Tribunale di Napoli
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Concorrenza sleale: l’illecito non può derivare dal danno commerciale in sè
La concorrenza sleale deve consistere in attività dirette ad appropriarsi illegittimamente dello spazio di mercato ovvero della clientela del concorrente, che si concretino nella confusione dei segni prodotti, nella diffusione di notizie e di apprezzamenti sui prodotti e sull’attività del concorrente o in atti non conformi alla correttezza professionale; con la conseguenza che l’illecito non può derivare dal danno commerciale in sé, né nel fatto che una condotta individuale di mercato produca diminuzione di affari nel concorrente, in quanto il gioco della concorrenza rende legittime condotte egoistiche, dirette al perseguimento di maggiori affari, attuate senza rottura delle indicate regole legali della concorrenza.
Riparto dell’onere della prova nelle azioni sociali di responsabilità
L’azione sociale di responsabilità ha pacificamente natura contrattuale e dunque, quanto al riparto dell’onere della prova, il creditore che agisce in giudizio, sia per l’adempimento del contratto sia per la risoluzione ed il risarcimento del danno, deve fornire la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto, limitandosi ad allegare l’inadempimento della controparte, su cui incombe l’onere della dimostrazione del fatto estintivo costituito dall’inadempimento; spetta quindi all’attore allegare l’inadempimento, ovvero indicare il singolo atto gestorio che si pone in violazione dei doveri imposti dalla legge o dallo statuto, e il danno derivante da tale inadempimento, mentre è onere dell’amministratore contrastare lo specifico addebito, fornendo la prova dell’esatto adempimento.
L’esercizio dell’azione sociale di responsabilità nella s.r.l., il dovere di agire informato e il nesso causale
L’esercizio dell’azione sociale di responsabilità deve essere deliberato, anche nelle società a responsabilità limitata, dall’assemblea dei soci e la mancanza di tale presupposto, incidente sulla legittimazione processuale del rappresentante della società, può anche essere rilevata d’ufficio dal giudice. L’autorizzazione assembleare, dunque, si pone come requisito necessario per attribuire al legale rappresentante della società la legittimazione processuale e la volontà dei soci deve necessariamente essere espressa mediante una deliberazione da assumersi nell’assemblea in sede ordinaria, non essendo ammesse forme equipollenti.
Anche l’amministratore di s.r.l. ha l’obbligo di agire in modo informato ai sensi dell’art. 2381, co. 6, c.c. dovendosi osservare, al riguardo, che tale obbligo si declina, da un lato, nel dovere di attivarsi, esercitando tutti i poteri connessi alla carica per conseguire al meglio l’oggetto sociale o per prevenire, eliminare o attenuare le situazioni di criticità aziendale di cui sia o debba essere a conoscenza, nonché, dall’altro lato, nell’obbligo di informarsi affinché tanto la scelta di agire quanto quella di non agire sia fondata sulla conoscenza della situazione aziendale.
In tema di responsabilità degli amministratori, il riferimento al nesso causale tra la condotta e il danno conseguito è rilevante anche da un punto di vista oggettivo, in quanto consente, come regola generale, di limitare l’entità del risarcimento all’effettiva e diretta efficienza causale dell’inadempimento e quindi a porre a carico degli amministratori inadempienti solo il danno direttamente riconnesso alla loro condotta omissiva o commissiva. Difatti, in termini di ripartizione dell’onere probatorio, incombe sugli amministratori l’onere di dimostrare la non imputabilità a sé del fatto dannoso, fornendo la prova positiva, con riferimento agli addebiti contestati, dell’osservanza dei doveri e dell’adempimento degli obblighi loro imposti. L’analisi del nesso causale si definisce mediante un duplice giudizio, il primo diretto all’individuazione del fatto idoneo a fondare la responsabilità, e il secondo diretto, di contro, a determinare l’entità del danno cagionato, che costituisce l’oggetto dell’obbligazione risarcitoria. Ne consegue che, prima facie, il concetto di causalità viene in evidenza sotto un profilo meramente materiale o di fatto, essendo teso – analogamente a quanto previsto in ambito penale ai sensi degli artt. 40 e 41 c.p. – a descrivere l’evento lesivo, mentre sotto il secondo profilo la causalità deve essere riletta in chiave quantificatoria, come può desumersi dall’art. 1223 c.c. In tale seconda fase trova applicazione la teoria della causalità adeguata o regolarità causale che attribuisce rilievo, all’interno delle serie causali così individuate, a quelle che, nel momento in cui si produce l’evento, non appaiano del tutto inverosimili, su un giudizio formulato in termini ipotetici. Un evento è, quindi, da considerare cagionato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (cosiddetta teoria della condicio sine qua non), nonché (in virtù del criterio della cosiddetta causalità adeguata) dando rilievo, all’interno della serie causale, solo a quegli eventi che non appaiono – ad una valutazione ex ante – del tutto inverosimili.
Presupposti per la vendita della quota del socio moroso ai sensi dell’art. 2466 c.c.
I soci devono eseguire i conferimenti nel termine prescritto, che varia in relazione alle caratteristiche del singolo conferimento e ad eventuali pattuizioni fra socio e società. Se nulla è previsto nell’atto costitutivo o nello statuto, spetta all’organo amministratvo richiedere ai soci, in qualunque momento, l’immediato versamento di quanto ancora dovuto.
L’art. 2466, co. 1, c.c. statuisce che se il socio non esegue il conferimento nel termine prescritto, gli amministratori devono diffidarlo ad adempiere l’obbligazione entro il termine perentorio di trenta giorni. Trattasi di una forma di costituzione in mora ex persona, la quale necessita, ai sensi dell’art. 1219, co. 1, c.c., un’intimazione o richiesta fatta per iscritto.
Decorso detto termine, in caso di inadempimento del socio, compete all’organo amministrativo, ai sensi dell’art. 2466, co. 2, c.c., la scelta discrezionale di agire nei confronti del socio moroso per l’adempimento coattivo del conferimento, ovvero di vendere, a suo rischio e pericolo – in applicazione dell’istituto della vendita per conto di chi spetta ex art. 1515 c.c. –, la quota agli altri soci, in proporzione alla loro partecipazione e per il valore risultante dall’ultimo bilancio approvato.
In tema di querela di falso, il giudice di merito davanti al quale sia stata proposta la querela di falso deve anche compiere un accertamento preliminare per verificare la sussistenza o meno dei presupposti che ne giustificano la proposizione, per evitare di dilatare i tempi di decisione del processo principale, in contrasto con il principio della ragionevole durata del processo di cui all’art. 111, co. 2, Cost.
Contratto di collaborazione professionale e sfruttamento illecito del noto marchio Sorbillo
Un marchio patronimico anteriore, di norma forte, non può essere inserito in un marchio o in una denominazione sociale altrui successiva, anche se corrispondente al nome del titolare, con riferimento a settori merceologici identici o affini, ovvero per attività economiche o intellettuali parallele a quelle contraddistinte dal marchio anteriore, a meno che tale inserimento sia conforme al principio di correttezza professionale. In particolare l’uso del marchio non è conforme agli usi consueti di lealtà in capo industriale e commerciale quando: avvenga in modo tale da far pensare che esista un legame commerciale fra i terzi e il titolare del marchio; pregiudichi il valore del marchio traendo indebitamente vantaggio dal suo carattere distintivo o dalla sua notorietà; arrechi discredito o denigrazione a tale marchio; il terzo presenti il suo prodotto come un’imitazione o una contraffazione del prodotto recante il marchio di cui egli non è il titolare.
[nel caso di specie l’utilizzo del patronimico “Sorbillo” da parte della società convenuta non ha alcuna valenza descrittiva né dell’attività né dei prodotti bensì si fonda esclusivamente sul contratto di collaborazione intercorso tra la stessa e il Sig. Sorbillo; pertanto, l’uso è prettamente a fini pubblicitari e conseguente illegittimo ai sensi dell’art. 20 e 22 cpi non essendo conforme al principio di correttezza professionale scriminante ex art. 21 cpi]
La responsabilità del socio gestore di s.r.l.: l’intenzionalità dell’art. 2476, co. 8, c.c.
L’art. 2476, co. 8, c.c. estende la responsabilità degli amministratori ai soci che hanno intenzionalmente deciso o autorizzato il compimento di atti dannosi per la società, i soci o i terzi. La norma, letta congiuntamente alle disposizioni sulla responsabilità da abuso di direzione e coordinamento (artt. 2497 ss.), disciplina il fenomeno della eterogestione nelle società, costituendo il fondamento giuridico dell’ammissibilità della responsabilità dei cosiddetti gestori di fatto delle società di capitali. La responsabilità in commento è, tuttavia, limitata alla sola ipotesi del dolo, come emerge dalla necessità che il compimento dell’atto dannoso sia stato deciso o autorizzato “intenzionalmente”, dovendo, dunque, provarsi la sussistenza della consapevolezza dell’illiceità e della dannosità dell’atto. L’intenzionalità ai fini della responsabilità del socio gestore di s.r.l. è costituita dalla riferibilità psicologica dell’atto al socio: è sufficiente al proposito che vi sia la consapevolezza, frutto di conoscenza o di esigibile conoscibilità, da parte del socio, dell’antigiuridicità dell’atto; a tal riguardo quest’ultima viene a configurarsi non solo quando l’atto deciso è contrario alla legge o all’atto costitutivo della società, ma anche quando l’atto, pur se di per sé lecito, è esercitato in modo abusivo, cioè con una finalità non riconducibile allo scopo pratico posto a fondamento del contratto sociale.
La responsabilità del socio come disciplinata ex art. 2476 c.c. ha un carattere tipico che non prevede equipollenti nell’ambito delle società azionarie. Invero, la circostanza che in materia di s.p.a. non è prevista una responsabilità dei soci è diretta conseguenza della mancanza di una norma simile a quella dell’art. 2479 c.c., che prevede la possibilità che gli statuti delle s.r.l. riservino poteri gestionali ai soci. Comunque, tale responsabilità sussisterebbe anche nell’ipotesi in cui, in assenza di un conferimento formale al socio di potere gestorio, questi abbia di fatto concorso nell’operazione intrapresa dall’amministratore, ovvero il socio abbia espresso la propria approvazione in termini autorizzativi, quindi ex ante.
Ai fini della configurabilità della responsabilità ex art. 2476, co. 8, c.c. è richiesta una specifica connotazione soggettiva dell’agire del socio, il quale potrà essere coinvolto nella responsabilità degli amministratori solo con riferimento ad atti gestori dannosi decisi o autorizzati nella piena consapevolezza delle caratteristiche dell’atto e delle possibili conseguenze, non essendo invece sufficiente la mera volontà di intervenire nella gestione della società.
Nonostante il legislatore abbia omesso di disciplinare alcuni aspetti fondamentali relativi ai presupposti della responsabilità degli amministratori di società a responsabilità limitata, quali il grado di diligenza richiesta e l’obbligo di agire in modo informato, è la stessa natura dell’incarico a richiedere che per l’amministratore di società a responsabilità limitata (secondo lo schema delle obbligazioni di mezzi) venga adottato l’approccio valutativo di cui agli artt. 1176, co. 2, e 2236 c.c.
La concorrenza sleale parassitaria si concretizza nelle ipotesi di imitazione sistematica e perdurante delle iniziative di un concorrente
La concorrenza parassitaria di cui all’art. 2598 comma 3 c.c. – consistente nell’avvalersi direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda – si riferisce a mezzi diversi e distinti da quelli relativi ai casi tipici di cui ai precedenti commi 1 e 2 e costituisce un’ipotesi autonoma di possibili casi alternativi, per i quali è necessaria la prova in concreto dell’idoneità degli atti ad arrecare pregiudizio al concorrente.
Il comma 3 dell’art. 2598 si pone come una sorta di norma di chiusura nell’ambito dell’illecito anticoncorrenziale, che secondo un orientamento ormai risalente e consolidato della giurisprudenza, sanziona quei comportamenti e quelle condotte che realizzano un’imitazione sistematica e perdurante (sebbene non integrale) delle iniziative di un concorrente che si traduce in un cammino costante sulle orme altrui. Ciò che qualifica tale attività anticoncorrenziale per sviamento di clientela, quindi, non è un’attività episodica, ma l’illiceità va desunta dalla qualificazione tendenziale dell’insieme della manovra posta in essere per danneggiare il concorrente o per approfittare sistematicamente del suo avviamento sul mercato.
Pertanto, mentre è contraria alle norme di correttezza imprenditoriale l’acquisizione sistematica, da parte di un ex dipendente che abbia intrapreso un’autonoma attività imprenditoriale, di clienti del precedente datore di lavoro il cui avviamento costituisca, soprattutto nella fase iniziale, il terreno dell’attività elettiva della nuova impresa, più facilmente praticabile proprio in virtù delle conoscenze riservate precedentemente acquisite, deve ritenersi fisiologico il fatto che il nuovo imprenditore, nella sua opera di proposizione e promozione sul mercato della sua nuova attività, acquisisca o tenti di acquisire anche alcuni clienti già in rapporti con l’impresa alle cui dipendenze aveva prestato lavoro.
Schema ABI e nullità parziale dei contratti di fideiussione
I contratti di fideiussione a valle di intese dichiarate parzialmente nulle dall’Autorità Garante, in relazione alle sole clausole contrastanti con gli artt. 2, co. 2, lett. a), l. 287 del 1990 e 101 TFUE, sono parzialmente nulli, ai sensi degli artt. 2, co. 3, della legge succitata e dell’art. 1419 c.c., in relazione alle sole clausole che riproducano quelle dello schema unilaterale costituente l’intesa vietata, salvo che sia desumibile dal contratto, o sia altrimenti comprovata, una diversa volontà delle parti. Dunque, ai fini di una declaratoria di nullità totale della fideiussione omnibus, incombe sulla parte istante la dimostrazione che i contraenti non avrebbero concluso il contratto in difetto di tali clausole.
Il provvedimento n. 55/2005 della Banca d’Italia può considerarsi prova presuntiva tanto della condotta anticoncorrenziale quanto dell’astratta idoneità a procurare un danno ai consumatori solo nel caso in cui il contratto di fideiussione sia stato concluso e sottoscritto nell’arco temporale ricompreso nell’attività d’indagine svolta dall’Autorità di vigilanza (la cui istruttoria è compresa tra il 2002 e il 2005). In tale ipotesi, infatti, l’onere della prova incombente sul fideiussore risulta parzialmente attenuato; viceversa, ove non sia ricompreso, la parte istante è onerata dell’allegazione di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie d’illecito concorrenziale dedotto in giudizio, di cui all’art. 2 l. 287 del 1990.
Rapporti tra giudizio cautelare e di merito e ratio dell’art. 96, co. 3, c.p.c.
La finalità della tutela cautelare è individuabile nella precisa salvaguardia del medesimo diritto soggettivo già fatto valere con la domanda introduttiva del giudizio di cognizione ordinaria, nonché nell’assicurazione dei medesimi effetti ottenibili a fronte della conclusione del processo già instaurato. Sussiste una relazione di accessorietà tra il giudizio cautelare e il giudizio di merito, dal momento che il requisito della strumentalità è idoneo a porsi come condizione di ammissibilità della tutela cautelare e il contenuto del futuro giudizio di merito è inquadrabile come limite oggettivo e soggettivo del contenuto del provvedimento d’urgenza, non essendo possibile attribuire alle parti beni che le stesse potrebbero conseguire solo per effetto della sentenza.
Con la previsione dell’art. 96, co. 3, c.p.c. è stata introdotta una fattispecie a carattere sanzionatorio che prende le distanze dalla struttura tipica dell’illecito civile per confluire nelle cc.dd. condanne punitive e con la quale il giudice deve responsabilizzare la parte a una giustizia sana e funzionale, scoraggiando il contenzioso fine a sé stesso che, aggravando il ruolo del magistrato e concorrendo a rallentare i tempi di definizione dei processi, crea nocumento alle altre cause in trattazione mosse da ragioni serie e, spesso, necessità impellenti o urgenti nonché agli interessi pubblici primari dello Stato. La norma configura una sanzione di ordine pubblico dettata, con finalità di deflazione del contenzioso, nell’interesse pubblico alla repressione dell’abuso del processo e di quelle condotte processuali che determinano una violazione delle regole del giusto processo e della sua ragionevole durata. Il terzo comma dell’art. 96 c.p.c. è diretto quindi a sanzionare l’abuso del processo che si invera nei casi in cui lo strumento processuale viene piegato a finalità devianti rispetto alla tutela dei diritti e degli interessi legittimi per il quale l’art. 24 Cost. garantisce il ricorso alla tutela giurisdizionale. La previsione di tale responsabilità processuale ha natura non tanto risarcitoria del danno cagionato alla controparte dalla proposizione di una lite temeraria, quanto più propriamente sanzionatoria delle condotte di quanti, abusando del diritto di azione e di difesa, si servano dello strumento processuale a fini dilatori, aggravando il volume del contenzioso; ciò è confermato, sul piano testuale, dal riferimento al “pagamento di una somma”, che segna una netta differenza terminologica rispetto al “risarcimento dei danni” di cui ai precedenti due commi dell’art. 96 e dall’adottabilità della condanna “anche d’ufficio”, che la sottrae all’impulso di parte e ne attesta la finalizzazione alla tutela di un interesse trascendente quello della parte stessa e colorato di connotati pubblicistici.
Presupposti per l’azione di responsabilità nei confronti dell’amministratore di fatto di s.r.l.
L’azione di responsabilità promossa nei confronti di più amministratori o sindaci non costituisce un caso di litisconsorzio necessario tra i convenuti, trattandosi di una pluralità di rapporti distinti, anche se collegati tra loro, e che consentono, pertanto, di agire separatamente nei confronti di ciascuno di essi.
Ai fini dell’individuazione della figura dell’amministratore di fatto della società non è necessario che l’attività posta in essere dal soggetto che si è ingerito nella gestione sociale in assenza di qualsivoglia investitura sia caratterizzata da completezza e, cioè, che sia svolta in tutti gli abiti tipici della funzione gestoria e attraverso atti conformativi dell’operato della società aventi valenza esterna. L’amministratore di fatto, esercitando dei poteri analoghi se non addirittura superiori a quelli spettanti agli amministratori di diritto, può concorrere con questi ultimi a cagionare un danno alla società attraverso il compimento o l’omissione di atti di gestione.