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Tribunale di Napoli


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21 Marzo 2022

Effetti dell’interdittiva antimafia sui procedimenti in corso

Il provvedimento amministrativo con il quale si applica l’interdittiva antimafia è reso nell’ottica di bilanciamento tra la tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica e la libertà di iniziativa economica riconosciuta ex art. 41 Cost. L’interdittiva antimafia ha come effetto quello di determinare un’incapacità giuridica parziale, in quanto limitata ai rapporti giuridici con la Pubblica Amministrazione, e comunque temporanea, potendo venir meno in ragione di un successivo provvedimento dell’autorità amministrativa competente. L’interdittiva antimafia preclude al soggetto colpito di avere con la pubblica amministrazione rapporti riconducibili a quanto disposto dall’art. 67 d.lgs. n. 159/2011 (e cioè “contributi, finanziamenti e mutui agevolati ed altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità Europee, per lo svolgimento di attività imprenditoriali”) così come impedisce al soggetto “interdetto” di ricevere poste risarcitorie sebbene originate da sentenze passate in giudicato. L’adozione di un provvedimento di interdittiva antimafia non genera in alcun modo l’estinzione del soggetto giuridico, né può far venir meno la legittimazione processuale attiva; non determina, pertanto, l’interruzione del giudizio.

Se la clausola penale svolge prima di tutto una funzione di risarcimento forfettario di un danno presunto, allora è intesa a rafforzare il vincolo contrattuale e a stabilire preventivamente la prestazione cui è tenuto uno dei contraenti qualora si renda inadempiente, così limitando il risarcimento a tale prestazione, indipendentemente dalla prova dell’esistenza e dell’entità del pregiudizio subito (come espressamente statuito ex art. 1382, co. 2, c.c.), salvo che sia convenuta la risarcibilità del danno ulteriore. Non è revocabile in dubbio che la clausola penale si atteggia a patto accessorio al contratto costitutivo delle obbligazioni e che l’oggetto della penale possa consistere tanto in una somma di danaro quanto in altra prestazione determinata in base all’autonomia negoziale delle parti, non potendo invece consistere nel trasferimento della titolarità di un determinato bene, ricorrendo in tal caso un patto commissorio affetto da nullità ex art. 2744 c.c. La clausola penale non rientra tra le clausole vessatorie e pertanto non va in nessun caso approvata specificatamente per iscritto.

14 Marzo 2022

L’insanabilità dell’azione di responsabilità per l’errata indicazione dei legittimati passivi

Il giudizio ex art. 2395 c.c. instaurato nei confronti della società verso la quale non sono state formulate domande, e priva della citazione dei soggetti – componenti il Consiglio di Amministrazione – nei cui confronti le domande sono state proposte, è causa di rigetto della domanda.
Non può pertanto essere accolta la richiesta di integrazione del contraddittorio nei confronti del terzo consigliere, in quanto la domanda, per come proposta, sconta un vizio di fondo costituito dalla citazione in giudizio di un unico soggetto (la società) che non è il legittimato passivo dell’azione; bensì, poteva essere, in caso di domanda formulata ex art. 2476 c.c. (caso diverso dal presente), il litisconsorte necessario dal lato attivo. L’ordine di integrazione del contraddittorio – richiesto ma disatteso dal giudice istruttore – ha infatti la funzione di garantire la regolarità del processo, ma non può sanare l’errata individuazione dei soggetti legittimati passivi della domanda, che attiene al merito del giudizio.

14 Marzo 2022

Strumenti cautelari per la restituzione di quote e validità delle clausole esonerative di responsabilità nell’atto di cessione

Nel contesto del ricorso volto ad ottenere la restituzione di quote di s.r.l., la tutela anticipatoria ex art. 700 c.p.c. ed il sequestro giudiziario ex art. 670 c.p.c. tendono a garantire differenti situazioni. Con lo strumento del provvedimento d’urgenza si rivendica il diritto ad ottenere la restituzione immediata delle quote così assicurando la pronta disponibilità della partecipazione societaria e di conseguenza il pieno esercizio dei diritti connessi (patrimoniali ed economici), mentre il sequestro giudiziario svolge altra funzione cautelare, limitata alla mera conservazione statica del bene, con esercizio dei diritti connessi alla partecipazione da parte di un custode giudiziario.

I patti parasociali vincolano le parti dell’accordo ma tale vincolo non dovrebbe essere idoneo sotto il profilo della meritevolezza della tutela ad incidere negativamente sull’interesse sociale. Ogniqualvolta la convenzione parasociale favorisce la tutela di un interesse a detrimento dell’interesse sociale ne mina la stessa validità, soprattutto quando determina la violazione di norme imperative o l’elusione dello statuto generale di disciplina della società di capitali interessata. L’interprete è quindi chiamato a valutare se la convenzione parasociale è legittima e quindi meritevole di protezione giuridica, semprechè il contenuto specifico o la funzione individuale del concreto accordo non conduca ad un giudizio di invalidità.

La mancanza di conformità tra gli obblighi assunti tra i paciscenti della convenzione parasociale che esclude il potere di deliberare l’azione di responsabilità e l’interesse sociale a vedersi riconosciuto il diritto di credito azionato ex art. 2392 c.c. esprime un disvalore tale da escludere la meritevolezza dell’accordo ex art. 1322 c.c. La decisione del socio nel rispetto del vincolo assunto con il patto parasociale di non votare in sede assembleare o di rinunciare all’azione di responsabilità si pone in contrasto con il principio di inderogabilità ed esclusività della competenza assembleare in merito alla rinuncia o alla transazione della predetta azione.

Contratto di cessione delle participazioni sociali e competenza della sezione specializzata in Materia d’Impresa

Le controversie inerenti al contratto di cessione delle partecipazioni sociali radicano la competenza della sezione specializzata in materia d’impresa solo ed esclusivamente se il detto contratto costituisce l’oggetto del giudizio, quindi, solo quando il thema decidendum è costituito dalla validità e/o dall’efficacia del contratto di cessione delle quote societarie. Nell’accezione di “rapporti societari” dunque non può esservi inclusa la fattispecie del semplice inadempimento contrattuale concernente il mancato pagamento di un credito legato al contratto di cessione delle quote di s.r.l.

La competenza della Sezione specializzata imprese deve essere determinata in base all’oggetto della controversia, dovendo sussistere per la sua affermazione un legame diretto tra questo, le partecipazioni sociali ed i rapporti societari, alla stregua del criterio generale del “petitum” sostanziale, identificabile in funzione soprattutto della “causa petendi”, per la intrinseca natura della posizione dedotta in giudizio. Per petitum sostanziale si intende l’intrinseca natura della posizione giuridica dedotta in giudizio. Pertanto, il Tribunale delle Imprese è competente quando la lite ha un fondamento endosocietario, ossia ha come oggetto vicende in grado di incidere e modificare concretamente la struttura della società, dei rapporti societari e quindi la vita sociale stessa [nella specie il Tribunale ha escluso la competenza della SS.II., le parti attrici non lamentando l’invalidità del contratto con cui le quote sono state trasferite, al contrario considerato regolarmente perfezionato, lamentando piuttosto il mancato pagamento di un credito collegato alla cessione delle quote].

Azione di responsabilità esercitata dal curatore e criterio della differenza dei netti patrimoniali per la quantificazione del danno

L’azione ex art. 146 l. fall., proponibile nei confronti degli amministratori e dei liquidatori della società fallita, presenta natura inscindibile ed unitaria, in quanto cumula le due possibili forme di tutela previste per la società e per i creditori di cui agli artt. 2393 e 2394 c.c., le quali si trasferiscono, con l’apertura del fallimento, in capo al curatore. Essa non rappresenta quindi un tertium genus, potendo fondarsi su presupposti sia dell’una che dell’altra azione, fermo il rispetto delle regole e degli oneri probatori inerenti a ciascuna. Così che una volta esercitata, il curatore soggiace anche agli aspetti eventualmente sfavorevoli dell’azione individuata, riguardando le divergenze non solo la decorrenza del termine di prescrizione, ma anche l’onere della prova e l’ammontare dei danni risarcibili. Non si tratta di un’azione nuova, che sorge a titolo originario in capo al curatore: la norma si limita ad attribuire al curatore la legittimazione (esclusiva) ad esercitare, in forma cumulativa, le stesse azioni che, prima del fallimento, spettavano, separatamente, alla società ed ai creditori sociali. In particolare, la differenza normativa principale tra le due fattispecie è che mentre la responsabilità degli amministratori verso la società ha natura contrattuale, la responsabilità degli amministratori verso i creditori sociali ha natura extracontrattuale, pur se fatta valere nell’ambito del fallimento.

L’amministratore di s.r.l. risponde in presenza (i) della violazione dei suddetti obblighi, (ii) della causazione di un danno al patrimonio sociale e (iii) di un nesso causale tra la violazione dei doveri e la produzione del danno.

Sebbene il legislatore abbia omesso di disciplinare alcuni aspetti relativi ai presupposti della responsabilità degli amministratori di s.r.l., quali il grado di diligenza richiesta secondo la natura dell’affare e le loro specifiche competenze e l’obbligo di agire in modo informato, è la stessa natura dell’incarico a richiedere che per l’amministratore di s.r.l. venga adottato lo stesso approccio valutativo utilizzato per gli amministratori di s.p.a. (ex artt. 1176, co. 2, e 2236 c.c.).

Il curatore che esercita l’azione di cui all’art. 146, co. 2, l. fall. ha l’onere di dimostrare l’inadempimento da parte dell’amministratore ai doveri derivanti dalla legge o dall’atto costitutivo, oppure a quello generale di diligenza, nonché ai doveri di vigilanza attiva e di intervento operoso. Deve inoltre dimostrare che la società abbia ricevuto un danno patrimoniale e che tale pregiudizio sia la conseguenza diretta e immediata dell’inadempimento degli amministratori, spettando, invece, all’amministratore la prova che l’inadempimento è derivato da causa a lui non imputabile (art. 1218 c.c.).

L’azione di responsabilità dei creditori si propone di tutelare l’integrità del patrimonio sociale, in relazione all’obbligo della sua conservazione; essa riveste natura di azione aquiliana ex art. 2043 c.c., in cui il danno ingiusto è integrato dalla lesione dell’aspettativa di prestazione dei creditori sociali a garanzia della quale è posto il patrimonio della società, trovando così fondamento nel principio generale della tutela extracontrattuale del credito di cui agli artt. 2740 e 2043 c.c.

Il curatore che agisce in giudizio per far valere la responsabilità extracontrattuale verso i creditori sociali deve provare l’inosservanza, da parte dell’amministratore, degli obblighi inerenti la conservazione del patrimonio sociale, che tali inadempimenti sono dovuti a dolo o colpa e che hanno provocato l’insufficienza del patrimonio sociale al soddisfacimento dei crediti sociali.

In forza del principio per cui gli amministratori devono amministrare la società secondo i doveri di diligenza e correttezza, in sede di verifica di tale adempimento, non possono essere sottoposte a sindacato di merito le scelte gestionali discrezionali compiute dagli amministratori, sempre che si tratti di scelte relative alla gestione dell’impresa sociale e, pertanto, caratterizzate dall’assunzione di un rischio. L’insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali di gestione tuttavia non è assoluta. Sotto il profilo della relativa legittimità rileva, infatti, il modo con cui le scelte sono state assunte ed attuate, ossia il percorso decisionale che ha portato a preferire una determinata scelta, rispetto ad un’altra. Se è vero che non sono sottoposte a sindacato di merito le scelte gestionali discrezionali, anche se presentino profili di alea economica superiori alla norma, resta invece valutabile la diligenza mostrata nell’apprezzare preventivamente — se necessario, con adeguata istruttoria — i margini di rischio connessi all’operazione da intraprendere, così da non esporre l’impresa a perdite, altrimenti prevenibili. Spetta al giudice ripercorrere il procedimento decisionale, onde verificare che la decisione degli amministratori sia stata coerente e congrua rispetto alle informazioni da questi raccolte e valutare l’eventuale violazione del dovere di diligenza in relazione ai normali criteri di liceità, razionalità, congruità e attenzione che dovrebbero ispirare l’operatore economico.

Sotto il profilo della ragionevolezza della scelta e della prevedibilità dei risultati, gli amministratori devono poi ritenersi responsabili nei confronti della società quando le decisioni assunte non siano in alcun modo idonee a realizzare l’interesse della società, in quanto avventate o irrazionali, tali da permettere agli amministratori di prevedere l’erroneità dell’operazione compiuta.

Gli amministratori andranno esenti da responsabilità nel caso in cui provino di aver in buona fede raggiunto una decisione adeguatamente informata, ragionevole e in assenza di un interesse in conflitto con quello della società e di aver seguito le cautele e svolto le verifiche che si imponevano nel singolo caso. Le scelte gestionali connotate da discrezionalità soggiacciono alla c.d. business judgment rule, secondo la quale è preclusa al giudice la valutazione del merito delle scelte effettuate con la dovuta diligenza nell’apprezzamento dei loro presupposti, delle regole di scienza ed esperienza applicate e dei loro possibili risultati, essendo consentito al giudice soltanto di sanzionare le scelte negligenti, o addirittura insensate, macroscopicamente ed evidentemente dannose ex ante.

In tema di individuazione e quantificazione del danno, compete a chi agisce dare la prova della sua esistenza, del suo ammontare, degli specifici inadempimenti imputabili all’amministratore e del loro rapporto causalità, potendosi configurare un’inversione dell’onere della prova solo quando l’assoluta mancanza, ovvero l’irregolare tenuta delle scritture contabili, rendano impossibile al curatore fornire la prova del predetto nesso di causalità; in questo caso, infatti, la citata condotta, integrando la violazione di specifici obblighi di legge in capo agli amministratori, è di per sè idonea a tradursi in un pregiudizio per il patrimonio.

Nell’azione di responsabilità promossa dal curatore del fallimento di una società di capitali nei confronti dell’amministratore della stessa, l’individuazione e la liquidazione del danno risarcibile dev’essere operata avendo riguardo agli specifici inadempimenti dell’amministratore, che l’attore ha l’onere di allegare, onde possa essere verificata l’esistenza di un rapporto di causalità tra tali inadempimenti e il danno di cui si pretende il risarcimento. Nelle predette azioni la mancanza di scritture contabili della società, pur se addebitabile all’amministratore convenuto, di per sé sola non giustifica che il danno da risarcire sia individuato e liquidato in misura corrispondente alla differenza tra il passivo e l’attivo accertati in ambito fallimentare, potendo tale criterio essere utilizzato soltanto al fine della liquidazione equitativa del danno, ove ricorrano le condizioni perché si proceda ad una liquidazione siffatta, purché siano indicate le ragioni che non hanno permesso l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore e purché il ricorso a detto criterio si presenti logicamente plausibile in rapporto alle circostanze del caso concreto.

L’art. 2486, co. 3, c.c., come modificato dal Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza, ha positivizzato il criterio per la quantificazione del danno c.d. “della differenza dei netti patrimoniali”. Tale criterio è stato utilizzato dalla giurisprudenza di merito soprattutto nelle ipotesi di prosecuzione dell’attività di impresa pur in presenza di una causa di scioglimento, ed il raffronto viene fatto, in questi casi, tra il patrimonio netto della società al momento in cui gli amministratori avrebbero dovuto accorgersi della causa di scioglimento e il patrimonio netto della società al momento della messa in liquidazione, ovvero della sentenza dichiarativa di fallimento (se non preceduta dalla fase di liquidazione). Si tratta di un criterio che consente di apprezzare in via sintetica ma plausibile l’effettiva diminuzione patrimoniale della società, anche se anch’esso sconta alcuni automatismi presuntivi che sono propri dell’altro criterio differenziale (differenza tra attivo e passivo fallimentare), in quanto non tutte le perdite riscontrate dopo il verificarsi di una causa di scioglimento possono essere riferite alla prosecuzione dell’attività, potendo in parte prodursi comunque anche in pendenza della liquidazione o durante il fallimento per il solo fatto della svalutazione dei cespiti aziendali in ragione del venir meno dell’efficienza produttiva e dell’operatività dell’impresa.

Legittimati ad agire con l’azione di simulazione sono i terzi che siano attualmente o potenzialmente pregiudicati dalla simulazione (artt. 1415, co. 2, e 1416, co. 2, c.c.), non essendo necessario che il pregiudizio sia attuale e che l’inadempimento si sia già verificato, essendo sufficiente la dimostrazione del pericolo di lesione o di insoddisfacimento del credito e della maggiore difficoltà od onerosità dell’adempimento. Infatti, a differenza dell’actio pauliana, che presuppone l’eventus damni, e per gli atti a titolo oneroso il consilium fraudis, per la proponibilità dell’azione di simulazione da parte del creditore è sufficiente che questi abbia un legittimo interesse a vedere ristabilita la verità contro l’apparenza, non occorrendo un danno effettivo del creditore stesso ed indipendentemente dall’epoca in cui è sorto il credito di chi agisce. È terzo creditore legittimato ad agire anche il titolare di un credito illiquido e non esigibile, giacché anche questi ha interesse a prevenire il danno che potrebbe derivargli dall’atto simulato, al momento in cui il credito si rendesse esigibile.

La prova della partecipatio fraudis del terzo, necessaria ai fini dell’accoglimento dell’azione revocatoria ordinaria nel caso in cui l’atto dispositivo sia oneroso e successivo al sorgere del credito, può essere ricavata anche da presunzioni semplici, ivi compresa la sussistenza di un vincolo parentale tra il debitore ed il terzo, quando tale vincolo renda estremamente inverosimile che il terzo non fosse a conoscenza della situazione debitoria gravante sul disponente.

9 Febbraio 2022

Pregiudizialità e connessione tra le azioni di responsabilità e di riduzione nei confronti dell’amministratore ed erede legittimario pretermesso

Ai sensi dell’art. 3, co. 3, del d.lgs. n. 168 del 2003 la ragione di connessione della causa con le materie di cui all’art. 3, co. 1 e 2, del medesimo decreto legislativo, in virtù della quale spetta alla Sezione specializzata in materia di impresa la cognizione sulla domanda connessa, sussiste nelle ipotesi di connessione c.d. qualificata, inquadrabile nello schema della pregiudizialità-dipendenza o della pregiudizialità tecnica, la quale afferisce alla particolare relazione sostanziale tra i rapporti giuridici controversi contemplata dagli artt. 31 ss. c.p.c.

Tra l’azione di riduzione in surroga del legittimario pretermesso e l’azione di accertamento della responsabilità contro l’amministratore esercitata ai sensi dell’art. 146 l. fall. non si configura un rapporto di pregiudizialità tecnica tale da giustificare la loro prosecuzione simultanea, ma un rapporto di pregiudizialità meramente logica tra la ragione del credito, vantata dalla curatela nell’azione di riduzione in surroga ex artt. 557 e 2900 c.c., e il rapporto giuridico complesso, da cui essa trae origine.

Ne discende che non è configurabile un’ipotesi di connessione qualificata tra le domande che fondi la competenza della Sezione specializzata in materia di impresa sulla domanda di riduzione in surroga ex artt. 557 e 2900 c.c. per ragioni di connessione.

12 Gennaio 2022

Cessazione della materia del contendere per rinuncia al progetto di fusione nell’opposizione dei creditori ex art. 2503 c.c.

Seppur con la riforma del 2003 siano venuti meno i limiti di ammissione di società sottoposte a procedure concorsuali alla fusione, rispetto a tale operazione devono essere previste idonee garanzie per i creditori della società in bonis che vi partecipi, non potendosi porre i creditori della società in bonis in condizione di par condicio con i creditori della società dichiarata fallita.

Nel contesto dell’opposizione dei creditori ex art. 2503 c.c. alla fusione per incorporazione di una società in liquidazione in una società fallita, la rinuncia al progetto di fusione nel corso del giudizio determina la cessazione della materia del contendere: se la fusione non prevedeva alcuna garanzia ulteriore rispetto alla possibilità di proporre opposizione ex art. 2503 c.c., le spese del processo vanno poste a carico della società debitrice e della società fallita.

29 Dicembre 2021

Responsabilità da direzione e coordinamento e qualificazione dei versamenti effettuati dai soci

In tema di azione di responsabilità ex art. 2497, co. 2, c.c. nei confronti degli organi della società controllante ed esercente attività di direzione e coordinamento, la norma in questione prevede unipotesi di responsabilità extracontrattuale riconducibile alla violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale dellattività di direzione e coordinamento della società controllata da parte della controllante, con il corollario, da un punto di vista processuale, dellonere della prova a carico della parte attrice in merito allesistenza dei requisiti del fatto illecito disciplinato dallart. 2497 c.c., da ricondurre nello schema aquiliano di cui allart. 2043 c.c.

Lesercizio di unattività di direzione e coordinamento rappresenta un fatto naturale e fisiologico, di per sé legittimo, che, tuttavia, al contempo richiede siano prefissati i limiti, oltrepassati i quali una tale attività diviene illegittima e fa sorgere la responsabilità di colui che, per tal modo, ne abusa: la direzione e coordinamento deve essere caratterizzata, ex art. 2497 c.c., dall’osservanza di principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale delle società controllate, nel senso che l’unitarietà della direzione non può giustificare l’utilizzo delle gestione delle imprese controllate ad esclusivo beneficio dell’interesse delle società controllanti, bensì per il coordinamento degli interessi delle due; l’inosservanza dei principi di corretta gestione predetti espone a responsabilità le società controllanti, insieme con i propri amministratori.

Lazione ex art. 2497 c.c. è soggetta al termine quinquennale di prescrizione che decorre dal momento del fatto illecito, anche se esercitata dal curatore fallimentare in luogo dei creditori della società eterodiretta, secondo la previsione dell’art. 2497, ult. co., c.c., senza che egli possa invocare il decorso del termine dalla data della dichiarazione di fallimento, dalla quale deriva solo la sostituzione della legittimazione del curatore a quella dei creditori, senza che però l’azione muti carattere.

Lart. 2497, co. 3, c.c., nel sancire che il socio e il creditore possano agire nei confronti della società che esercita attività di direzione e coordinamento solo nel caso non siano stati soddisfatti dalla società eterodiretta non prevede una condizione di procedibilità dellazione di responsabilità, consistente nell’infruttuosa escussione del patrimonio della controllata o nella previa formale richiesta risarcitoria ad essa rivolta, avendo il legislatore posto unicamente in capo alla società capogruppo lobbligo di risarcire i soci e i creditori sociali danneggiati dallabuso dellattività di direzione e coordinamento. Dunque, il socio (o il creditore sociale) che intende promuovere unazione di risarcimento del danno nei confronti di una società che ha esercitato abusivamente attività di direzione e coordinamento non è tenuto, ai sensi dellart. 2497, co. 3, c.c., ad escutere preventivamente il patrimonio della controllata, poiché tale norma non pone una condizione di procedibilità dellazione di responsabilità, ma si limita a prevedere unulteriore ipotesi, meramente fattuale, per la quale lobbligo risarcitorio in capo alla società dominante viene meno.

Il termine di prescrizione dell’azione nei confronti della società controllante e degli organi della stessa non può decorrere dal fallimento o, comunque, dall’insolvenza della società eterodiretta, ma dalla data di compimento del fatto illecito, ossia dall’inadempimento agli obblighi gravanti sugli stessi, che abbia concorso alla produzione del danno ai soci o ai creditori sociali della controllata.

Lerogazione di somme dai soci alle società da loro partecipate può avvenire a titolo di mutuo, con il conseguente obbligo per la società di restituire la somma ricevuta ad una determinata scadenza, oppure di versamento destinato a confluire in apposita riserva “in conto capitale”; in questultimo caso non nasce un credito esigibile, se non per effetto dello scioglimento della società e nei limiti delleventuale attivo del bilancio di liquidazione, connotato dalla postergazione della sua restituzione rispetto al soddisfacimento dei creditori sociali e dalla posizione del socio quale residual claimant.

La qualificazione, nell’uno o nell’altro senso, dipende dall’esame della volontà negoziale delle parti, dovendo trarsi la relativa prova, di cui è onerato il socio che richieda la restituzione, non tanto dalla denominazione dell’erogazione contenuta nelle scritture contabili della società, quanto dal modo in cui il rapporto è stato attuato in concreto, dalle finalità pratiche cui esso appare essere diretto e dagli interessi che vi sono sottesi.

La ratio della norma dell’art. 2467 c.c. è di conservare lapporto economico dei soci a servizio dellattività svolta dallimpresa sociale, al fine di evitare che il rischio correlato allimpresa priva di adeguati mezzi propri sia posto a carico dei creditori esterni alla società.

I versamenti, variamente denominati, la cui comune caratteristica consiste nell’essere destinati a incrementare il patrimonio della società senza riflettersi sul capitale nominale, vanno a costituire una riserva di capitale (e non di utili) con conseguente esclusione di qualsivoglia pretesa restitutoria per tutta la durata della società. In caso di versamento del socio in conto aumento capitale, il diritto alla restituzione (prima e al di fuori del procedimento di liquidazione) sussiste soltanto nell’ipotesi in cui il conferimento sia stato risolutivamente condizionato alla successiva delibera di aumento di capitale e tale delibera non sia intervenuta entro il termine stabilito dalle parti o fissato dal giudice. 

L’art 2467 c.c. non opera solo in caso di fallimento, ma già durante la vita dell’impresa, integrando una condizione di inesigibilità legale e temporanea del diritto del socio alla restituzione del finanziamento sino a quando non sarà superata la situazione di difficoltà economica. Ne consegue che la società è tenuta a rifiutare al socio il rimborso del finanziamento ove tale situazione di squilibrio sia esistente al momento della concessione del finanziamento ed a quello della richiesta di rimborso, che è compito dell’organo gestorio riscontrare mediante la previa adozione di un adeguato assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società, in grado di rilevare la situazione di crisi. 

La situazione di squilibrio rilevante ai fini dell’operatività della postergazione non si identifica con lo stato di insolvenza, ma nella sproporzione tra indebitamento e patrimonio netto o, comunque, in una situazione di squilibrio finanziario che avrebbe ragionevolmente richiesto un conferimento piuttosto che un finanziamento. 

La violazione della regola di cui all’art 2467 c.c. può dar luogo a plurime forme di tutela, quali una tutela di natura risarcitoria per il creditore pregiudicato, un’azione di responsabilità verso l’organo amministrativo che abbia deciso il rimborso o, in sede concorsuale, l’inefficacia dell’atto di rimborso al socio della somma a favore della società. Pertanto, sono responsabili, ai sensi degli artt. 2394 c.c. e 146 l. fall., gli amministratori di una società fallita che abbiano restituito somme ai soci in violazione dell’art. 2467 c.c. 

In tema di prescrizione del diritto al risarcimento del danno derivante da fatto dannoso imputabile a più persone, fonte di responsabilità solidale ex art. 2055 c.c., la natura del titolo di responsabilità, che fonda la pretesa risarcitoria azionata, condiziona lindividuazione del termine di durata della prescrizione per il quale, in caso di coincidenza tra fatto costituente reato e fatto determinativo dellillecito civile, si applica la più lunga durata stabilita per il primo, in base allart. 2947, ult. co., c.c.; la diversità dei titoli di responsabilità, invece, non incide sulla interruzione del termine di prescrizione di volta in volta rilevante, essendo in tal caso applicabile la regola di cui allart. 1310, co. 1, c.c., il quale rende latto interruttivo compiuto dal creditore contro uno dei debitori in solido efficace anche nei confronti degli altri debitori solidali. In tema di obbligazioni derivanti da una pluralità di illeciti ascrivibili a differenti soggetti, qualora soltanto il fatto di un obbligato sia anche reato, mentre quelli degli altri costituiscano illeciti civili, la possibilità di invocare utilmente il più lungo termine di prescrizione stabilito dallart. 2947, co. 3, c.c. per le azioni di risarcimento del danno se il fatto è previsto dalla legge come reato, è limitata allobbligazione nascente dal reato.

In tema di prescrizione del diritto al risarcimento del danno derivante da fatto illecito costituente reato, la previsione dellart. 2947, co. 3, c.c. si riferisce, senza alcuna discriminazione, a tutti i possibili soggetti passivi della conseguente pretesa risarcitoria, sicchè è invocabile non solo per lazione civile esperibile contro la persona penalmente imputabile (quale un amministratore), ma anche per quella esercitabile contro coloro che siano tenuti al risarcimento a titolo di responsabilità indiretta (quale la società, che, ai sensi dellart. 2049 c.c., risponde civilmente dell’illecito penale commesso dal suo amministratore).

Il socio che abbia intenzionalmente deciso o autorizzato il compimento di atti dannosi per la società risponde in concorso con gli amministratori dei danni arrecati alla società medesima; l’amministratore di diritto risponde delle condotte criminose poste in essere da chi si sia di fatto ingerito nella gestione dell’impresa, allo stesso invece spettante, e su cui non abbia vigilato.

28 Dicembre 2021

Interesse del socio di cooperativa a una pronuncia di accertamento della legittimità del proprio recesso

Il socio di società cooperativa a responsabilità limitata che abbia correttamente esercitato il diritto di recesso in conformità con le disposizioni statutarie (secondo quanto previsto dall’art. 2532 c.c.) ha interesse, in caso di silenzio dell’organo amministrativo, ad ottenere una pronuncia del giudice che accerti la legittimità del suo recesso alla data in cui questo è stato comunicato alla società. Infatti, il silenzio dell’organo amministrativo non ha valore di assenso alla manifestata volontà di recedere.

Dall’accertamento della legittimità del recesso, consegue il riconoscimento del diritto alla liquidazione della quota, secondo quanto previsto dall’art. 2535 c.c.

15 Dicembre 2021

Utilizzabilità della c.t.u. e inadempimento dell’amministratore nell’azione di responsabilità ex art. 146 l. fall.

Nell’ambito di un’azione di responsabilità ex art. 146 l. fall., è inutilizzabile la c.t.u. contabile nella parte in cui sia finalizzata a svolgere indagini ricostruttive della documentazione copiosa e determinante depositata dalla parte in sede di apertura dei lavori peritali. Invero, essendo la c.t.u. uno strumento di conoscenza di fatti, ne deriva che possa avere ad oggetto solo fatti e documenti già versati in atti nel rispetto dell’art. 2697 c.c. La consulenza tecnica non può infatti diventare uno strumento con il quale le parti possono aggirare le decadenze dagli obblighi di allegazione fattuale e deposito documentale in cui sono eventualmente incorse.

È certamente inadempiente e come tale direttamente responsabile l’amministratore che abbia sistematicamente omesso il versamento di tributi e oneri previdenziali, al quale è tenuto ex art. 2392 c.c., gravando il bilancio della società di sanzioni ed interessi che non vi sarebbero stati in presenza di adempimento.