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Tribunale di Napoli


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11 Aprile 2022

Il limite alla sindacabilità delle scelte gestorie dell’amministratore di s.r.l.

L’esercizio dell’azione sociale di responsabilità deve essere deliberato, anche nelle società a responsabilità limitata, dall’assemblea dei soci, ai sensi dell’art. 2487 c.c. in relazione all’art. 2393, co. 1, c.c. nel testo antecedente l’entrata in vigore del d. lgs., 17 gennaio 2003, n.3; la mancanza di tale presupposto, incidente sulla legittimazione processuale del rappresentante della società, può anche essere rilevata d’ufficio dal giudice. L’autorizzazione assembleare, dunque, si pone come requisito necessario per attribuire al legale rappresentante della società la legittimazione processuale e la volontà dei soci deve necessariamente essere espressa mediante una deliberazione da assumersi nell’assemblea in sede ordinaria (art. 2364, co. 1, n. 4, c.c.), non essendo ammesse forme equipollenti. Si ritiene che l’autorizzazione assembleare sia necessaria anche nelle società a responsabilità limitata in forza dell’applicabilità analogica dell’art. 2393 c.c. anche a questo tipo sociale.

La responsabilità degli amministratori di società di capitali per i danni cagionati alla società amministrata ha natura contrattuale, sicché la società deve allegare le violazioni compiute dagli amministratori ai loro doveri e provare il danno e il nesso di causalità tra la violazione e il danno, mentre spetta agli amministratori provare, con riferimento agli addebiti contestatigli, l’osservanza dei doveri previsti dall’art. 2392 c.c. Per quanto riguarda il nesso di causalità, deve ritenersi che un evento sia da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria della condicio sine qua non), nonché (in virtù del criterio della c.d. causalità adeguata) dando rilievo, all’interno della serie causale, solo a quegli eventi che non appaiono, ad una valutazione ex ante, del tutto inverosimili.

All’amministratore di una società di capitali non può essere imputato, a titolo di responsabilità, di aver compiuto scelte inopportune dal punto di vista economico, atteso che valutazioni di tal sorta ineriscono alla discrezionalità imprenditoriale e ricadono nell’ambito di applicazione della c.d. business judgment rule, potendo essere al più fatte valere come giusta causa della revoca dell’amministratore e non come fonte di responsabilità contrattuale nei confronti della società.

Il giudizio sulla diligenza dell’amministratore nell’adempimento del proprio mandato non può investire le scelte di gestione o le modalità e circostanze di tali scelte, pur presentando queste profili di rilevante alea economica.

È necessario che il giudizio dell’organo giudicante si limiti alla sola diligenza mostrata nell’apprezzamento preventivo e prudenziale dei margini di rischio connessi all’operazione da intraprendere. Ne deriva che rileveranno, ai fini del riconoscimento dell’inadempimento all’obbligo di diligenza ex art. 1176, co. 2, c.c. da cui discende responsabilità contrattuale, unicamente le condotte omissive delle cautele, verifiche e informazioni normalmente richieste per una scelta di quel tipo operata in quelle circostanze e con quelle modalità.

Nella delimitazione del perimetro applicativo della c.d. business judgment rule occorre riferirsi ad alcune regole fondamentali riguardanti le facoltà decisionali degli stessi amministratori nella gestione della società. L’amministratore, difatti, è tenuto ad agire in modo informato e a operare con la cautela e la diligenza da lui esigibile ex art. 2392 c.c., deve decidere nei limiti di legge e operando non in conflitto di interessi.

Non può, tuttavia, affermarsi l’assoluta insindacabilità delle scelte di gestione dell’organo amministrativo, in quanto sussistono due ordini di limiti all’operatività della business judgment rule. Innanzitutto, la scelta di gestione è insindacabile ove legittimamente compiuta e, inoltre, essa non deve essere irrazionale. Per quanto concerne il primo limite all’applicazione del principio, è necessario operare un controllo sul processo decisionale che ha portato l’amministratore a compiere una determinata scelta. Relativamente al secondo limite, è necessario che la scelta sia definita come razionale e non irragionevole; ciò implica non solo che l’amministratore abbia posto in essere la diligenza esigibile in relazione al tipo di scelta e con le cautele, verifiche e informazioni necessarie, ma che sia ulteriormente necessario che queste abbiano condotto l’amministratore ad una scelta razionale e meditata.

5 Aprile 2022

Legittimazione del curatore ad esercitare l’azione di responsabilità in caso di sequestro di partecipazioni societarie e di azienda

Ove il sequestro riguardi partecipazioni societarie, il curatore potrà esperire l’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori volontari che erano in carica prima del sequestro ovvero in costanza di sequestro. Anche in caso di sequestro di azienda, il curatore, in virtù della legittimazione processuale generale a lui riconosciuta nell’esercizio di diritti afferenti la massa dei creditori, può esercitare l’azione di responsabilità nei confronti degli atti di mala gestio compiuti dagli amministratori volontari prima del sequestro penale. Più problematico appare, invece, l’esercizio dell’azione di responsabilità rispetto a condotte tenute dagli amministratori volontari in pendenza di sequestro. In questo caso, posto che l’amministratore giudiziario gestisce l’intera azienda con tutti i suoi beni mobili, immobili, conti correnti e disponibilità finanziarie e che non residuano beni nel patrimonio sociale, osta al riconoscimento della legittimazione, la necessaria inerenza del danno, eventualmente cagionato, ad un patrimonio. In tal caso, infatti, tutti i poteri di gestione appartengono all’amministratore giudiziario mentre l’organo di amministrazione volontaria, come avviene nel caso di fallimento, è in una posizione di sostanziale quiescenza per cui l’azione, astrattamente esperibile, risulterà difficilmente fondata. Il problema potrebbe porsi, in concreto, solo nel caso in cui l’amministratore volontario si ingerisca nella gestione dell’amministratore giudiziario, assumendo il contegno di un amministratore giudiziario “di fatto”. In quest’ultimo caso la legittimazione del curatore ad esperire l’azione di responsabilità va tuttavia esclusa potendo, detta condotta, essere rilevata solo dal giudice.

30 Marzo 2022

Responsabilità dell’amministratore per danno diretto e responsabilità solidale del socio di s.r.l.

La norma di cui all’art. 2476, co. 7, c.c., nel prevedere il diritto al risarcimento dei danni spettante ai singoli soci che si assumano direttamente danneggiati da atti colposi o dolosi degli amministratori, regola, al pari di quella di cui all’art. 2395 c.c., una specie della fattispecie generale di responsabilità extracontrattuale prevista dall’art. 2043 c.c. e dell’obbligo ivi fatto al danneggiante di risarcire i danni causati contra ius a terzi con atti e fatti non iure dati. Ciò in quanto mentre il rapporto che si forma tra la società di capitali e l’amministratore ha la sua fonte in un atto di nomina e di accettazione che instaura tra le parti un vero e proprio contratto avente ad oggetto la diligente gestione – secondo statuto e legge – della società, tale per cui il dovere dell’organo amministrativo di conservare e investire al meglio il patrimonio sociale ha natura contrattuale e il suo inadempimento – anche sotto il profilo degli oneri processuali di prova – è regolati dagli artt. 1218 e 1176 c.c., per quanto concerne il rapporto tra il socio e la società il diaframma della persona giuridica è tale da rendere i soci, nei rapporti con l’amministratore, terzi sia pur qualificati privi di un diretto e vincolante rapporto obbligatorio con il gestore del patrimonio sociale. Ne consegue che, ove i soci alleghino che determinati atti gestori abbiano inferto un danno diretto alla propria sfera giuridico-patrimoniale, incombe pienamente loro la prova piena della condotta illecita – anche sotto il suo profilo soggettivo di colpevolezza – nonché del danno e del nesso di causalità, pure diretta, tra i due termini della fattispecie risarcitoria.

L’azione individuale di responsabilità in materia societaria esige che il comportamento doloso o colposo dell’amministratore, posto in essere tanto nell’esercizio dell’ufficio, quanto al di fuori delle incombenze ad esso correlate, abbia determinato un danno che incida direttamente sul patrimonio del socio o del terzo. È, invece, irrilevante che il danno sia stato arrecato dagli amministratori nell’esercizio del loro ufficio o al di fuori di tali incombenze, ovvero che tale danno sia ricollegabile ad un inadempimento della società, né, infine, che l’atto lesivo sia stato eventualmente compiuto dagli amministratori nell’interesse della società e a suo vantaggio. Infatti, dalla formulazione dell’art. 2395 c.c. emerge chiaramente come l’unico dato significativo ai fini della sua applicazione sia costituito dall’incidenza del danno. La sussistenza di una condotta dolosa o colposa degli amministratori medesimi, del danno e del nesso causale tra questa e il danno patito dal terzo contraente si pongono come elementi tanto necessari, quanto sufficienti al riguardo.

La responsabilità solidale del socio di s.r.l. di cui all’art 2476 co 8 c.c. prevede tre presupposti per il riconoscimento della responsabilità: l’alterità soggettiva del socio rispetto agli amministratori, il compimento da parte dell’amministratore di un atto dannoso e la qualità di socio del soggetto che decide od autorizza (intenzionalmente) il compimento dell’atto dannoso.

La responsabilità viene in rilievo non già per una semplice assenza di controllo e neppure, in ipotesi di effettiva esistenza dell’atto dannoso, per la mera riconducibilità di tale atto al socio, ma solo in caso di intenzionale decisione o autorizzazione, da parte del socio, di quegli specifici atti dannosi da intendersi quale piena coscienza di compiere quell’atto decisionale o autorizzatorio potenzialmente dannoso e perciò deve indicare la riferibilità psicologica dell’atto al socio. Per tale ragione, la responsabilità del socio è solidale con quella degli amministratori. Il socio per integrare la fattispecie di cui all’art. 2476, co. 8, c.c. deve aver compiuto atti o comportamenti tali da supportare intenzionalmente l’azione illegittima e dannosa poi posta in essere dagli amministratori: è sufficiente che vi sia la consapevolezza, frutto di conoscenza o di esigibile conoscibilità, da parte del socio dell’antigiuridicità dell’atto e che, nonostante ciò, costui partecipi alla fase decisionale finalizzata al successivo compimento di quell’atto da parte dell’amministratore. L’intenzionalità, in questa prospettiva, è costituita dalla piena coscienza di compiere quell’atto decisionale o autorizzatorio potenzialmente dannoso e, in definitiva, dalla riferibilità psicologica dell’atto al socio.

30 Marzo 2022

Assemblea totalitaria e abuso di maggioranza

Nel caso di mancata convocazione dell’assemblea, l’art. 2379 bis c.c. preclude al socio che, pur non essendovi convocato, abbia partecipato e ne abbia consentito lo svolgimento, di impugnare la delibera esitata dall’assemblea. In altre parole, per quell’ipotesi di totale compromissione del diritto d’informazione del socio, cui la convocazione è preordinata, in omaggio al principio generale immanente nel sistema del diritto societario – di garantire, il più possibile, la stabilità delle decisioni assembleari – il legislatore ha inteso prevedere un’ipotesi di nullità sanabile.

Di fronte a un’assemblea totalitaria, l’accertamento della presenza dell’intero capitale sociale e della maggioranza dei componenti degli organi amministrativi e di controllo esclude la rilevanza della mancanza delle formalità previste per la convocazione, il cui astratto rilievo officioso rimane neutralizzato. Tale assemblea ha competenza generale, senza che rilevi l’eventuale violazione delle norme che disciplinano la convocazione.

La disciplina dell’assemblea totalitaria contenuta al comma 4 dell’art. 2366 c.c. è da ritenersi applicabile anche alle assemblee di s.r.l.

L’esecuzione del contratto di società deve essere improntata ai ben noti canoni di correttezza e buona fede e l’abuso di maggioranza (c.d. abuso, o eccesso, di potere) può condurre all’annullamento delle deliberazioni assembleari allorquando le stesse non trovino alcuna giustificazione nell’interesse sociale – per essere il voto ispirato al perseguimento da parte dei soci di maggioranza di un interesse personale antitetico a quello sociale – oppure sia il risultato di una intenzionale attività fraudolenta dei soci maggioritari diretta a provocare la lesione dei diritti di partecipazione e degli altri diritti patrimoniali spettanti ai soci di minoranza uti singuli.

Nel nostro ordinamento non esiste una norma che identifichi espressamente la figura dell’abuso di potere nelle deliberazioni assembleari, anche se, da tempo, si ammette l’esistenza di tale fattispecie, riferendola alle ipotesi di applicazione non corretta del principio maggioritario; più precisamente, tale figura giuridica non tipizzata si estrinseca nell’esercizio del diritto di voto da parte del socio di maggioranza a danno degli altri soci, tramite l’adozione di una delibera assembleare lesiva degli interessi della minoranza, ovvero, in alternativa, in contrasto con l’interesse sociale.

Il cosiddetto abuso della regola di maggioranza costituisce una species del ben più ampio genus dell’abuso del diritto, al quale si riconducono tutte quelle ipotesi in cui un comportamento, che formalmente rappresenta l’esercizio di un diritto soggettivo, è sprovvisto di tutela giuridica o comunque illecito in quanto svolto in violazione delle regole generali di buona fede e correttezza, le quali sono di applicazione generale a tutti i rapporti giuridici obbligatori e, tra questi, anche a quelli derivanti dal contratto di società. Sussiste, infatti, la figura dell’abuso quando la decisione dell’assemblea risulta arbitrariamente o fraudolentemente preordinata dai soci di maggioranza allo scopo di perseguire interessi divergenti da quelli societari, ovvero per ledere i diritti del singolo partecipante.

29 Marzo 2022

Responsabilità dell’amministratore ex art. 2485 c.c. e mancata restituzione del ramo d’azienda in affitto

L’amministratore di S.r.l. che abbia ritardato nel rilevamento e accertamento delle condizioni di scioglimento della società per erosione del capitale sociale al di sotto del minimo legale ex art. 2484, co. 1, n. 4 c.c. omettendo l’assunzione di una delibera di aumento del capitale al di sopra del minimo ex art. 2482 ter c.c., di scioglimento o di attivazione di una procedura concorsuale per la soddisfazione dei creditori, è responsabile per il danno derivante dalla violazione dei doveri in qualità di amministratore ai sensi dell’art. 2485 c.c. laddove egli abbia omesso di restituire il ramo d’azienda in affitto già dal momento in cui l’attività caratteristica non poteva più continuare,  in considerazione dell’andamento negativo e l’aumento esponenziale dei debiti già desumibile dai bilanci degli esercizi precedenti che avrebbe richiesto piuttosto una gestione in chiave conservativa e liquidatoria, determinando per il locatore una perdita per i canoni insoluti anche tenuto conto della possibilità di affittare il ramo d’azienda a terzi a pari condizioni.

23 Marzo 2022

Giusta causa e specificità delle clausole di esclusione del socio di s.r.l.

Il socio di società a responsabilità limitata può essere escluso dalla compagine sociale solo nell’ipotesi prevista per il caso in cui il socio sia moroso rispetto al suo obbligo di conferimento e, comunque, solo successivamente all’esperimento infruttuoso del procedimento di cui all’art. 2466, 2° e 3° comma, c.c. o, alternativamente, al ricorrere delle circostanze previste dallo statuto.

La possibilità di introdurre statutariamente delle clausole di esclusione dei soci di s.r.l. richiede che venga rispettato il requisito, oltre che della giusta causa, anche della specificità.

Pertanto, deve ritenersi illegittima per mancanza di specificità la clausola di esclusione che riproduce l’art. 2286, 1° comma, c.c., nella parte in cui recita: “l’esclusione di un socio può aver luogo per gravi inadempienze delle obbligazioni che derivano dal contratto sociale”, mancando il rispetto del requisito della specificità in quanto dall’atto costitutivo devono emergere con chiarezza e precisione quali sono le obbligazioni sociali (o, comunque, i suddetti comportamenti, a carico) del socio.

21 Marzo 2022

Effetti dell’interdittiva antimafia sui procedimenti in corso

Il provvedimento amministrativo con il quale si applica l’interdittiva antimafia è reso nell’ottica di bilanciamento tra la tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica e la libertà di iniziativa economica riconosciuta ex art. 41 Cost. L’interdittiva antimafia ha come effetto quello di determinare un’incapacità giuridica parziale, in quanto limitata ai rapporti giuridici con la Pubblica Amministrazione, e comunque temporanea, potendo venir meno in ragione di un successivo provvedimento dell’autorità amministrativa competente. L’interdittiva antimafia preclude al soggetto colpito di avere con la pubblica amministrazione rapporti riconducibili a quanto disposto dall’art. 67 d.lgs. n. 159/2011 (e cioè “contributi, finanziamenti e mutui agevolati ed altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità Europee, per lo svolgimento di attività imprenditoriali”) così come impedisce al soggetto “interdetto” di ricevere poste risarcitorie sebbene originate da sentenze passate in giudicato. L’adozione di un provvedimento di interdittiva antimafia non genera in alcun modo l’estinzione del soggetto giuridico, né può far venir meno la legittimazione processuale attiva; non determina, pertanto, l’interruzione del giudizio.

Se la clausola penale svolge prima di tutto una funzione di risarcimento forfettario di un danno presunto, allora è intesa a rafforzare il vincolo contrattuale e a stabilire preventivamente la prestazione cui è tenuto uno dei contraenti qualora si renda inadempiente, così limitando il risarcimento a tale prestazione, indipendentemente dalla prova dell’esistenza e dell’entità del pregiudizio subito (come espressamente statuito ex art. 1382, co. 2, c.c.), salvo che sia convenuta la risarcibilità del danno ulteriore. Non è revocabile in dubbio che la clausola penale si atteggia a patto accessorio al contratto costitutivo delle obbligazioni e che l’oggetto della penale possa consistere tanto in una somma di danaro quanto in altra prestazione determinata in base all’autonomia negoziale delle parti, non potendo invece consistere nel trasferimento della titolarità di un determinato bene, ricorrendo in tal caso un patto commissorio affetto da nullità ex art. 2744 c.c. La clausola penale non rientra tra le clausole vessatorie e pertanto non va in nessun caso approvata specificatamente per iscritto.

14 Marzo 2022

L’insanabilità dell’azione di responsabilità per l’errata indicazione dei legittimati passivi

Il giudizio ex art. 2395 c.c. instaurato nei confronti della società verso la quale non sono state formulate domande, e priva della citazione dei soggetti – componenti il Consiglio di Amministrazione – nei cui confronti le domande sono state proposte, è causa di rigetto della domanda.
Non può pertanto essere accolta la richiesta di integrazione del contraddittorio nei confronti del terzo consigliere, in quanto la domanda, per come proposta, sconta un vizio di fondo costituito dalla citazione in giudizio di un unico soggetto (la società) che non è il legittimato passivo dell’azione; bensì, poteva essere, in caso di domanda formulata ex art. 2476 c.c. (caso diverso dal presente), il litisconsorte necessario dal lato attivo. L’ordine di integrazione del contraddittorio – richiesto ma disatteso dal giudice istruttore – ha infatti la funzione di garantire la regolarità del processo, ma non può sanare l’errata individuazione dei soggetti legittimati passivi della domanda, che attiene al merito del giudizio.

14 Marzo 2022

Strumenti cautelari per la restituzione di quote e validità delle clausole esonerative di responsabilità nell’atto di cessione

Nel contesto del ricorso volto ad ottenere la restituzione di quote di s.r.l., la tutela anticipatoria ex art. 700 c.p.c. ed il sequestro giudiziario ex art. 670 c.p.c. tendono a garantire differenti situazioni. Con lo strumento del provvedimento d’urgenza si rivendica il diritto ad ottenere la restituzione immediata delle quote così assicurando la pronta disponibilità della partecipazione societaria e di conseguenza il pieno esercizio dei diritti connessi (patrimoniali ed economici), mentre il sequestro giudiziario svolge altra funzione cautelare, limitata alla mera conservazione statica del bene, con esercizio dei diritti connessi alla partecipazione da parte di un custode giudiziario.

I patti parasociali vincolano le parti dell’accordo ma tale vincolo non dovrebbe essere idoneo sotto il profilo della meritevolezza della tutela ad incidere negativamente sull’interesse sociale. Ogniqualvolta la convenzione parasociale favorisce la tutela di un interesse a detrimento dell’interesse sociale ne mina la stessa validità, soprattutto quando determina la violazione di norme imperative o l’elusione dello statuto generale di disciplina della società di capitali interessata. L’interprete è quindi chiamato a valutare se la convenzione parasociale è legittima e quindi meritevole di protezione giuridica, semprechè il contenuto specifico o la funzione individuale del concreto accordo non conduca ad un giudizio di invalidità.

La mancanza di conformità tra gli obblighi assunti tra i paciscenti della convenzione parasociale che esclude il potere di deliberare l’azione di responsabilità e l’interesse sociale a vedersi riconosciuto il diritto di credito azionato ex art. 2392 c.c. esprime un disvalore tale da escludere la meritevolezza dell’accordo ex art. 1322 c.c. La decisione del socio nel rispetto del vincolo assunto con il patto parasociale di non votare in sede assembleare o di rinunciare all’azione di responsabilità si pone in contrasto con il principio di inderogabilità ed esclusività della competenza assembleare in merito alla rinuncia o alla transazione della predetta azione.

Contratto di cessione delle participazioni sociali e competenza della sezione specializzata in Materia d’Impresa

Le controversie inerenti al contratto di cessione delle partecipazioni sociali radicano la competenza della sezione specializzata in materia d’impresa solo ed esclusivamente se il detto contratto costituisce l’oggetto del giudizio, quindi, solo quando il thema decidendum è costituito dalla validità e/o dall’efficacia del contratto di cessione delle quote societarie. Nell’accezione di “rapporti societari” dunque non può esservi inclusa la fattispecie del semplice inadempimento contrattuale concernente il mancato pagamento di un credito legato al contratto di cessione delle quote di s.r.l.

La competenza della Sezione specializzata imprese deve essere determinata in base all’oggetto della controversia, dovendo sussistere per la sua affermazione un legame diretto tra questo, le partecipazioni sociali ed i rapporti societari, alla stregua del criterio generale del “petitum” sostanziale, identificabile in funzione soprattutto della “causa petendi”, per la intrinseca natura della posizione dedotta in giudizio. Per petitum sostanziale si intende l’intrinseca natura della posizione giuridica dedotta in giudizio. Pertanto, il Tribunale delle Imprese è competente quando la lite ha un fondamento endosocietario, ossia ha come oggetto vicende in grado di incidere e modificare concretamente la struttura della società, dei rapporti societari e quindi la vita sociale stessa [nella specie il Tribunale ha escluso la competenza della SS.II., le parti attrici non lamentando l’invalidità del contratto con cui le quote sono state trasferite, al contrario considerato regolarmente perfezionato, lamentando piuttosto il mancato pagamento di un credito collegato alla cessione delle quote].