Tribunale di Napoli
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L’azione di responsabilità esercitata dal curatore
Il curatore può far valere la responsabilità degli amministratori della società fallita tanto a mezzo dell’azione sociale, in quanto ve ne siano i presupposti, e cioè il danno prodotto al patrimonio sociale da un atto, colposo o doloso, commesso in violazione ai doveri imposti a loro carico dalla legge o dall’atto costitutivo, quanto a mezzo dell’azione dei creditori sociali, in quanto ve ne siano i presupposti, vale a dire il pregiudizio arrecato al patrimonio sociale, nella misura in cui sia stato reso insufficiente alla integrale soddisfazione dei creditori della società, da un atto commesso con dolo o colpa in violazione degli obblighi funzionali alla conservazione della sua integrità. Le due azioni, ancorché diverse, vengono ad assumere, nell’ipotesi di fallimento, carattere unitario e inscindibile, nel senso che i diversi presupposti e scopi si fondono tra loro al fine di consentire l’acquisizione all’attivo della procedura di quel che è stato sottratto dal patrimonio sociale per fatti loro imputabili. Sicché il curatore fallimentare, quando agisce postulando indistintamente la responsabilità degli amministratori, fa valere sia l’azione che spetterebbe alla società, in quanto gestore del patrimonio dell’imprenditore fallito, sia le azioni che spetterebbero ai singoli creditori, considerate però quali azioni di massa.
L’azione di responsabilità sociale ex art. 2393 c.c. ha natura contrattuale e presuppone un danno prodotto alla società da ogni illecito doloso o colposo degli amministratori per violazione di doveri imposti dalla legge e dall’atto costitutivo, mentre l’azione di responsabilità verso i creditori sociali ex art. 2394 c.c. ha natura extracontrattuale e presuppone l’insufficienza patrimoniale cagionata dall’inosservanza di obblighi di conservazione del patrimonio sociale.
La differenza tra le due tipologie di responsabilità si coglie soprattutto in ciò: solo il creditore di una prestazione contrattualmente dovuta non è tenuto a provare l’imputabilità dell’inadempimento al debitore, sul quale grava l’onere della prova liberatoria, consistente nella dimostrazione che l’inadempimento è dipeso da una causa a lui non imputabile (art. 1218 c.c.). E tuttavia, compete pur sempre al creditore l’onere di allegare l’altrui comportamento non conforme al contratto o alla legge, oltre che di allegare e provare il danno ed il nesso di causalità. A maggior ragione, tali oneri gravano su chi agisce per far valere un’altrui responsabilità extracontrattuale, dovendo egli in aggiunta farsi carico (non solo di allegare, ma altresì) di provare il comportamento del convenuto in violazione del dovere del neminem laedere.
Grava sugli amministratori il dovere di adempiere alle obbligazioni contratte dalla società con regolarità, al fine di evitare che la società abbia danno dai ritardi o dalle omissioni nei pagamenti, ciò quindi al fine di preservare l’integrità del patrimonio sociale. In caso di inadempimento, l’amministratore ha la possibilità di provare la mancanza di provvista in capo alla società per imputare all’impotenza finanziaria il proprio inadempimento. Tuttavia, anche in questo caso, per andare esente da responsabilità, deve dimostrare di aver attivato tutti gli strumenti del caso, dalla convocazione dell’assemblea per affrontare la crisi di liquidità con il versamento di nuova finanza, fino a prendere atto dell’impossibilità della società a proseguire la gestione ordinaria per incapacità a fare fronte con regolarità le obbligazioni tributarie attivando la messa in scioglimento.
Il principio di rilevanza nella classificazione delle poste di bilancio; nullità della delibera di approvazione del bilancio
Deve ritenersi nulla la delibera di approvazione di un bilancio, ove risulti l’errata classificazione di una posta creditoria, anche ove non sia determinante per la quantificazione complessiva dell’attivo patrimoniale, ma comunque idonea ad inficiare l’esposizione generale dell’equilibrio finanziario della società, non rispettando siffatto bilancio i principi di chiarezza, veridicità e correttezza come delineati dai principi contabili OIC e dalle disposizioni di legge in materia di redazione del bilancio.
Nullità della delibera di approvazione del bilancio d’esercizio
La funzione del bilancio consiste non soltanto nel misurare gli utili e le perdite dell’impresa al termine dell’esercizio, ma – come risulta dall’art. 2423 c.c. – anche nel fornire ai soci ed al mercato tutte le informazioni che il legislatore ha ritenuto al riguardo di prescrivere. Stante la rilevata funzione informativa del bilancio, l’interesse del socio, che lo legittima ad impugnare per nullità la deliberazione di approvazione di un bilancio redatto in violazione delle prescrizioni legali, non dipende solo dalla frustrazione dell’aspettativa, dal medesimo socio vantata, alla percezione di un dividendo o, comunque, di un immediato vantaggio patrimoniale che una diversa e più corretta formulazione del bilancio possa eventualmente evidenziare, ma ben può nascere dal fatto che la poca chiarezza o la scorrettezza del bilancio non permetta al socio di avere tutte le informazioni – destinate a riflettersi anche sul valore della singola quota di partecipazione – che il bilancio dovrebbe invece offrirgli, ed alle quali, attraverso la declaratoria di nullità e la conseguente necessaria elaborazione di un nuovo bilancio emendato dai vizi del precedente, egli legittimamente aspira. Deve, pertanto, riconoscersi sussistente l’interesse del socio ad agire per l’impugnativa della detta delibera quando egli possa essere indotto in errore dall’inesatta informazione fornita sulla consistenza patrimoniale e sull’efficienza economica della società, ovvero quando, per l’alterazione od incompletezza dell’esposizione dei dati, derivi o possa derivare un pregiudizio economico circa il valore della sua partecipazione.
Il bilancio d’esercizio di una società di capitali, che violi i precetti di chiarezza e precisione dettati dall’art. 2423, co. 2, c.c. è illecito, ed è quindi nulla la deliberazione assembleare con cui esso sia stato approvato, non soltanto quando la violazione della normativa in materia determini una divaricazione tra il risultato effettivo dell’esercizio (o il dato destinato alla rappresentazione complessiva del valore patrimoniale della società) e quello del quale il bilancio dà invece contezza, ma anche in tutti i casi in cui dal bilancio stesso e dai relativi allegati non sia possibile desumere l’intera gamma delle informazioni che la legge vuole siano fornite per ciascuna delle singole poste iscritte.
L’esigenza di fornire informazioni in merito alle operazioni con parti correlate nella nota integrativa costituisce una declinazione del più generale principio di trasparenza del bilancio, poiché la conclusione di contratti con società collegate o controllate ovvero con persone fisiche in stretto rapporto con chi è tenuto alla redazione del bilancio può indurre il sospetto di conflitti d’interesse e di scelte di favore, non del tutto adeguate e rispondenti all’interesse della società. Le informazioni sono necessarie a fronte di operazioni che, sia sotto il profilo quantitativo che qualitativo, sono suscettibili di orientare e influenzare le decisioni di coloro che usufruiscono delle indicazioni e informazioni contenute nel bilancio. Per interpretare il criterio delle “normali condizioni di mercato”, che esonerano dall’obbligo di informativa, occorre valutare non solo il prezzo, ma anche le motivazioni in base a cui si è concluso l’affare con tale controparte contrattuale piuttosto che con soggetti terzi.
Nullità della delibera assembleare di s.r.l. per omessa convocazione del socio
L’omessa convocazione del socio costituisce causa di nullità della delibera assembleare in quanto assunta in totale carenza di informazione del socio pretermesso. Infatti, il disposto dell’art. 2479 ter, co. 3, c.c., nella parte in cui considera le decisioni prese in assoluta assenza di informazioni non si riferisce soltanto alla mancanza di informazioni sugli argomenti da trattare, ma anche alla mancanza di informazioni sull’avvio del procedimento deliberativo.
Ove il socio agisca in giudizio per far valere l’invalidità di una delibera assembleare, incombe sulla società convenuta l’onere di provare che tutti i soci siano stati tempestivamente avvisati della convocazione intesa quale presupposto per la regolare costituzione dell’assemblea, mentre resta a carico dell’istante la dimostrazione degli eventuali vizi inerenti alla formazione della volontà della medesima. In particolare, non può essere addossata al socio che deduca l’invalidità dell’assemblea, la prova negativa dell’inosservanza dell’obbligo di convocazione, anche se la prova gravante sulla società può essere fornita altresì mediante presunzioni. L’onere di provare l’avvenuto recapito all’indirizzo del destinatario è a carico del mittente, salva la prova da parte del destinatario medesimo dell’impossibilità di conoscere l’atto per fatti a lui non imputabili.
Esclusione del socio di s.r.l.
L’art. 2473 bis c.c. introduce nella disciplina delle s.r.l. la possibilità di sancire ipotesi di estromissione dei singoli soci per giusta causa purché vi sia una previsione statutaria che consenta lo scioglimento del vincolo sociale. Tale autonomia statutaria deve esplicarsi nel rispetto dei requisiti minimi fissati dalla legge, che devono essere individuati nella specificità delle ipotesi di esclusione e nella giusta causa. Ne deriva la necessità di clausole tassative che confluiscono nello statuto a garanzia, nell’ottica della conoscibilità a priori delle fattispecie legittimanti l’esclusione, non solo dei soci, ma anche dei terzi e dei creditori sociali che hanno rapporti con la società. Lo strumento dell’esclusione è previsto in funzione di autotutela della continuità dell’attività sociale, in tutti quei casi in cui determinate condotte del socio o vicende che lo possono riguardare incidono direttamente e in modo irreversibile sulla prosecuzione dell’attività sociale. Ne consegue, quindi, il carattere strettamente organizzativo che assume l’esclusione per la rilevanza che involge sotto il profilo della stessa struttura organizzativa, oltre che per le ricadute sotto il profilo patrimoniale.
Il sindacato giurisdizionale nell’ambito del giudizio di opposizione alla delibera di esclusione è limitato ai profili di sola legittimità, dovendosi limitare il giudice a verificare la reale sussistenza delle ipotesi previste dalla legge o dall’atto costitutivo, non potendo estendersi tale sindacato all’opportunità del provvedimento espulsivo. Invero, il sindacato giudiziale, che non deve mai incorrere in un’indagine sull’opportunità della sanzione, deve materializzarsi in alcuni casi nella valutazione della riconducibilità in concreto dei comportamenti del socio escluso alla previsione statutaria che giustifica il provvedimento di esclusione, tenendo conto a tal fine, ogni qualvolta si imbatta in previsioni statutarie che si riferiscano a comportamenti solo genericamente o sinteticamente indicati come contrari all’interesse sociale, della rilevanza della lesione eventualmente inferta dal socio all’interesse della società, atteso che la regola negoziale contenuta nello statuto sottende un criterio di proporzionalità tra gli effetti del comportamento attribuito al socio e la risoluzione del rapporto sociale a lui facente capo.
Nell’ipotesi in cui il giudizio di opposizione si concluda con un provvedimento favorevole al socio, l’annullamento della delibera di esclusione avrà effetto retroattivo, comportando la piena reintegrazione del socio nelle posizioni giuridiche vantate prima della illegittima deliberazione, fatta salva in ogni caso la possibilità di esperire l’azione di risarcimento per il ristoro dei danni subiti.
Sull’ammissibilità della revocatoria ordinaria di un atto di scissione societaria
È ammissibile l’azione revocatoria ordinaria di un atto di scissione societaria, che si attesta come rimedio diverso e complementare rispetto all’opposizione dei creditori ex art. 2503 c.c., in quanto l’azione revocatoria è finalizzata a ottenere l’inefficacia relativa dell’atto, al fine di renderlo inopponibile al solo creditore pregiudicato, avendo natura di rimedio successivo perché contesta un atto dispositivo già perfezionato, il cui effetto sia pregiudizievole per l’azione esecutiva. Diversamente, l’opposizione dei creditori sociali ex art. 2503 c.c. è finalizzata a far valere l’invalidità dell’atto.
In caso di scissione societaria – conformemente al disposto di cui all’art 2901 c.c., a mente del quale l’oggetto della revocatoria è rappresentato dagli atti con cui il debitore dispone del proprio patrimonio – l’atto oggetto di revocatoria dovrebbe individuarsi nell’assegnazione patrimoniale della società scissa alle società beneficiarie, quale momento indefettibile e necessario della scissione, che in quanto tale comporta una riduzione di parte o dell’intero patrimonio della società scindenda a favore dell’unica beneficiaria o della pluralità di beneficiarie.
Quando sia soggetto a revoca l’atto di scissione, stipulato in esecuzione di una delibera, occorre provare il carattere fraudolento di quest’ultima, da cui è sorto l’obbligo di stipula dell’atto di scissione poi adempiuto, e tale prova può essere data nel giudizio introdotto con la domanda revocatoria dell’atto di assegnazione, indipendentemente da un’apposita domanda volta a far dichiarare l’inefficacia della delibera, fermo restando che la sussistenza del presupposto dell’eventus damni per il creditore va accertata con riferimento alla stipula della scissione.
Invalidità del bilancio con svalutazioni illegittime e conseguente riduzione del capitale in misura superiore all’entità delle perdite effettive
Il sopravvenuto fallimento della società comporta il venir meno dell’interesse ad agire per l’annullamento delle deliberazioni assembleari assunte dalla società in bonis, incluse quelle relative all’approvazione del bilancio e alla ricostituzione del capitale ex art. 2447 c.c. e al successivo aumento, quando non venga dedotto e argomentato il perdurante interesse al ricorso con riguardo alle utilità attese in esito alla chiusura del fallimento.
Nelle società di capitali, il bilancio di esercizio, avendo la funzione non solo di misurare gli utili e le perdite dell’impresa, ma anche di fornire ai soci e al mercato tutte le informazioni richieste dall’art. 2423 c.c., deve essere redatto nel rispetto dei principi di verità, correttezza e chiarezza e delle regole di redazione poste dal legislatore, che, pur essendo tratte dai principi contabili e avendo un contenuto di discrezionalità tecnica, sono norme giuridiche cogenti, alla cui violazione consegue l’illiceità del bilancio e la nullità della deliberazione assembleare con cui è stato approvato, poiché le scelte operate dai redattori, nel fornire la rappresentazione contabile dell’elemento considerato, sono sempre sindacabili, salvo che non siano riconducibili all’ambito proprio delle scelte insindacabili di gestione.
I provvedimenti che l’assemblea può essere chiamata a deliberare a norma dell’art. 2446 c.c. comprendono principalmente la riduzione del capitale in proporzione delle perdite accertate. Il capitale non può essere ridotto né in misura eccedente rispetto alle perdite effettive, né in misura inferiore, non essendo lecito il frazionamento delle perdite e il rinvio di una quota agli esercizi successivi, non potendo tali provvedimenti essere fatti dipendere nella loro consistenza dalla discrezionalità degli amministratori e dei soci, dovendo altrimenti la necessaria riduzione in ragione delle perdite risultanti dal bilancio essere disposta dal tribunale. Non è diverso il caso in cui il capitale si sia ridotto di oltre un terzo al di sotto del minimo legale, perché il sistema previsto dall’art. 2447 c.c., per effetto della prescrizione della riduzione del capitale e del suo contemporaneo aumento a una cifra non inferiore al minimo legale, non indicando la legge alcun diverso criterio, implica l’osservanza del criterio di proporzionalità tra perdite e capitale, stabilito nel caso, meno grave ma analogo, dell’art. 2446 c.c. Un provvedimento deliberato dall’assemblea secondo criteri quantitativi diversi costituirebbe una grave inosservanza delle prescrizioni imperative e inderogabili della legge, tali essendo per la natura degli interessi tutelati le norme sul capitale.
L’illegittimità della deliberazione di riduzione del capitale della società, perché adottata in assenza di perdite che la giustificassero, riverbera i suoi effetti anche sulla conseguente deliberazione di ricostituzione del capitale asseritamente perduto.
Responsabilità del liquidatore: natura della responsabilità e onere probatorio in capo ai creditori
In tema di responsabilità del liquidatore nei confronti dei creditori sociali rimasti insoddisfatti dopo la cancellazione della società ex art. 2495, co. 2, c.c., il conseguimento, nel bilancio finale di liquidazione, di un azzeramento della massa attiva non in grado di soddisfare un credito non appostato nel bilancio finale di liquidazione, ma, comunque, provato nella sua sussistenza già nella fase di liquidazione, è fonte di responsabilità illimitata del liquidatore verso il creditore pretermesso, qualora sia allegato e dimostrato che la gestione operata dal liquidatore evidenzi l’esecuzione di pagamenti in spregio del principio della par condicio creditorum, applicato nel rispetto delle cause legittime di prelazione ex art. 2741, co. 2, c.c.
L’individuazione della tipologia di responsabilità in capo al liquidatore ha importanti implicazioni sull’onere probatorio che grava in capo ai creditori che intendono esercitare l’azione di responsabilità. Trattandosi di responsabilità aquiliana il detto onere sarà maggiormente gravoso, di conseguenza il creditore pregiudicato non dovrà limitarsi a dimostrare l’esistenza di presupposti oggettivi quali la condotta illecita, il danno e il nesso di causalità, ma dovrà provare anche l’esistenza del presupposto soggettivo del dolo o della colpa del liquidatore. Più nello specifico, dovrà dimostrare che il suo credito era liquido ed esigibile, ossia che nel bilancio di liquidazione vi fosse una massa attiva sufficiente e bastevole al suo soddisfacimento e che la stessa sia stata illecitamente utilizzata per il pagamento dei soci. In ultimo, il creditore dovrà provare la condotta colposa o dolosa del liquidatore, dovrà dimostrare che la mancanza dell’attivo patrimoniale sia stata cagionata dall’imperizia del liquidatore, che ha esercitato in malo modo le proprie funzioni. Sul liquidatore grava invece la cosiddetta prova liberatoria: invero, per potersi esonerare da profili di responsabilità ha l’onere di allegare e dimostrare che l’intervenuto azzeramento della massa attiva tramite il soddisfacimento dei debiti sociali non è riferibile a una condotta assunta in danno del diritto del singolo creditore di ricevere uguale trattamento rispetto ad altri creditori, salve le cause legittime di prelazione.
La responsabilità diretta verso i creditori sociali degli amministratori di società di capitali presuppone comportamenti degli amministratori funzionali a una diminuzione del patrimonio sociale di entità tale da rendere lo stesso inidoneo per difetto ad assolvere la sua funzione di garanzia generica (art. 2740 c.c.), con conseguente diritto dei creditori sociali di ottenere, a titolo di risarcimento, l’equivalente della prestazione che la società non è più in grado di compiere.
Limiti di operatività della clausola compromissoria statutaria
Le controversie in materia societaria possono formare, in linea generale, oggetto di compromesso, con esclusione di quelle che hanno ad oggetto interessi della società o che concernono la violazione di norme poste a tutela dell’interesse collettivo dei soci o dei terzi. In particolare, l’area dell’indisponibilità deve ritenersi circoscritta a quegli interessi protetti da norme inderogabili, la cui violazione determini una reazione dell’ordinamento svincolata da qualsiasi iniziativa di parte, quali le norme dirette a garantire la chiarezza, la verità e la precisione del bilancio. Attengono altresì a diritti indisponibili le controversie relative a delibere assembleari aventi oggetto illecito o impossibile, che danno luogo a nullità rilevabile anche d’ufficio, a cui sono equiparate quelle prese in assoluta mancanza di informazione. In tale ultimo ambito, tuttavia, non può essere sussunta né la mancata convocazione di un socio, né la violazione del diritto all’informazione (art. 2429 c.c.), che non costituisce un diritto indisponibile.
L’art. 2479 bis, co. 3, c.c. – che prevede l’impugnabilità nel più ampio termine di tre anni delle delibere assembleari di s.r.l. prese in assoluta mancanza di informazione – deve essere interpretato in linea sistematica con quanto disposto dall’art. 2379 c.c. in tema di nullità delle delibere di s.p.a.; onde il vizio della assoluta mancanza di informazione va riferito al solo procedimento di convocazione dell’assemblea e si risolve, quindi, nel solo caso di mancata convocazione della medesima.
L’invalidità della delibera di approvazione del bilancio e la prova delle scritture contabili
Il termine previsto dall’art. 2364 c.c. – richiamato dall’art. 2478 bis c.c. per le società a responsabilità limitata – fa riferimento non all’approvazione del bilancio, bensì alla convocazione della relativa assemblea dei soci. Inoltre, la delibera di approvazione del bilancio di una società per azioni non è invalida per esser stata adottata dopo la scadenza del termine di quattro mesi dalla chiusura dell’esercizio sociale, stabilito dall’art. 2364, co. 2, c.c., o del termine più lungo, non superiore a sei mesi, dalla detta chiusura, fissato nell’atto costitutivo, conformemente alle previsioni dell’ultima parte della disposizione citata.
La violazione dei canoni di cui all’art. 2423, co. 2, c.c. comporta l’illiceità della delibera assembleare di approvazione del bilancio per violazione di norme imperative in materia contabile. Nondimeno, la nullità della delibera può essere rilevata solo nella misura in cui la violazione determini una divaricazione tra il risultato effettivo d’esercizio (o il dato destinato alla rappresentazione complessiva del valore patrimoniale della società) e quello del quale il bilancio dà invece contezza; oppure in tutti i casi in cui dal bilancio stesso e dai relativi allegati non sia possibile desumere l’intera gamma delle informazioni che la legge vuole siano fornite per ciascuna delle singole poste iscritte
L’omessa indicazione della evoluzione prevedibile della gestione negli esercizi futuri riguarda informazioni che sono strutturalmente incompatibili con una eventuale invalidità del bilancio posto che ovviamente non risulta, neppure in astratto, idonea a incidere sulla validità del bilancio consuntivo dell’esercizio trascorso. In particolare, la relazione sulla gestione disciplinata dall’art. 2428 c.c., che si caratterizza per una funzione di illustrazione ampiamente valutativa della situazione economico/gestionale della società non scevra da proiezioni previsionali, non è oggetto di delibera assembleare in quanto non propriamente parte del bilancio d’esercizio, ed invece costituisce un “collegato” al bilancio per espressa scelta normativa. Ne discende che una mancanza che lo riguarda non può formalmente figurare come vizio determinante l’illiceità dell’oggetto di deliberazione assembleare del bilancio. Tuttavia, la delibera di approvazione del bilancio è comunque nulla allorquando i vizi informativi che affliggono la relazione sulla gestione siano tali da rendere non chiaramente intelligibile o addirittura da falsare sul punto il bilancio stesso, come potrebbe avvenire per le informazioni relative alla situazione finanziaria della società che la relazione sulla gestione necessariamente deve dare, situazione finanziaria che è, invero, anch’essa oggetto della rappresentazione veritiera e corretta che il bilancio deve rendere ex art. 2423 c.c.; in tal caso, infatti, siffatta carenza si tradurrebbe in un vizio del bilancio. In ogni caso, tali vizi informativi possono comportare l’invalidità del bilancio se e in quanto la loro capacità decettiva sia tale da inficiare chiarezza, correttezza e veridicità delle corrispondenti voci di bilancio.
L’art. 2709 c.c., nello statuire che i libri e le altre scritture contabili delle imprese soggette a registrazione fanno prova contro l’imprenditore, pone una presunzione semplice di veridicità, a sfavore di quest’ultimo. Pertanto, tali scritture, come ammettono la prova contraria, così possono essere liberamente valutate dal giudice del merito, alla stregua di ogni altro elemento probatorio e il relativo apprezzamento sfugge al sindacato di legittimità, se sufficientemente motivato. In particolare, le suddette scritture non potranno ricondursi all’ambito dell’art. 2730 c.c. (confessione stragiudiziale), non consistendo necessariamente nella dichiarazione di fatti sfavorevoli al dichiarante e non essendo rivolte a un’altra parte, precisando che ad esse non può neppure assegnarsi valore di presunzione assoluta, giacché la ratio della norma di cui all’art. 2709 c.c. non si riconnette a un interesse generale preclusivo della prova contraria, in mancanza del quale le presunzioni deve ritenersi abbiano sempre valore di presunzione relativa, così da essere compatibili con i principi e le garanzie sancite dagli artt. 3 e 24 Cost. Ne consegue che la prova che il bilancio di una società di capitali, regolarmente approvato, al pari dei libri e delle scritture contabili dell’impresa soggetta a registrazione, fornisce in ordine ai debiti della società medesima è affidata alla libera valutazione del giudice del merito, alla stregua di ogni altro elemento acquisito agli atti di causa.