è correlata al rispetto di precisi standard di produzione e quindi l’utilizzo illecito dello stesso espone la società attrice al danno non patrimoniale di vedere associato il proprio marchio a prodotti non rispondenti agli standard che il marchio intende garantire.]
L’azione individuale del socio e del terzo nel fallimento: natura dell’azione e legittimazione attiva del terzo creditore
In tema di azioni nei confronti dell’amministratore di società, a norma dell’art. 2395 c.c., il terzo (o il socio) è legittimato, anche dopo il fallimento della società, all’esperimento dell’azione (di natura aquiliana) per ottenere il risarcimento dei danni subiti nella propria sfera individuale, in conseguenza di atti dolosi o colposi compiuti dall’amministratore, solo se questi siano conseguenza immediata e diretta del comportamento denunciato e non il mero riflesso del pregiudizio che abbia colpito l’ente, ovvero il ceto creditorio per effetto della cattiva gestione, dovendosi proporre, altrimenti, l’azione, contrattuale, di cui all’art. 2394 c.c., esperibile, in caso di fallimento della società, dal curatore, ai sensi dell’art. 146 l. fall. (cfr. Cassazione civile, sez. I, 10/04/2014, n. 8458).
Sussiste la legittimazione del terzo creditore ai sensi dell’art. 2476 comma 6 c.c. ad ottenere il risarcimento del danno direttamente subito a causa della condotta dolosa o colposa degli amministratori di società dichiarata fallita, non comportando
l’intervenuto fallimento della società l’inammissibilità o improcedibilità della domanda. Il cumulo delle azioni di responsabilità ex artt. 2393 e 2394 c.c. esperibili dal curatore fallimentare, ai sensi dell’art. 146 l. fall., non si estende infatti all’azione individuale del socio o del terzo direttamente danneggiato la cui legittimazione permane anche in caso di fallimento. Il disposto dell’art 2395 c.c. si applica anche alla società a responsabilità limitata per effetto del richiamo operato dall’art. 2476 comma 6 c.c. (cfr. Tribunale Torino, Sez. spec. Impresa, 27/03/2015).
Diritto esclusivo di denominazione in ambito calcistico e affiliazione del titolare alla F.I.G.C.
Inapplicabilità dell’art. 2429 c.c. alle società a responsabilità limitata
L’art. 2429 c.c. non è applicabile alle società a responsabilità limitata, in quanto, secondo un’interpretazione conservativa del secondo comma dell’art. 2478 bis c.c., il richiamo operato dal primo comma del medesimo articolo alle disposizioni di cui alla sezione IX del capo V del libro V del codice civile deve intendersi limitato alle sole disposizioni per la redazione del bilancio, e non già al deposito dei documenti da allegare allo stesso.
L’art. 2478 bis c.c. – rubricato “bilancio e distribuzione degli utili” – prevede infatti che “il bilancio deve essere redatto con l’osservanza delle disposizioni di cui alla sezione IX del capo V del presente libro” e prosegue poi disponendo: “esso è presentato ai soci entro il termine stabilito dall’atto costitutivo e comunque non superiore a centoventi giorni dalla chiusura dell’esercizio sociale, salva la possibilità di un maggior termine nei limiti ed alle condizioni previsti dal secondo comma dell’articolo 2634. Entro trenta giorni dalla decisione dei soci di approvazione del bilancio devono essere depositati presso l’ufficio del registro delle imprese, a norma dell’articolo 2435, copia del bilancio approvato“.
L’articolo in esame, quindi, oltre a dettare una disciplina autonoma quanto alla procedura di approvazione, richiama espressamente l’art. 2435 c.c. per estendere alla società a responsabilità limitata l’obbligo di deposito del bilancio approvato presso il registro delle imprese; richiamo che, ritenendo il rinvio operato alle disposizioni di cui alla sezione IX del capo V del libro V del codice civile come omnicomprensivo e riferito anche alle disposizioni in materia di deposito del bilancio, non avrebbe ragion d’essere, essendo l’art. 2435 c.c. già ricompreso nella sezione IX del capo V.
Retribuzione del sindaco
L’incarico di componente del collegio sindacale è necessariamente oneroso e, laddove l’entità del compenso non risulti nell’atto costitutivo o non sia fissata dall’assemblea, spetta al giudice procedere alla sua determinazione in base all’importanza dell’opera prestata, alla difficoltà dell’incarico e al decoro della professione.